La STAMPA di venerdì 27 gennaio 2006 pubblica a pagina 4 un'intervista con Daniel Pipes, che con la consueta chiarezza e con buone ragioni indica come illusoria qualsiasi ipotesi di dialogo con Hamas:
«Se nel 1933 fossi stato vivo non avrei celebrato l’ascesa al potere di Hitler, nonostante avesse vinto le elezioni». Il giudizio sul voto palestinese di Daniel Pipes, fondatore del Middle East Forum, è senza appello. Il consigliere che il presidente Bush aveva nominato nella direzione dello US Institute of Peace non vede nemmeno spiragli di speranza.
Quali sono le sue valutazioni generali dei risultati annunciati ieri?
«Due punti. Primo, i palestinesi sono molto radicalizzati, scontenti e determinati a distruggere Israele. Non vogliono costruire un’economia, una società, e una cultura politica, ma semplicemente cancellare il loro vicino. Secondo: l’urgenza dell’amministrazione Bush di tenere elezioni in tutto il Medio Oriente si è rivelata sbagliata. Da anni sostengo che nel mondo islamico c’è una forte tentazione totalitaria. A parte l’Iran, dove l’obiettivo è preservare il regime islamico, negli altri Paesi prevale l’inclinazione fascista. Affrettare le elezioni in Iraq, Libano, Egitto, Afghanistan, e ora fra i palestinesi, significa solo mandare al potere i nostri nemici, perché sono meglio organizzati, motivati, e politicamente più coerenti dei nostri amici».
Quale leadership va al potere con Hamas?
«Come prima cosa, si tratta di un gruppo di persone assolutamente determinate a distruggere Israele. Ma la differenza con Fatah, su questo punto, è solo di facciata. L’ex partito di Arafat sosteneva in pubblico di voler convivere col vicino, mentre in privato pianificava la sua cancellazione. Il nuovo partito guida, invece, è nettamente più aperto e chiaro sui propri obiettivi. La differenza fondamentale, piuttosto, è che Hamas è molto più disciplinato, onesto, non corrotto, ben finanziato, in sintonia con la popolazione e meno arrogante. Questo lo rende assai più attraente di Fatah per gli elettori, e molto più pericoloso per noi».
In un recente editoriale per il quotidiano Usa Today, lei ha scritto che la vera voce di Hamas è Mahmoud Zahar. Si tratta di un medico che era tra i fondatori del movimento, e nel 2003 ha perso il figlio Khaled in un tentativo degli israeliani di assassinarlo. E’ lui il prossimo leader palestinese?
«Non c’è il minimo dubbio che Zahar è uno dei capi più importanti di Hamas, se non il più importante. E non c’è nemmeno dubbio su cosa pensa: ha sempre ribadito, anche durante la campagna elettorale, che bisogna distruggere Israele».
Lei non crede che andando al potere Hamas potrebbe scegliere la via del processo politico?
«Mi aspetto che prenderà posizioni più flessibili e parteciperà al negoziato. Ma sarà solo una scelta di facciata, per sfruttare meglio la nuova situazione. Sul piano tattico cambierà atteggiamento, ma sul piano strategico l’obiettivo resterà lo stesso».
Bush ha detto che non tratterà con un partito che ha la distruzione di Israele nella sua piattaforma. Come si dovrebbe comportare Washington?
«L’amministrazione, purtroppo, ha creato da sola il suo dilemma: da una parte ha dichiarato che non tratta con i terroristi, ma dall’altra ha legittimato Hamas come partito attraverso le elezioni. Adesso a livello ufficiale continueremo a ripetere che non lavoreremo con questo gruppo, fino a quando rinuncerà alla violenza, ma a livello ufficioso avvieremo subito i contatti».
Da questi contatti non può venire fuori nulla di buono?
«La diplomazia in guerra non porta risultati. Almeno l’80% dei palestinesi vuole la distruzione di Israele, e ora questa linea è tornata ufficialmente al potere con Hamas».
Il presidente Bush non ha ragione a celebrare almeno la partecipazione al voto, come un segno dell’affermazione della democrazia nella regione?
«Il processo democratico non dovrebbe accettare politici che rifiutano la democrazia. Nel 1933 non avrei celebrato la vittoria elettorale di Hitler, così come negli anni ‘70 non avrei festeggiato se i comunisti avessero preso il potere in Italia».
Di segno opposto l'opinione di Massimo Introvigne sul GIORNALE: con Hamas è ora necessario e possibile trattare:
Ora che Hamas ha vinto, da Washington a Tel Aviv a Bruxelles l'interrogativo che risuona è: si può trattare con Hamas? O con chi ha compiuto centinaia di attentati suicidi, ha fatto più di mille morti, ha tirato razzi perfino sugli asili israeliani, non si può e non si deve trattare - mai, comunque, dovunque? La vulgata secondo cui Hamas è «semplicemente» un gruppo di terroristi è semplicistica. La realtà storico-politica di Hamas passa per il terrorismo, ma non si riduce a questo. Hamas non è Al Qaida, e nessuno dei suoi leader è Osama Bin Laden. L'organizzazione fondata dal defunto sheikh Yassin, branca palestinese dei Fratelli Musulmani, è un movimento fondamentalista nazionale capace di coniugare la poesia dell'ideologia con la prosa della politica. Hamas è stato sempre contro la pace nel senso che non ha mai potuto tollerare un processo di pace egemonizzato da Fatah e condotto nella prospettiva dell'instaurazione di uno Stato laico in Palestina. Almeno la dirigenza «interna» di Hamas nei Territori, distinta da quella più radicale in esilio (di recente, assai influenzata dal presidente iraniano Ahmadinejad), ha dato reiterati segnali di essere interessata a un processo di «tregua» con Israele, purché non si usi la parola «pace». La distinzione non è puramente terminologica: secondo Hamas il perseguimento della «pace» de-islamizza la questione palestinese riducendola da religiosa a politica e preparando così la strada all'instaurazione in Palestina di uno Stato laico, che nessun movimento fondamentalista può evidentemente accettare. D'altro canto, le avanguardie militanti e terroristiche sono pesci che hanno bisogno di nuotare nell'acqua di un certo consenso popolare, consenso che è stato massimo nella prima Intifada e nella seconda e minimo all'indomani immediato degli accordi di Oslo, costringendo Hamas a muoversi con cautela assai maggiore. Nel momento in cui i palestinesi hanno cominciato a sperare in una pace possibile, Hamas - pur continuando gli attentati - ha elaborato anche l'idea di una tregua di durata indeterminata. Non una qualunque promessa di pace, ma la continuazione di quel processo avviato da Ariel Sharon con il ritiro da Gaza, che convinca i palestinesi di potere ottenere vantaggi immediati, concreti e visibili, può persuadere almeno una parte di Hamas, isolando la sua componente più oltranzista, a trasformare il «treguismo» in quello che (parole a parte) sarà di fatto dialogo sulla Road Map. Su questo scommetteva Sharon che, senza troppo dirlo, da mesi trattava in segreto con la componente «treguista» di Hamas. Se questa politica non continuasse, si rafforzerebbe invece in Hamas la componente oltranzista filo-iraniana. Comunque sia, le elezioni dimostrano che Hamas è ormai così radicato nella società palestinese da rendere utopistica l'idea di una sua eliminazione per via militare, e che l'Occidente deve piuttosto utilizzare a suo profitto l'esistenza in Hamas di «correnti» e la divisione fra la dirigenza «esterna» in esilio e quella «interna» ai Territori, aprendo un dialogo con le componenti più «treguiste» e pragmatiche, che spesso fanno capo ai sindaci e agli amministratori locali. Un proverbio inglese afferma che per cenare col Diavolo e mangiare la sua stessa zuppa occorre munirsi di un cucchiaio con un manico lunghissimo, per evitare di avvicinarsi troppo e di cadere nel pentolone demoniaco. Le elezioni palestinesi sono il segnale che per l'Occidente diventa ora urgente cominciare ad approntare quel cucchiaio.
Gianni Riotta, nel suo editoriale sul CORRIERE della SERA, ritiene possibile l'evoluzione di Hamas, ma chiede all'Europa e alla comunità internazionale fermezza verso il nuovo governo. Perché Hamas cambi è necessario che sappia con certezza che non facendolo dovrà pagare un prezzo.
Hamas vuol dire «zelo», ma è anche la sigla di Harakat al-Muqawama al-Islamiya, Movimento di resistenza islamica. Da «zelanti», spiega lo studioso israeliano Reuven Paz, «gli uomini di Hamas spendono 60 milioni l'anno in scuole, orfanotrofi, moschee, ospedali, mense popolari, palestre». Da «resistenti», le brigate Izz al-Din al-Qassam hanno organizzato 350 attentati terroristici contro Israele, massacrando con i kamikaze oltre 500 innocenti e mutilandone migliaia. Questa è la forza centauro che ha trionfato nelle elezioni palestinesi, capovolgendo il Medio Oriente, cancellando l'eredità di Arafat, mettendo Israele davanti a un nemico mortale, costringendo americani ed europei a riconsiderare, col cuore in gola, le strategie. Gli osservatori scettici sulla democrazia nei Paesi arabi obietteranno che, senza il voto, Hamas sarebbe rimasta rinchiusa nelle cantine di Gaza. Già in Algeria e adesso in Iran, un libero voto ha premiato i fondamentalisti violenti, come i seguaci dell'organizzazione fondata negli anni '60 dallo sceicco Yassin, sull'orma dei Fratelli Musulmani.
Ma la democrazia rispecchia la realtà, Hamas non nasce nelle urne e la sua forza, concordano il foglio israeliano Yedioth Ahronoth e l'arabo Arab news, è alimentata dal risentimento della popolazione per la corruzione e l'inefficienza di Fatah. Meno di un palestinese su cinque condivide il proclama di Hamas, «far sventolare la bandiera di Allah, cancellare Israele»: i 76 seggi conquistati, contro i 43 di Fatah, esprimono protesta e frustrazione, ma se Hamas imponesse la sharia, il canone islamico, nei turbolenti villaggi del West Bank, la sua vittoria potrebbe rivelarsi effimera. Spiazzati, americani ed europei reagiscono con toni diversi, il presidente Bush circospetto, attento alla nuova situazione, pronto a denunciare il retaggio terrorista e l'odio per Israele, ma senza enfasi. Gli europei attoniti, inquieti, amareggiati nel constatare quanti guasti abbiano prodotto gli anni sprecati a vezzeggiare Fatah e Olp, senza chiedere il conto per le violenze, gli sprechi, le riforme fallite e la pace mancata. Corrotti, decadenti, privi di visione, i centurioni di Fatah si svegliano circondati dalle verdi bandiere islamiche, ostaggio di un passato perduto. Israele giocherà le carte senza fretta, dopo avere scelto il leader che raccoglierà il carico di Sharon.
Da tempo crede poco al dialogo con i palestinesi e prova a sciogliere i nodi da sola. Sa che, lasciata a se stessa, Hamas continuerà a occuparsi della sua rete di assistenza senza smantellare però gli arsenali del terrore, pronta a riaprirli quando riterrà opportuno. Per gli europei il «terremoto in Medio Oriente» di cui scrive il Jerusalem Post, apre un dilemma affilato: ignorare la forza di Hamas è ormai impossibile, ma provare a ingaggiare l'Hamas di oggi alla tradizionale diplomazia dell'Unione, carote senza bastone, negoziato e finanziamenti a pioggia, porterebbe a disastri. Eppure — per quanto arduo appaia in questa storica giornata — si può immaginare in Palestina un'evoluzione analoga a quella degli Hezbollah in Libano, violenti convertiti alla politica, o in Turchia, dove i partiti islamici al governo non hanno sconvolto il Paese nell'intolleranza. L'Unione deve confrontare Hamas con risolutezza, pronta a cogliere ogni apertura, ma inflessibile davanti a odio, violenza, terrore. È l'unica strada, per impervia che appaia, verso la remota pace.
Per Graziano Motta di AVVENIRE, la vittoria di Hamas è "Uno stop per la pace e un macigno per Kadima"
Adesso l'inquietudine degli israeliani per il futuro immediato e per quello più lontano è maggiore di quanto non fosse stata avvertita alla vigilia delle elezioni palestinesi, quando - occorre sottolinearlo - era ugualmente grande.
Per la ragione che principali competitori nelle elezioni palestinesi sono stati due nemici dichiarati d'Israele: Marwan Barghouti il capo dei guerriglieri Tanzim, che sta scontando la pena di cinque ergastoli in una prigione israeliana, in testa alla lista di Fatah nella quale erano stati tuttavia inclusi esponenti delle correnti disposte formalmente al dialogo di pace; e tutti i candidati del movimento fondamentalista islamico Hamas. Guerriglieri Tanzim e delle "brigate dei martiri di al-Aqsa" in un campo e nell'altro guerriglieri delle brigate fondamentaliste Ezzedim el-Qassam, tutta gente che ha reclutato e addestrato centinaia di terroristi, anche kamikaze, e che ha rivendicato la responsabilità di innumerevoli operazioni e attentati che hanno causato morti e feriti.
Dunque dalle urne sarebbero emersi o gli uni o gli altri, con i quali avviare un dialogo per la coesistenza sarebbe stato impossibile. Ma mentre era ipotizzabile che al-Fatah, se fosse uscito vittorioso, una volta ottenuta la scarcerazione di Barghouti, avrebbe provato ad accreditare, anche dinanzi alla comunità internazionale, la disponibilità a percorrere la Road map per la pace, con la trionfale vittoria di Hamas svanisce del tutto la visione di uno scenario analogo. Per giunta con una serie di altre conseguenze immediate: l'accentuazione delle misure di sicurezza in Israele, l'accresciuta presenza militare in Cisgiordania e in essa il rinvio del piano di smantellamento degli insediamenti isolati di coloni e dei punti di sviluppo illegali, il completamento del famigerato "muro" di separazione.
E con le conseguenze prevedibili nell'arena politica, in vista delle elezioni di marzo. Perché il partito Kadima, che Sharon aveva voluto in vista del dialogo con i palestinesi ha perduto gli interlocutori e rischia quindi di perdere consensi. A tutto vantaggio della destra nazionalista e confessionale che aveva contrastato il piano di ritiro da Gaza e che - come facilmente e naturalmente ora gli rimprovera il leader del Likud Netanyahu - vede nella cedevolezza di Israele il grande successo elettorale di Hamas. Certo, per limitare i danni, sia il premier a interim Ehud Olmert sia gli esponenti del suo partito Kadima come quelli laburisti escludono ogni possibilità di dialogo con tutti coloro che vogliono la distruzione di Israele. Ma tutti gli israeliani oggi comprendono meglio quello che sanno da sempre: che nei rapporti - dicono - con i palestinesi, e con il mondo arabo in generale, occorre essere in una posizione di forza. Il barometro segna tempi duri, «cattivi» li definisce Netanyahu, «per il futuro e per la pace».
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