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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
27.01.2006 Prove tecniche di irresponsabilità
i politici italiani e la vittoria elettorale di Hamas

Testata:Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: Aldo Cazzullo - la redazione - Alessandra Longo
Titolo: ««Islam e democrazia, le elezioni non bastano» - Bertinotti: è un problema. Ma Diliberto: colpa di Gerusalemme - Andreotti, l´amico di Arafat: "Dialogo con Hamas"»

Per Giuliano Amato la responsabilità della vittoria di Hamas è almeno in parte di Israele, la cui risposta militare al terrorismo è spesso andata "oltre il segno, con dure rappresaglie mai sufficientemente mirate che hanno portato alla morte di civili e di bambini" Va ricordato che Israele non effettua "rappresaglie", ma esclusivamente azioni  dirette contro i terroristi. Poiché questoi si nascondono tra i civili  a volte è impossibile non colpire innocenti. Ma rinunciare all'azione vorrebbe quasi sempre dire accettare  il verificarsi di un attentato.
Ecco l'intervista di Aldo Cazzullo pubblicata dal Corriere della Sera :

  Presidente Amato, dalla Palestina non giungono buone notizie. «No. Si allunga la lista dei Paesi in cui le elezioni, ritenute il fulcro della democrazia, portano al potere gruppi che democratici non sono, hanno usato violenza o si dichiarano pronti a usarla. Questa tendenza cominciò all'inizio del ciclo storico che stiamo vivendo, con il rinvio delle elezioni algerine cui seguì il colpo di Stato e la guerra civile. L'Egitto è stato ed è in ebollizione, a ogni voto cresce un movimento di cui si teme l'ascesa al potere, quello dei Fratelli musulmani. Per molti è stato una sorpresa l'esito delle elezioni iraniane: si era consapevoli che il riformismo di Khatami fosse ormai debole, ma si credeva nel successo di una figura più collaudata e ritenuta più affidabile come Rafsanjani. E ora in Palestina vince un movimento inserito fin dal 2003 nella lista dei gruppi terroristici. È giusto chiedersi: che cos'è che non va? Dobbiamo concludere che ci sono Paesi poco adatti alla democrazia? O dobbiamo piuttosto chiederci, e chiedere ai nostri amici americani, che cosa intendiamo per democrazia?». Lei che cosa intende? «Un grande orientale come Amartya Sen ha messo in dubbio che la democrazia coincida con un processo elettorale. Credo abbia ragione. Dovremmo saperlo bene, visto che ce lo ha ripetuto più volte Norberto Bobbio. Una democrazia si identifica certo con un sistema elettivo dei dirigenti e con il principio di maggioranza, ma anche con le garanzie delle minoranze, il radicamento delle libertà fondamentali e il rispetto della persona, che implica la scelta della pace in luogo della violenza. Esistono quindi requisiti sostanziali e non solo processuali. Noi, che vorremmo che la democrazia prendesse piede ovunque, dobbiamo chiederci se facciamo abbastanza per garantirne i fondamenti; altrimenti se ha senso, quando dipende da noi, far avanzare le procedure elettorali in mancanza delle altre condizioni. Perché in tal caso andremmo incontro ad altre amare sorprese». Sta dicendo che, piuttosto che votare in certe condizioni e con certi risultati, è meglio non votare? «Lo dico consapevolmente. Spesso è anche una nostra responsabilità fare il possibile perché esistano le condizioni necessarie. Nel caso palestinese, il risultato di oggi è stato favorito più che prevenuto». Favorito? «I nodi vengono sempre al pettine. La politica d'Israele in tutti questi anni, pur fortemente motivata dalla difesa della propria sopravvivenza, è spesso andata oltre il segno, con dure rappresaglie mai sufficientemente mirate che hanno portato alla morte di civili e di bambini. Tutto questo lascia un segno terribile in una popolazione debole e sottoposta a continui choc. Poi c'è stata la costruzione del muro. A Sharon va giustamente ogni riconoscimento per aver cominciato a sgomberare i Territori. Ma quanti ettari quadrati dei Territori sono stati occupati con l'incentivo del governo? E allora cento ettari occupati pesano più di un ettaro dis-occupato». Tutta colpa di Israele? «No. L'Autorità palestinese non è stata capace di farsi percepire come effettiva autorità di governo. Hamas, cui non sono mancate le risorse finanziarie, ha fornito i servizi che l'Autorità non forniva. Ce ne siamo preoccupati abbastanza? E ci siamo preoccupati della sorte dei denari che noi europei abbiamo versato ai palestinesi? Una parte è servita a finanziare un sistema educativo in cui circola una letteratura pesantemente antiebraica, non diversa da quella della Germania anni 30. Questo ci conduce a ripensare alla figura di Arafat e alla sua ambiguità. Forse era inevitabile che l'eroe della guerra non potesse essere l'eroe della pace. Resta il fatto che sotto di lui sono cresciuti per anni Fatah e Hamas, la mano destra e la mano sinistra di una Palestina che ha condannato se stessa a dover scegliere tra l'una e l'altra». La sinistra italiana non ha forse le sue responsabilità? «La sinistra italiana ha avuto un rapporto molto stretto con i palestinesi, anche se certo non da sola: penso in particolare alla Spagna e alla Francia. La realtà è che l'Europa, più vicina ai palestinesi, e gli Stati Uniti, più vicini a Israele, non hanno esercitato da un lato e dall'altro l'influenza che avrebbero dovuto. Spesso Washington è stata condizionata dalla lobby ebraica americana più di quanto accadesse nella direzione inversa: più che influire su Israele, gli Usa erano influenzati dalle posizioni più estreme presenti in Israele. Questo non è accaduto con Clinton ma con altre amministrazioni, compresa questa. Mentre l'Europa finanziava Arafat, che non organizzava l'Autorità ma ha continuato a usare il contante sino alla sua morte; per non insistere sulla letteratura antiebraica». Che cosa accadrà ora? Come deve muoversi l'Europa? «Già due anni fa una commissione, di cui facevano parte occidentali illustri come Felipe Gonzalez, auspicava l'ingresso di Hamas nel circuito democratico. Non sarebbe la prima volta che un movimento armato si purifica nella democrazia. Sta accadendo agli albanesi in Macedonia, ad esempio». In Iran la democrazia ha portato al potere un estremista antisemita. «In Iran, di fronte a un regime già stabilito, era molto meno quello che potevamo fare. Ma la lezione resta la medesima: c'è un limite inesorabile alla procedura elettorale, il che vale anche per un Paese come l'Iran, che pure ha una élite crescente democratica e filoccidentale. Ma l'estremismo, che a quanto mi risulta è minoritario tra gli stessi religiosi, fa leva sulle masse meno preparate dell'elettorato». Si parla di sanzioni. «Non credo nello strumento delle sanzioni: hanno sempre rafforzato anziché indebolire le dittature. Sono fautore di una tesi diversa: noi da tempo avremmo dovuto offrire all'Iran quegli investimenti stranieri di cui ha bisogno, condizionandoli come minimo alla chiarezza sul nucleare. Un bastone sotto forma di ritiro di una grossa carota». Anche in Iraq si è votato, dopo l'intervento americano. Qualcuno ne ha visto una conseguenza anche nella riscossa antisiriana del Libano. «Questo sarebbe accaduto comunque. Il Libano è un Paese particolarmente evoluto, e i libanesi si sarebbero ribellati in ogni caso al dominio siriano. Quanto all'Iraq, l'intervento americano fu un errore anche perché mancò la previsione degli effetti. Forse è troppo dire che gli americani si aspettavano di essere accolti come a Roma nel giugno del '44. Certo si aspettavano che, rimosso il dittatore, le elezioni avrebbero risolto il problema. Ma lo dovevano sapere che i sunniti, i quali avevano governato l'Iraq da soli e per di più attraverso una dittatura, sarebbero divenuti una minoranza che gli sciiti avrebbero escluso». A sinistra è in corso un dibattito sulla dottrina dell'esportazione della democrazia. Già un anno fa al congresso Ds D'Alema spiegava di preferirla all'appoggio alle dittature militari, come negli anni 70. «Questo è giusto. Il paradosso è che sia stata l'amministrazione Bush a farcelo ricordare. Ma l'autodeterminazione dei popoli è da sempre un tema caro alla sinistra; penso a una personalità come Lelio Basso e al suo tribunale Russell. Un conto però è sostenere l'autodeterminazione dei popoli, un altro imporla dall'esterno con un intervento militare. Questo non ci deve impedire di riconoscere che noi tutti abbiamo sonnecchiato a lungo, mentre perduravano regimi autoritari sotto cui soffiava la crescita dei fratelli musulmani e di altri estremisti. Il lavoro che persone come Emma Bonino facevano, e suggerivano di fare, andava e va preso molto sul serio».

Tra le reazioni politiche alla vittoria di Hamas si segnala negativamente quella di Oliviero Diliberto dei Comunisti italiani, che dà la colpa a Israele. Ecco, dal Corriere, l'articolo "Bertinotti: è un problema. Ma diliberto:colpa di Gerusalemme".

 «Indubbiamente la vittoria di Hamas costituisce un problema, è un risultato inaspettato. Questo richiede però all'Occidente di riflettere criticamente sulle conseguenze dei suoi atti». Fausto Bertinotti, segretario di Rifondazione, è spiazzato dal risultato delle elezioni palestinesi e ricostruisce con preoccupazione i cambiamenti degli ultimi anni: «Il popolo palestinese fino a 10 anni fa era totalmente immune da ogni tendenza fondamentalista. Aveva una grande cultura laica. In poco più di 10 anni Hamas è diventata la prima forza palestinese, ha avuto un ruolo di supplenza diventando l'unico Stato sociale in Palestina». I motivi dell'ascesa di Hamas, per Bertinotti, sono sociali: «Pensiamo sempre al ritiro delle truppe dai territori occupati deciso da Sharon, ma dimentichiamo le condizioni di vita. Bisogna interrogarsi sulle devastazioni che produce la guerra e l'occupazione». Ma qualche colpa ce l'ha anche la dirigenza palestinese: «Hamas si è affermata anche perché c'è stato uno scollamento tra l'Autorità palestinese e il popolo». Sulla stessa linea Luisa Morgantini, eurodeputata del Prc, anche se quella di Hamas era «una vittoria annunciata». Detto questo «la responsabilità è della comunità internazionale». Ora, aggiunge la Morgantini, «occorrerà cercare il dialogo con la parte più moderata di Hamas». Il segretario dei Comunisti italiani Oliviero Diliberto spiega: «È ovvio che avrei preferito una vittoria di Al Fatah, ma bisogna rispettare le decisioni democratiche del popolo palestinese». Poi accusa il governo israeliano: «Chi semina vento raccoglie tempesta. A furia di predicare odio e tenere i palestinesi in condizione di umiliazione il governo israeliano ha dato spazio alle tendenze più fondamentaliste». Pippo Gianni (Prc) invita a rispettare il verdetto delle urne: «Si eviti l'effetto Algeria: niente colpi di Stato. Hamas non è solo terrorismo, così come viene dipinto in Occidente».

Per Andreotti Hamas deve subito essere riconosciuto come interlocutore, sull'esempio di quanto fatto con Arafat (sappiamo con quali risultati) e perché "nonostante la risoluzione del 1948, uno Stato palestinese non esiste ancora. siamo tutti inadempienti internazionalmente". Come dire che uno Stato palestinese deve nascere comunque, senza tenere nella minima considerazione la sicurezza di Israele. Ecco il etsto dell'intervista di Alessandra Longo pubblicata da La Repubblica:

ROMA - «Di fronte alla vittoria schiacciante di Hamas non vedo altra prospettiva che rilanciare politicamente, compiere un gesto significativo che dia il segno di una volontà di aiuto nei confronti del popolo palestinese». Giulio Andreotti, che Arafat definiva «un amico della causa», non segue il coro dei commenti tranchant, del «non avremo mai a che fare con i terroristi anche se sono al governo». Teorico dell´ "equivicinanza", del "doppio binario", della necessità del dialogo sia con Israele che con i palestinesi, il senatore a vita non abbandona la filosofia di politica estera che ha contraddistinto i suoi molti anni alla Farnesina.
Senatore, i commenti internazionali sono tutti improntati alla preoccupazione, al timore che con i nuovi interlocutori in posizione dominante muoia ogni speranza di pace.
«Per la verità, io ricordo che quando Hamas era solo una piccolissima realtà nell´arcipelago palestinese, quelli che adesso vengono definiti moderati non avevano tutto questo ascolto, anzi Arafat era l´anima nera, il grande nemico. Comunque questo è il passato che è passato. Adesso bisogna fare i conti con la realtà».
Come?
«Io credo che Israele, l´Onu, debbano fare qualcosa che dia il segno di un´apertura».
Per esempio?
«Penso ai campi di concentramento dei palestinesi in Libano. Gente che sta lì da 50 anni, che è nata lì. Va rilanciato un processo di sistemazione graduale, va offerto ai rifugiati un progetto, un orizzonte di vita».
Bush ha già detto che con Hamas non trattava prima e non tratterà nemmeno adesso. Davvero pensa che la risposta a quest´affermazione del movimento fondato da Yassin debba essere un rilancio politico?
«E che cos´altro può essere? Definirli terroristi e astenersi da ogni contatto non è un percorso. Bisogna fare un gesto, dare un segno, considerando anche che da loro può arrivare una reazione diversa da quella che hanno avuto finora. I movimenti di liberazione, quando vanno al governo, assumono atteggiamenti nuovi, necessariamente hanno più limiti nella loro azione».
Quindi lei dissente dalla durezza americana?
«Io vorrei solo ricordare che, nonostante la risoluzione dell´Onu del 1948, uno stato palestinese non esiste ancora. Siamo tutti inadempienti internazionalmente. Certo, nessuno di noi ha la soluzione in tasca ed è un peccato che la grave malattia di Sharon abbia bloccato l´inizio di una strada diversa».
L´operazione Gaza, il ritiro dei coloni, allora non sono serviti a niente?
«Al contrario, hanno ridato una speranza. Ma non dimentichiamo che la costruzione del muro non si è fermata e anche questa politica non è stata indenne da contraddizioni».
Rania di Giordania attribuisce il successo di Hamas alle difficoltà di vita dei palestinesi nei Territori.
«Proprio per questo è necessario dare una risposta positiva. Si può cominciare dai palestinesi nel Libano, ma anche da altro».
Il ruolo dell´Italia?
«Nessuno in particolare, direi. E´ l´Europa che deve muoversi. Ricordo che nel 1980, a Venezia, il Consiglio europeo parlò per la prima volta di dialogo tra palestinesi e israeliani. Quella è la traccia da seguire».

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