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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Repubblica - La Stampa - Avvenire - L'Unità Rassegna Stampa
27.01.2006 Dopo la vittoria di Hamas: i nuovi luoghi comuni e i nuovi pretesti per continuare a negare solidarietà a Israele
"E' colpa di Sharon", "Israele deve trattare", "l'Anp deve comunque essere finanziata", e persino " ha vinto Netanyahu"

Testata:La Repubblica - La Stampa - Avvenire - L'Unità
Autore: Anais Ginori - Igor Man - Luigi Geninazzi - Luigi Bonanate
Titolo: «Così la Jihad sfrutta la democrazia - Passo indietro di qundici anni - Un gioco d'azzardo permanente - La svolta di sharon scattata troppo tardi - E se vincesse la democrazia»

La vittoria di Hamas "'é colpa di Sharon" sostiene Gilles  Kepel intervistato da Anais Ginori su la REPUBBLICA di venerdì  27 gennaio 2006. Era prevedibile:  a fronte del ritiro israeliano da Gaza, dell'annunciato ritiro dalla Cisgiordania, della possibilità concreta di costruire uno Stato (certo sprecata dalla classe dirigente di al Fatah) i palestinesi scelgono un partito estremista e terrorista come Hamas. E la colpa è naturalmente, per i commentatori che devono difendere ad ogni costo una società preda dell'odio politico, religioso e razzista in essa accuratamente instillato da decenni, dell'uomo che in tanti "amano odiare". Il "boia" Sharon" .

ROMA - Sorpreso? «No, quello che sta accadendo è l´effetto prevedibile della politica di Sharon». Da attento studioso dei movimenti islamici, Gilles Kepel trae un´analisi contro-corrente sulla vittoria di Hamas alle elezioni palestinesi. «Mahmud Abbas era diventato uno zombie, intorno a lui e all´Anp si era creato un grande vuoto di potere e credibilità. Hamas ha riempito questo vuoto. Le conseguenze adesso sono imprevedibili». A Roma per partecipare al programma di rendez-vous culturali lanciati a Palazzo Farnese, Kepel stenta a nascondere la sua preoccupazione. «Di colpo, sia Israele che la Palestina si trovano con una leadership incerta».
Perché accusare Israele di aver condizionato questo voto? Non si tratta piuttosto di una radicalizzazione interna alla società palestinese?
«Hamas è riuscito a sposare due vocazioni, sociale e militare, entrambi molto importanti per la Palestina. Il matrimonio tra l´anima dedita alla carità e quella che organizza gli attentati suicidi è il segreto di questo successo politico. Ma senza la debolezza di Fatah non sarebbe stata una vittoria così schiacciante».
Il mondo mediorientale sembra però andare sempre più verso posizioni estremiste, come per esempio l´elezione in Iran di Mahmud Ahmadinejad.
«La stagione riformista in Iran si è conclusa perché Khatami non aveva saputo coalizzare le classi più povere della società. Sono paragoni fuorvianti».
Non è scioccante vedere un´organizzazione terroristica prendere il potere?
«Per quanto discutibile, dobbiamo ricordarci che i palestinesi giudicano in modo molto diverso i "loro" attentati suicidi da quelli di Al Qaeda. Non dico che sia giusto. Ma occorre sapere che nel mondo musulmano è in atto un forte dibattito tra la jihad locale, la guerra santa di Hamas in Palestina, e quella globale di Al Qaeda. E´ un po´ come la differenza tra i rivoluzionari stalinisti e trotskisti».
Lei ha parlato di "fitna", la lotta interna alla società islamica.
«Le divisioni sono tante. Per esempio, Ayman al Zawahiri ha chiesto ad Abu Musab al Zarqawi di smettere di uccidere sciiti in Iraq perché danneggia l´immagine di Al Qaeda tra i musulmani».
Sta dicendo che Al Qaeda è più debole? Eppure è di pochi giorni fa l´ultimo messaggio di Osama Bin Laden.
«Da un anno ormai è Al Zawahiri è la vera mente di Al Qaeda. Bin Laden ha voluto lanciare un segnale ai suoi seguaci per riaffermarsi come leader».
Il risultato palestinese capovolge le prospettive: come potrà Israele continuare un negoziato di pace con chi usa kamikaze?
«Credo che sia stato questo il più grave errore di Ariel Sharon: volere a tutti i costi indebolire il suo interlocutore. Lo stesso ritiro da Gaza, deciso unilateralmente e senza negoziato con l´Anp, è stata una mossa che ha fragilizzato Mahmud Abbas. Ovviamente, l´Anp era sempre più impopolare per la sua corruzione».
Dall´opposizione al governo. Come può cambiare Hamas?
«Si tenterà di trovare un accordo con Fatah per formare un governo di coalizione. Altrimenti la Palestina rischierebbe un isolamento internazionale insostenibile. La rivoluzione islamica in Iran ha potuto contare sul petrolio. La Palestina invece non ha niente: sopravvive grazie a finanziamenti dall´Europa e dei paesi petroliferi arabi».
Perché Hamas ha deciso di rendere "politico" il suo movimento?
«La militanza armata adesso si combina con la democrazia. I Fratelli Musulmani hanno iniziato ad usare il voto democratico per raccogliere una legittimità politica. Si sono presentati alle elezioni in Egitto e adesso Hamas, che è il loro braccio locale, fa altrettanto nell´ambito di un rimescolamento delle intese internazionali».
Ovvero?
«Gli Stati Uniti cercano il modo di ritirarsi dall´Iraq. A Washington, il gruppo che è succeduto ai neocon, fatto di persone più realiste e meno ideologiche, ha deciso di appoggiarsi ai Fratelli Musulmani per tentare di stabilizzare la regione. L´alleanza non è sfuggita ad Al Zawahiri che ha definito i Fratelli Musulmani "lacchè" dell´imperialismo americano».
Certamente gli Usa non potranno mai dialogare con Hamas finché non rinuncerà all´attività terroristica.
«E´ presto per trarre conclusioni. Dobbiamo aspettare di capire come questa vittoria elettorale cambierà Hamas e quali equilibri politici si formeranno».
Che effetto avrà questo risultato sulle elezioni israeliane?
«Nel passato la matematica elettorale ha dimostrato che più Hamas è forte più cresce il Likud. Benjamin Netanyahu sfrutterà fino in fondo la paura che suscita negli israeliani l´ascesa al potere di Hamas: spera di replicare la vittoria del 1996 causata in larga misura dagli attentati kamikaze».

Bernardo Valli nel suo editoriale pubblicato da REPUBBLICA  si concentra su un altro luogo comune corrente, che fa il paio con quello per cui "la colpa è di Israele": Israele deve trattare con Hamas. Sbagliato sarebbe, ovviamente chiedere preventive prove della disponibilità del gruppo terroristico a un dialogo non meramente tattico, finalizzato solo ad acquisire vantaggi per meglio raggiungere il suo obiettivo finale di annientamento genocida degli ebrei in Medio Oriente, ma anche l'abbandono del terrorismo, dato che il dialogo con l'Olp (che ha dato a Israele così buoni frutti: migliaia di morti e le condanne della comunità internazionale) è stao possibile solo accettando di tratatre coi terroristi (il che è falso: l'Olp si era impegnata a farla finita col terrorismo).

Un primo sguardo alla nuova mappa politica affiorata nella notte tra mercoledì e giovedì dà l´impressione che il calendario sia arretrato di almeno tre lustri, in quella sottile lingua di terra che appassiona il mondo con il suo inarrestabile dramma. Un passo indietro di quindici anni ci riporta ai primissimi anni Novanta, quando israeliani e palestinesi erano rinchiusi in un dogmatico rifiuto che impediva un reciproco riconoscimento. Ad Al Fatah, principale componente dell´Olp, che con gli accordi di Oslo (1993) riconobbe poi lo Stato ebraico, il quale a sua volta riconobbe l´Olp, succede adesso al governo del non ancora nato, né disegnato, Stato palestinese, un partito islamico armato, Hamas, che prevede nel suo statuto, come un tempo l´Olp, la distruzione di Israele.
E Israele esclude, come allora, di potere trattare con un governo dominato da una formazione che si propone quell´obiettivo, e che negli ultimi cinque anni ha rivendicato cinquantotto attentati terroristici, che hanno fatto centinaia di vittime tra i civili israeliani. Non è un deludente, tragico, passo in dietro?
Mercoledì sera, all´uscita dei seggi, dove aveva votato per il nuovo Parlamento la stragrande maggioranza dei palestinesi, i primi sondaggi tra gli elettori avevano anticipato un risultato rivelatosi la mattina dopo inesatto. I palestinesi si erano addormentati convinti di avere vissuto un´importante svolta politica: l´inedito ingresso di Hamas nel nuovo Parlamento con un forte numero di eletti. E a loro volta gli israeliani si erano addormentati rassicurati dal fatto che Al Fatah, pur perdendo il monopolio del potere, restava più forte di Hamas. Al risveglio gli uni e gli altri hanno saputo del terremoto politico avvenuto nella notte con lo spoglio dei voti reali. Hamas ha conquistato la maggioranza dei seggi (76 su 132), distanziando ampiamente Al Fatah (ridotto a soli 43).
Quindi Hamas formerà e dirigerà il nuovo governo. La democrazia ha portato i terroristi al potere. Riassunta cosi la notizia provoca reazioni che vanno dal rifiuto all´euforia. Pone problemi non solo politici. Come comportarsi in un mondo afflitto dal cancro del terrorismo, quando un partito che lo pratica viene legittimato dal voto? Israele ritorna in preda all´angoscia della sicurezza. L´America ribadisce che si rispetta la democrazia ma non si tratta con i terroristi che essa partorisce. L´Europa è meno intransigente, ma divisa e incerta nei suoi giudizi, e si chiede a chi dare adesso gli aiuti destinati ai palestinesi, se Hamas non può usufruirne, figurando nella lista nera delle formazioni terroristiche. Nel mondo arabo si esulta e ci si interroga. E adesso?
Anzitutto va spiegata la scelta dei palestinesi. Essi hanno abbandonato Al Fatah non solo perché ha governato male, perché i suoi dirigenti erano corrotti e arroganti. L´ha relegato in un angolo perché non ha saputo dare un contenuto positivo ai suoi agitati, tormentati compromessi con Israele. L´occupazione continua, e con essa le umiliazioni, i posti di blocco, le difficoltà di muoversi da una città all´altra, i fili spinati, il difficile accesso al lavoro in Israele, il miraggio sempre più lontano di uno Stato palestinese. La stessa evacuazione di Gaza è avvenuta per iniziativa unilaterale di Ariel Sharon. Mahmud Abbas (Abu Mazen) non è stato consultato.
E´ stato abbandonato a se stesso. La saggezza avrebbe dovuto spingere il governo israeliano ad aiutare quel prezioso interlocutore, senz´altro fragile, inefficace, ma dotato di un coraggio sufficiente per affrontare l´opposizione della sua gente, pur di condurla, guidato dalla ragione, all´inevitabile dialogo con Israele. Ma questo dialogo Israele non l´ha alimentato. E il peggio, Hamas, ha vinto.
Hamas non ha comunque vinto le elezioni predicando la lotta armata e il terrorismo. Ha vinto denunciando la corruzione e l´inefficienza di Al Fatah. Nel manifesto elettorale, dal titolo Cambiamento e Riforma, si trattano argomenti politici ed economici. Non si annuncia la nascita di uno Stato islamico, da creare dopo la scomparsa di Israele, che invece è ben specificata nello statuto. Come lo era nello statuto dell´Olp, prima che gli accordi di Oslo portassero via via a una definitiva cancellazione. Hamas seguirà lo stesso percorso? Ma per arrivare a questo bisogna percorrere il cammino tracciato dal generale Rabin. Il quale trattò con i terroristi di allora. E per questo ricevette il Premio Nobel (insieme a Peres e ad Arafat) e poi fu assassinato. Nel frattempo però il terrorismo ha assunto proporzioni internazionali. Non ha più dimensioni regionali. Dopo l´11 settembre è diventata una sfida mondiale. Il caso Hamas assume dunque un altro valore. Trattare con Hamas diventerebbe un precedente. Può essere considerato un cedimento pericoloso.
Da un anno Hamas non rivendica più attentati. Non è escluso che frange estremiste ad esso affiliate siano gli autori delle ultime azioni terroristiche. I responsabili potrebbero essere anche gruppi sciolti vicini ad Al Fatah. Partecipando alle elezioni legislative per la prima volta, Hamas ha comunque accettato di entrare in un processo politico, e in un quadro istituzionale creato dagli accordi di Oslo, che i suoi dirigenti hanno sempre rifiutato. E´ un primo passo verso una revisione? Siamo per ora ben lontano da questo. I portavoce di Hamas insistono in queste ore nel dire che entrare in Parlamento non significa rinunciare alle armi. La situazione è dunque destinata restare fosca, senza immediate vie d´uscita.
E´ difficile, per ora irrealistico, immaginare che il governo israeliano possa avviare con un governo presieduto da Hamas quel dialogo che non ha mai seriamente avviato neppure con Mahmud Abbas (Abu Mazen). Gli elettori, anche quelli moderati, resterebbero perplessi di fronte a un´iniziativa del genere. Il ricordo dei cinquantotto attentati rivendicati da Hamas resta vivo, bruciante, alimenta l´angoscia della sicurezza che determina spesso i voti alle elezioni legislative. E le prossime sono previste per marzo. La destra radicale, rappresentata dal Likud, ha buoni argomenti per recuperare i voti virtuali che Ariel Sharon aveva portato con sé abbandonando il partito. Il tema della sicurezza agitato durante la campagna elettorale, di fronte a un governo dominato da Hamas, rischia di ricondurre tutto indietro, appunto, di tre lustri: a quel rifiuto che un giorno dovrà pur essere archiviato per sempre. Come, se non trattando? Dice Amos Oz, il più grande scrittore israeliano, che a un finale alla Shakespeare, dove la scena è cosparsa di cadaveri, è sempre preferibile un finale alla Cecov, dove la scena è occupata da gente scontenta, perplessa, ma viva.


Più originale, ma al prezzo di sconfinare nell'assurdo, Igor Man che inizia il suo editoriale sulla prima pagina della STAMPA con una frase da antologia: "Ha vinto Netanyahu, ha perso la Palestina". Sharon è in coma, politicamente finito. Previdente, Igor Man prende di  mira il nuovo "uomo nero" israeliano e gli accredita come "vittoria" nientemeno che la conquista del governo palestinese da parte di Hamas. Mentre i palestinesi, che Hamas l'hanno votata, sono , evidentmentele vittime dei cinici calcoli del leader del Likud. Poco dopo, altra perla: "Il punto fermo di Hamas (il rifiuto dell'esistenza di Israele, ndr) è speculare al rifiuto di Netanyahu di riconoscere un interlocutore politico in Hamas" .Capito?  Hamas pratica il terrorismo e vuole distruggere Israele. un leader politico israeliano dichiara che, a queste condizioni, non è possibile una trattativa. Per Igor  Man si tratta di posizioni "speculari". Di "opposti estremismi", per così dire. Gli uni, piuttosto estremisti, dicono: "vogliamo distruggervi ", gli altro, secondo Man   altrettanto estremisti  : con "voi non parliamo". Logico no? La riga dopo Man scrive un falso: non è vero che Netanyahu non accetti gli accordi di Oslo (tanto è vero che durante il suo governo ha ratificato l'applicazione di una parte di quelli accordi). Tra assurdità, ragionamenti speciosi e falsità, si continua così fino alla fine dell'articolo. Davvero un momento drammatico e pericoloso come questo avrebbe meritato di esser commentato, sulla prima pagina di un grande quotidiano, in modo più serio. Ecco il testo:

HA vinto Netanyahu, ha perso la Palestina. Spiegazione: nessuna trattativa con Israele, ha proclamato Hamas issando a Ramallah la sua verde bandiera sul Parlamento palestinese, in un delirio di folla. Il punto fermo di Hamas è speculare al rifiuto di Netanyahu di riconoscere in Hamas un interlocutore politico. Di più: sia Hamas che il Likud, guidato da «Bibi» dopo l’uscita di scena di Sharon, non riconoscono gli accordi di Oslo, sia pure per opposti motivi. La clamorosa vittoria elettorale di Hamas rilancia la destra israeliana, e Netanyahu, già accusato da Sharon (!) di insana bulimia territoriale, le prossime elezioni legislative se le può giuocare con buone probabilità di successo.
Ha perso la Palestina, vale a dire Al Fatah che con Arafat, e i suoi, dall’esilio di Tunisi seppe sparigliare le carte appropriandosi della prima intifada (esplosa spontaneamente) sulla cui spinta riconobbe Israele. Lo fece ad Algeri, nel 1988, con un discorso rivolto al «fratello Bush», dichiarando «estinto» il paragrafo della Carta programmatica dell’Olp che prescriveva la distruzione di Israele.
Hamas, infine, ha vinto le elezioni anche perché i palestinesi sotto occupazione e quelli appena affrancati (si far per dire) di Gaza han perduto ogni fiducia nella cosiddetta Autorità palestinese. Il presidente Abu Mazen ha cercato di sopperire alla mancanza di carisma, al suo essere l’opposto di Arafat, discusso ma amato, lui, al Khitiar, il vecchio al Walid, padre, con una politica che per non voler scontentare nessuno ha finito col deludere tutti. E’ vero che Israele non gli ha mai dato gli strumenti giusti per mettere al passo gli irriducibili delle Brigate irredentiste armate soprattutto di odio, ma è anche vero che il suo cerchiobottismo ha moltiplicato il disordine falcidiando così la fragile economia palestinese.

Il già modesto reddito pro capite dei palestinesi amministrati dall’Autorità, negli ultimi due anni è diminuito d’un terzo in Gaza e in Cisgiordania: certamente a causa dell’occupazione ma soprattutto per l’incapacità d’un governo (palestinese) diviso fra intrallazzatori e incompetenti. E’ stato un voto di protesta dettato dalla disperazione, quello di ieri nella Palestina occupata, un vero e proprio ribaltone. Anzi un terremoto. E non si vede chi possa fra le macerie trovare una nuova lampada di Aladino.
Lo rimpiangeremo, scrivemmo quando Sharon uscì di scena. Non staremo qui a interrogarci se il ritiro da Gaza fosse stato un primo, coraggioso passo verso una soluzione pragmatica della annosa questione mediorientale, ovvero l’uscita di sicurezza spalancata dal vecchio, audace generale-premier per uscire da una insidiosa seppur piccina guerra di attrito nell’inferno di Gaza. Rimane il fatto - e la Storia si fa coi fatti - che Sharon, lui soltanto, poteva imporre agli israeliani, ai palestinesi la rinuncia alla terra in cambio di una «tregua», truccata da pace, che avrebbe, in ogni caso, permesso un po’ a tutti di tirare il fiato. Sharon è fuori combattimento, il partito «Avanti» fondato per gestire «la nuova fase» rischia sgradevoli passi indietro, risalgono le quotazioni del Likud che si riconosce nel «niet» di Netanyahu. E torna lo spettro della famosa teoria del domino dl Walter Lippman: la débâcle contagiosa, cioè, di quei regimi arabo-islamici detti «moderati», primo fra tutti l’Egitto. Il più grande Paese arabo avverte l’espandersi a macchia d’olio di quei Fratelli Musulmani che han conquistato il Parlamento e oggi benedicono il successo di Hamas. Il Vicino Levante, l’area del petrolio fanno pensare al «minestrone ribollente» di Malraux. Ad attizzarlo sono in tanti, tutti contagiati da un neoislamismo che sembra volere uno scontro di religioni, preludio funesto del già profetizzato «scontro di civiltà».
Un po’ tutti, oggi, amici e nemici guardano alla Casa Bianca. Gli esperti sottolineano il prudente discorso di Bush, ma il pessimismo appare vigoroso anche perché si avverte il pericolo che la nuova leadership iraniana, carburata dall’odio parossistico per gli Stati Uniti, decida di provocare Israele «complice degli Stati Uniti, corrotti sulla terra». Se questo accadesse, provocando fatalmente una devastante reazione israeliana, non si vede chi possa salvarci dal disastro totale. E tuttavia poiché la politica è l’arte del possibile non è da escludere che prima o poi (più poi che prima) Hamas esca dalla cantina per guadagnare il salotto buono. Ha già proposto una «tregua» per un motivo valido: in seno ad Hamas, che per altro «nasce bene» (come ente religioso assistenziale), si scontrano oltranzisti teocratici e possibilisti laici. Gli scampati agli omicidi mirati di Sharon starebbero esaminando l’opportunità d’una mediazione di Mosca per guadagnare, appunto, una «tregua» col Grande Satana e col Piccolo: con gli Stati Uniti, con Israele. Sia come sia, dopo il voto di ieri in Palestina, non è proprio un futuro da cartolina illustrata che ci si prospetta. E tuttavia: «Mai disperare - diceva quel mezzo Garibaldi e mezzo Cavour che fu Ben Gurion -, la Palestina è terra di miracoli».

Luigi Geninazzi sulla prima pagina di AVVENIRE  riprende il tema "è colpa  di Sharon" che, udite udite, si è ritirato troppo tardi da Gaza. Geninazzi dimentica però che Sharon si è ritirato da Gaza dopo aver combattuto e vinto militarmente il terrorismo. L'avesse fatto prima lo avrebbe ovviamente incoraggiato regalandogli quella che a buon diritto si sarebbe potuta considerare una sua vittoria. L'aspetto peggiore dell'editoriale del quotidiano cattolico è però l'appello, intriso di retorica sulla "disperazione palestinese" affinché non venga comunque sospeso il flusso di aiuti all'Anp. Qualsiasi cosa faccia Hamas che l'Anp governerà? Anche dedicarsi sistematicamente ad uccidere ebrei?

La democrazia (ormai lo sappiamo bene) può essere un'arma a doppio taglio, un bisturi che elimina vecchi bubboni ma apre talora nuove ferite. Per la prima volta in dieci anni i palestinesi hanno eletto il loro Parlamento recandosi a votare in massa, con grande dignità e senza incidenti di rilievo. È una buona notizia, che va apprezzata fino in fondo. Anche perché rischia di restare isolata.
Dalle urne di Gaza e Cisgiordania è balzata fuori la vittoria a valanga dei fondamentalisti di Hamas che non solo entrano trionfalmente nel Consiglio legislativo, come molti avevano previsto, ma s'aggiudicano addirittura la maggioranza assoluta dei deputati ottenendo potenzialmente il monopolio del potere: uno scenario che fino a ieri poteva essere immaginato quasi solo da uno scrittore di fantapolitica. In Medio Oriente sale alla ribalta un partito "di attentato e di governo", disposto a negoziare con il nemico ma senza rinunciare alla lotta armata e al terrorismo, pronto ad assumersi responsabilità politiche e al tempo stesso continuare ad imbottire i giovani di fanatismo e di cinture esplosive.
Questa purtroppo è una gran brutta notizia. Lo è prima di tutto per i palestinesi che si liberano di un regime corrotto e inefficiente come quello in sella fino a oggi di al-Fatah ad un prezzo troppo alto, sfuggendo a chi ha le mani sporche per consegnarsi a gente dalle mani insanguinate. Lo è per Abu Mazen, da oggi presidente dimezzato, costretto ad una coabitazione difficile e imbarazzante, leader sempre più debole e incerto. E lo è naturalmente per Israele e per il suo premier provvisorio, Ehud Olmert, che vede già messa in discussione l'eredità di Sharon e la sua politica dei gesti unilaterali, con il falco Netanyahu indotto a credere che la vittoria di Hamas sia il frutto avvelenato del ritiro dalle colonie di Gaza.
È un bruttissimo colpo per gli Stati Uniti e per l'Unione Europea, le cui reazioni oscillano tra l'allarmismo e la cautela di fronte alla bandiera verde dell'islam radicale che viene issata in cima al Parlamento di Ramallah.
Ma più la notizia è brutta e più è necessario mantenere il sangue freddo. Sia chiaro: Hamas è un movimento che nel suo statuto prevede la distruzione dello Stato ebraico ed ha finora rivendicato la maggior parte degli attentati kamikaze contro Israele. Questo però non significa che i palestinesi debbano essere trattati come un popolo in maggioranza terrorista, da isolare sul piano internazionale e da punire con il blocco degli aiuti. Quello del 25 gennaio è stato il voto della rabbia e della disperazione dopo dieci anni segnati da un processo di pace inconcludente, una crisi economica devastante ed una vita quotidiana sottoposta ad umiliazioni di ogni tipo.
L'idea che la guerra al terrorismo sia, di per sé, fonte di democrazia si è rivelata ancora una volta profondamente sbagliata. Eravamo facili profeti quando, poco meno di due anni fa, criticavamo gli "omicidi mirati" condotti da Israele contro lo sceicco Yassin ed i capi di Hamas. Dovevano farla finita con il movimento fondamentalista, gli hanno paradossalmente ridato nuova linfa. In questo, la svolta di Sharon, più che sbagliata, è arrivata troppo tardi.
La democrazia non si cala dall'alto con le bombe. E la si costruisce non soltanto nelle urne (da dove possono uscire sgradite sorprese) ma ben prima, dentro la società civile. Qualcosa di cui s'avverte la tragica mancanza in Palestina e, in generale, in tutto il Medio Oriente. «La pace non muore mai», è il grido di speranza lanciato da Bush, una sorta di anatema contro la vittoria imbarazzante di Hamas. Ma oggi la pace è più lontana e le responsabilit&agra ve; dell'Occidente ancora più grandi.

Trattare con Hamas è anche il consiglio di Luigi Bonanate sull'UNITA'. L'originalità del suo editoriale sta nella difesa della "democrazia" islamista, non "imposta" e più autentica di quella americana di esportazione. Nel dibattito sui rischi della democratizzazione del Medio Oriente e sulle democrazie illiberali Bonanate e L'UNITA' assumono così una posizione originale: le buone democrazie sono quelle che eleggono chi odia l'Occidente, e Israele. 

Hamas ha vinto le elezioni: i terroristi hanno sconfitto la democrazia con le sue stesse armi, quelle elettorali, oppure la democrazia elettorale ha saputo convincere anche chi non le credeva? È ovvio che soltanto il tempo ci darà una risposta certa, ma quel che oggi possiamo già dire è che la prima risposta - quella che si attesta sul pericolo che Hamas porti il terrorismo in Parlamento - è tutt’altro che fondata. Per una serie di motivi: se non credi alle elezioni non vi partecipi; se vi partecipi vuol dire che poi seguirai le logiche parlamentari.E poi: se non le seguirai perderai il sostegno popolare ottenuto così largamente; se violi le regole democratiche, non potrai più evocarle per difenderti dai soprusi altrui.
Si potrebbe dire che addirittura il mezzo trasforma chi lo utilizza: o Hamas chiude il Parlamento (ma allora perché ha voluto entrarci?), o il Parlamento atrofizza il terrorismo.
Una nuova grande sfida sorge nella storia del rapporto tra Israele e Palestina: la democratizzazione di Hamas sconvolgerebbe tutte le aspettative più consolidate e Hamas potrebbe scoprire che la democrazia paga più che un attentato. Ma se si incomincia subito con la sferzante alzata di spalle: terroristi erano e tali restano anche dentro un Parlamento, allora è chiaro che non ne potrà venire nulla di buono, a incominciare dal giudizio ingeneroso e aprioristico che daremmo sulla società palestinese: ha scelto Hamas perché è terrorista, oppure perché spera che porti nella lotta politica parlamentare tutta la forza del suo programma indipendentistico?
Non dovremo, poi, disprezzare la forza delle istituzioni: Hamas non ha vinto le elezioni con un programma di azioni terroristiche, e non potrà usare il terrorismo né per organizzarle né per giustificarle. La democrazia infatti, tra le sue virtù, ha anche quella di avere una funzione promozionale, spinge cioé chi utilizza le sue istituzioni a comportarsi secondo le loro regole. Le responsabilità di governo trasformano chi se le assume. Ma non accadrà invece (credo di sentir dire) che i meccanismi democratici saranno piegati e distorti a vantaggio dei terroristi, e che proprio le elezioni, uno dei più sacramentali riti della vita democratica, siano violentate da un movimento che ammantatosi da agnello per vincere le elezioni poi ridiventa lupo cattivo?
Ovviamente nessuno di noi conosce il futuro, ma oso ipotizzare che gestire del potere politico potrebbe fare di Hamas un partito di governo più che di lotta e che ciò costituirebbe il miglior viatico per la ripresa di un vero processo di pace con Israele. L’ultimo Sharon non ha preso decisioni che parevano contrarie alla sua politica? Y. Rabin, da militare, fu un combattente spietato, ma da politico divenne un abilissimo diplomatico: essi fecero non tanto ciò che era nelle loro corde emotive, ma ciò che politicamente era più vantaggioso e in entrambi i casi li aveva portati vicinissimi alla pace. Potremmo dunque ribaltare gli allarmi pessimistici ipotizzando che il processo di pace potrà riprendere più facilmente tra interlocutori rappresentativi della reale posizione dei rispettivi paesi e vincolati a procedure di tipo democratico: pace e democrazia sono l’una la conseguenza dell’altra e avanzano soltanto insieme. Se è vero che l’Autorità nazionale palestinese del passato non era democratica, ora che il suo governo è stato eletto, Israele per la prima volta avrà un interlocutore affermatosi con le schede elettorali e non il fucile.
Un curioso dilemma si apre di fronte alla politologia occidentale: dopo le elezioni in Iran, in Egitto, in Iraq, ora in Palestina, continueremo a pensare che i risultati che vi si ottengono non sono (ancora) democratici, oppure finalmente incominceremo a dirci che, insomma, quella elettorale non è tutta la democrazia, ma ne è almeno un buon inizio?
Oppure, perché mai le vorremmo in Iraq e non altrove? Perché le elezioni in Afghanistan devono essere state democratiche (chi ne ricorda i risultati?), e quelle in Palestina no? Qui entra in gioco una delle scommesse fondamentali alla teoria democratica lanciate dagli Stati Uniti quando sostengono che la democrazia si esporta non con l’esempio ma con la forza, come in Iraq. In certi stati l’esempio può bastare, in altri ci vuole un risoluto intervento che ponga fine alla dittatura? La risposta è semplice: chi la democrazia la subisce, non ne diventerà, appena possibile, un nemico? La democrazia è un costume che si forma dentro di noi, come può svilupparsi mentre intorno sentiamo sibilare i colpi di fucile?
Non possiamo decidere quali elezioni siano buone e quali no, chi sia giunto democraticamente al potere e chi no. Sappiamo che lo strumento migliore per combattere il terrorismo non è il contro-terrorismo (che ne è altrettanto violento), ma la democrazia.
Se la popolazione palestinese sta incominciando a impratichirsi con lo strumento elettivo della democrazia, le elezioni, perché non apprezzarlo e confidare che, come gli elettorati occidentali, riuscirà a raffinarlo sempre di più?

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