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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Riformista - La Repubblica Rassegna Stampa
25.01.2006 Monaco 72: la giustizia della risposta israeliana
la spiegano Benny Morris ed Ehud Barak

Testata:Il Riformista - La Repubblica
Autore: Jacopo Tondelli - Enrico Franceschini
Titolo: «Benny Morris difende la giustizia del Mossad di Spielberg - Barak:»

Il RIFORMISTA  di mercoledì 25 gennaio 2006 pubblica in prima pagina e a pagina 7 un'intervista di Jacopo Tondelli a Benny Morris, storico israeliano che difende la necessità e la giustizia della riposta israeliana alla strage di Monaco. Ecco il testo:

Monaco '72, undici atleti israeliani massacrati, ridicolizzata la tregua olimpica, imbarazzata fino alla vergogna la Germania antifascista di Willy Brandt. Il tragico evento divenne così per tutti e fin da subito una schiacciante metafora. Per Israele, dell'assedio e della propria vulnerabilità permanente. Per l'Europa progressista, della difficoltà di scindere le ragioni della causa palestinese dalla barbarie di certi metodi, tanto da preferire, allora, improbabili ipotesi legate al neofascismo, che portassero lontano da Settembre Nero. Per il mondo intero, poi, divenne immagine di un dilemma attualissimo: qual è il limite etico per una risposta al terrorismo, e cioè all'atto politico più lontano da ogni etica? A far da scenario postumo, una delle più spettacolari azioni di intelligence della storia, con i terroristi di Settembre Nero rintracciati e uccisi dal Mossad, il mito a due facce d'Israele: garanzia di sicurezza, prevenzione e giustizia per Israele e per i suoi amici; longa manus del potere occulto degli ebrei, incarnato dallo Stato ebraico, per i suoi nemici non insensibili ad argomenti degni dei Savi di Sion.
Ora arriva Munich, e la polemica planetaria è garantita già prima della “prima” (nelle sale italiane dopodomani) perché dopo il nazista buono Schindler, Spielberg torna sul luogo del delitto, la Germania, scegliendo come canovaccio un libro discusso fin dalla sua pubblicazione, avvenuta nel 1983. Vendetta, di Georg Jonas, racconta la vita di un agente del Mossad intrecciandola all'operazione. «Per Israele darei la vita» dice intanto Spielberg a Der Spiegel di lunedì, anche per stemperare le discussioni provocate dal film.
Tra i “nuovi storici” israeliani, Benny Morris è quello che più a fondo ha scavato nel tabù del Mossad, argomento inesistente o quasi nel dibattito pubblico d'Israele. «È un film terribilmente irrealistico - spiega al Riformista - anzitutto nella ricostruzione dei fatti che portano al rintracciamento e all'uccisione dei terroristi. Dalla narrazione cinematografica sembra che gli agenti si siano messi da soli come segugi sulle tracce dei terroristi, mentre la loro era una missione più semplice: raggiungerli ed ucciderli. L'attività di intelligence necessaria verosimilmente non è stata svolta da loro, ma direttamente dal Mossad, e precedentemente». Tuttavia, in questo il film è fedele al romanzo-inchiesta di Jonas, fondato sul racconto di Avner, uno degli agenti che ha realizzato l'operazione. «Questo è esattamente il punto. Il film è fedele al libro, è vero, ma il libro non lo è alla realtà dei fatti. Non credo proprio che Jonas abbia avuto le rivelazioni che dice da un agente. È solo un romanzo, e con decisivi elementi di fantasia». Intanto, a giorni, ci sarà anche la prima israeliana, di fronte a una società ipersensibile a certi temi. Come reagirà al film? «A differenza di molti, io non credo che reagirà in modo particolare. Il film pone dilemmi morali profondi su come sia giusto reagire di fronte alla minaccia terroristica. La reazione fu proporzionata ed efficace perché sradicò Settembre Nero. In una parola fu giusta, e la risposta alle questioni poste è nei fatti».
Le critiche si appuntano proprio su questa questione: si dice che il film sia sottilmente anti-israeliano, perché metterebbe in discussione la giustizia dell'azione. «Sono critiche che nascono dall'ipersensibilità dell'opinione pubblica schierata con Israele. Personalmente non condivido affatto questa opinione, come quella di chi ritiene che il film rappresenti in modo similare gli agenti israeliani e i terroristi palestinesi. In realtà è un film fondamentalmente pro-israeliano, che risolve correttamente le questioni che pone, riconoscendo il diritto d'Israele di difendersi dal terrorismo». A proposito, un'altra possibile lettura filtra il film di Spielberg con l'attualità post 11 settembre, sottolineando che quella reazione al terrorismo fu puntuale, precisa e colpì i diretti responsabili delle azioni distruggendo l'organizzazione, mentre la guerra al terrorismo odierna ha fatto vittime innocenti e non pare aver portato i frutti sperati. «Questa è una possibile lettura, ma credo viziata dallo scarso senso della realtà di certi ambienti progressisti e liberal americani (quelli di Spielberg e gli stessi che hanno dato notorietà planetaria a Benny Morris, ndr), che culturalmente erano impreparati ad affrontare il terrorismo islamista». Ma l'escalation firmata da Al Qaeda non ha colto di sorpresa lo stesso Mossad mostrandone alcune debolezze? «Non lo so, ma se lo sapessi non lo direi a te» ride Morris. «Di tutto questo potremo parlare con più compiutezza tra sei-dieci mesi, quando verosimilmente si dovrà procedere ad attaccare l'Iran». Scusi? «Bisogna fermare la loro corsa all'atomica. Qualcuno deve agire. Usa, Europa… o sennò, di fronte all'inattività generale, potrebbe farlo direttamente Israele».

Anche la REPUBBLICA  dedica a monaco un pezzo corretto (su tre): l'intervista di Enrico Franceschini a Ehud Barak. Ecco il testo:

LONDRA - Pensa ancora a quella notte in cui sbarcò a Beirut travestito da donna, Ehud Barak, per assassinare tre dirigenti palestinesi responsabili della strage di Monaco? «Ci penso spesso. Non è qualcosa che si può dimenticare, sa? E voglio confidarle una cosa: quando fui nominato capo di Stato Maggiore, una delle nostre donne-soldato, con i gradi di tenente, mi accolse nel mio nuovo ufficio per spiegarmi come funzionava. Le domandai come si chiamava e rispose: "Romana". Chiesi se per caso era parente dell´atleta israeliano dallo stesso nome trucidato dai terroristi alle Olimpiadi. "Sono la figlia", rispose. Erano ebrei di origine italiana, come suggeriva il nome. Avrei voluto abbracciarla, quel giorno, dirle cosa avevo fatto agli assassini di suo padre. Ma il mio ruolo era ancora coperto dal segreto di stato, e tacqui».
Con una parrucca nera da donna in testa, le guance incipriate, due granate nascoste nel reggiseno e la pistola col silenziatore nella borsetta, Barak guidò l´unità che allora comandava, Sayeret Metkal, i leggendari commandos d´élite delle forze armate israeliane, nel cuore del territorio nemico, fino alla capitale del Libano. I tre dirigenti palestinesi considerati da Israele i mandanti del massacro alle Olimpiadi furono eliminati. «Con loro, purtroppo, dovemmo uccidere anche sette gendarmi libanesi e due donne che ci ritrovammo davanti», ricorda al telefono da Tel Aviv l´ex-militare più decorato al valore nella storia dello Stato ebraico e l´ex-primo ministro che nel 2000 andò più vicino di chiunque altro a firmare la pace con Arafat. Quella missione, ribattezzata "Primavera di bellezza", fu giudicata un successo pieno. Ma Munich, il film di Steven Spielberg sulla rappresaglia israeliana, si concentra sull´altra operazione, "Vendetta di Dio", in cui furono uccisi per errore anche dei palestinesi innocenti, che con la strage non c´entravano niente.
Il messaggio del regista americano sembra essere che la morale biblica, occhio per occhio, dente per dente, non paga; e che adottando i metodi dei nostri nemici, diventiamo come loro. Non è così? «No, non è così, perché non siamo diventati come loro e perché quello che facemmo io e i miei compagni era esattamente l´opposto di ciò che hanno fatto i terroristi palestinesi a Monaco», risponde Barak. «Sa cosa dicevo ad Arafat, quando mi chiedeva di rilasciare certi detenuti palestinesi? Dicevo che non potevamo liberare chi si è "bagnato le mani di sangue". Arafat allora osservava che anch´io ho le mani bagnate di sangue, del sangue di palestinesi, e che è la stessa cosa. Ma non è la stessa cosa, cercavo di spiegarli e spiego oggi a chi traccia un simile parallelo. Noi agivamo su ordine di un governo democraticamente eletto, facendo tutto il possibile, nelle nostre azioni, per non causare danni ai civili, per non colpire degli innocenti: non sempre ci riuscivamo, ma l´intento era quello. I terroristi palestinesi invece agivano con l´intento opposto, causare più danni possibili a chiunque si trovasse preso in mezzo, a Monaco ‘72 come in seguito. E non si possono equiparare, sul piano morale, due scelte così diverse».
In Europa, osservo, non tutti la vedono così. «E io invece credo che qualunque paese democratico, se potesse colpire i terroristi che l´hanno ferito sapendo di non poterli catturare e mettere sotto processo, farebbe quello che abbiamo fatto noi». Ma perché la sua missione a Beirut filò liscia e quella in Europa assai meno? «Perché sbarcare a Beirut era difficile per il Mossad e perciò il compito fu affidato a noi militari, potrei rispondere. In realtà queste operazioni sono come camminare su una corda sospesa nel vuoto: la differenza tra successo e fallimento, mi creda, è questione di un´inezia».

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