Un articolo di Andrea Cocco, inviato a Hebron alla vigilia delle elezioni palestinesi, dal Riformista del 17 gennaio 2006:
Hebron. Un applauso prolungato e la folla che inneggia: «Barghouti! Barghouti!». Si conclude così a Hebron il comizio elettorale del leader di Palestina Indipendente. Vicino al microfono, accanto a Mustafà Barghouti,ci sono i candidati locali della lista nata nel 2002 con l’intento di rappresentare la società civile e il proposito di costituire un’alternativa al duopolio Al Fatah - Hamas.Ma la giornata è stata faticosa, sempre sull’orlo della tensione, con tanto di spintoni e schiaffi tra militanti e forze israeliane.Per presentare il programma, gli organizzatori della campagna elettorale di Mustafà Barghouti hanno scelto il centro della città vecchia, ai piedi della moschea di Abramo, zona sotto totale controllo israeliano.Per entrare nell’area una grata girevole, uno per volta, metaldetector e controllo dei documenti. Città fantasma. E al di là del contingente israeliano si apre uno scenario desolato. Il cuore di Hebron è una città fantasma,un’area di sicurezza a protezione dei circa 600 coloni israeliani insediati tra i palazzi storici.Le strade sono deserte e le famiglie arabe che hanno scelto di rimanere si contano sulle dite di una mano. Mustafà Bargouthi questo posto non lo ha scelto per dimostrare che uno dei suoi principali obiettivi è porre fine all’occupazione israeliana,ai chekpoint,ai controlli. E non è il solo che per lanciare il suo messaggio fa leva sull’intransigenza degli israeliani.Nelle battute finali della campagne elettorale si moltiplicano gli episodi di attriti tra forze israeliane e candidati alle legislative palestinesi del 25 gennaio. Domenica, a Gerusalemme Est, è stata la volta di Hamas. Sheikh Abu Tir, numero due nella lista, è stato arrestato per aver pianificato un comizio nonostante il governo israeliano abbia vietato ai gruppi considerati terroristici di fare propaganda all’interno della città. E poi ci sono i candidati meno conosciuti.«Preparare un comizio elettorale nei villaggi è sempre un’incognita» spiega Abdullaye Dana, del Fronte popolare per la Liberazione della Palestina.«I controlli per la strada sono frequenti e si rischia sempre il sequestro del materiale». Ha passato 17 anni in carcere,Mister Dana,come lo chiamano i suoi sostenitori.E oggi fa di quell’esperienza un punto di forza. Il suo spot elettorale si apre con una vecchia foto di lui con la divisa dei detenuti,in mezzo ai compagni di cella.Una delle sue priorità,dice agli studenti venuti ad ascoltarlo, è liberare i prigionieri politici trattenuti nelle carceri israeliane,a costo di interrompere ogni negoziato. Riforma e cambiamento. La fine delle misure coercitive imposte da Israele è il punto di partenza di ogni comizio, ma non l’unico argomento caldo di queste elezioni. C’è da tirare le somme sui dieci anni di governo di Fatah, ed è qui che si gioca la vera battaglia politica per la sottrazione degli elettori da un campo all’altro. Hamas, che non a caso ha chiamato la sua lista Riforma e Cambiamento,ne ha fatto un cavallo di battaglia.Porre fine alla corruzione e al mal governo all’interno dell’Anp.«Potrei tenere un comizio di tre giorni sugli errori di Al Fatah» mi spiega Bassam Al Hada, professore in una scuola secondaria,uomo di sinistra, come si definisce. Clientelismo, nepotismo, scarsa attenzione ai problemi reali della gente. Se vuoi essere sicuro di avere un posto di lavoro devi pagare,se vuoi ottenere un certificato medico devi conoscere la persona giusta. Molti si aspettavano un autentico cambiamento dopo il 1996 ma la situazione politica è decisamente peggiorata». Pochi giorni fa la polemica è esplosa proprio sulla questione del voto, a seguito di una circolare inviata dal responsabile della polizia del distretto di Gaza nord ai suoi sottoposti. Una normale direttiva,in cui si ricordava che il voto per le forze dell’ordine si svolgerà il 22,23 e 24 gennaio, ma che si concludeva in modo singolare: «mi raccomando,fate in modo che i vostri subordinati votino per Al Fatah».In questi anni la polizia è stata utilizzata come uno degli strumenti per far fronte alla disoccupazione crescente in Palestina e oggi Hamas chiede il conto. «E’ inaccettabile »,si legge in un comunicato diffuso da Yasser Masour, leader di Hamas in Cisgiordania. «Stiamo parlando di atti di estorsione,e non è la prima volta.Molti poliziotti hanno subito la minaccia diretta di perdere il posto di lavoro,se non votano per la lista di Marwan Barghouti». La vera agenda. Quanto a clientelismo però, Riforma e Cambiamento non è da meno. Grazie agli ingenti finanziamenti ricevuti da altri paesi arabi e da organizzazioni musulmane in tutto il mondo, Hamas ha costruito in questi anni una rete di infrastrutture, tra cui asili, scuole, cliniche, fornendo assistenza a migliaia di persone in difficoltà. «Vai a verificare quanto hanno speso per sostenere le famiglie dei detenuti » è l’invito di Gharib, responsabile finanziario di un’organizzazione non governativa palestinese che si occupa di democratizzazione. «Hanno fatto un investimento a lungo termine e oggi esigono il voto da chi a ricevuto i soldi.Uno dei principali obiettivi di Hamas è di occupare posti chiave nell’amministrazione per ottenere i vantaggi da cui è stata esclusa fino ad ora.Le forze dell’ordine ad esempio.Il programma parla espressamente della necessità di tutelare con maggiore efficacia i movimenti di resistenza. Tradotto in concreto significa che Hamas vuole posti nella polizia, sia per dare lavoro ai suoi sia per avere potere e garantirsi contro gli arresti dei suoi militanti da parte dell’Anp». La politica dei favoreggiamenti è una costante in diverse aree della Palestina e va al di là dei colori politici. A fare da tramite tra istituzioni e singoli cittadini sono spesso i clan familiari e da questo punto di vista la città di Hebron è uno dei casi più esasperanti.Al Quawasma,Jabbari, Abusnina, Natcha. Sono quattro le principali famiglie che controllano il territorio del distretto, grazie a rappresentanti collocati in ospedali,università, municipalità. Bilal Salameh è ricercatore all’Università di Betlemme ma ha un secondo lavoro a Hebron.Il suo è un occhio esterno, utile per capire la situazione cittadina. «Se qui fai un incidente per strada » racconta «non chiami la polizia, ma la questione viene risolta tra famiglie. Lo stesso accade se vuoi avere un’autorizzazione dal municipio. La legge dei clan tende a governare ogni singolo aspetto della vita quotidiana e le autorità spesso lasciano fare. I tempi per la risoluzione dei conflitti sono più rapidi, anche se a volte ci scappa il morto». Fuori dal mondo. Le influenze dei clan familiari sono forti anche nelle aree rurali. A Tuwani, piccolo paese di 300 abitanti nel sud della Cisgiordania,non sono arrivati che gli echi della campagna elettorale cittadina. Qui non c’è segno di manifesti politici sui muri e a quanto dice la gente nessun delegato di partito è arrivato a fare propaganda. Ma sulla scelta tra i vari candidati non c’è questione,le indicazioni le danno i capi famiglia seguendo le direttive dei rispettivi clan di Yatta, la città vicina. Ognuno in Palestina ha il suo pronostico su come andranno a finire queste elezioni.Una cosa è sicura:i giorni dello strapotere di Al Fatah stanno oramai per finire e sarà Hamas a trarne vantaggio. Il movimento islamico,a dire dei suoi sostenitori, è ampiamente in grado si oltrepassare il 30 per cento. Ma la sua forza reale potrebbe essere stata sovrastimata.«Non hanno il sostegno che dicono di avere», afferma Bilal Salameh,«e soprattutto non sono interessati a superare una certa soglia in parlamento.Vogliono evitare di trovarsi in situazioni spigolose, come quella di dover trattare con Israele. Sceglieranno invece di rimanere all’opposizione in cambio di ottenere il beneplacito sulle politiche sociali». Su questo molti concordano. Riforma e Cambiamento ha presentato un programma moderato ma userà ogni mezzo per imporre la sua visione sulla società.E’ quanto ha già cominciato a fare nei municipi dove ha conquistato la poltrona di sindaco. «Per esempio a Qualqylia »,suggerisce Gharib «dove il comune ha impedito le manifestazioni per il festival annuale di arti».
Come congegnare sanzioni che colpiscano il regime iraniano e non il popolo. Lo spiega Caren Davidkhanian:
Le sanzioni generiche contro Teheran, di cui si è parlato insistentemente negli ultimi giorni, sono la manna dal cielo per gli ayatollah perché rischiano di distruggere il pilastro più importante della democratizzazione iraniana – la classe media – aiutando invece un regime affatto monolitico a ricompattarsi. Basta guardare quanto “successo” ebbero contro l’Iraq di Saddam Hussein, dove lasciarono intatto il potere, causando invece la distruzione economica e morale della classe media facendo sì che l’unico modo per rimuovere il dittatore fosse l’intervento armato. Per non parlare poi dell’Oil for Food. La classe media iraniana è considerata il cavallo di Troia dell’Iran e il suo indebolimento non può che consolidare la teocrazia. Oltre alle ovvie difficoltà economiche per la popolazione, le sanzioni impedirebbero i contatti tra la società civile iraniana e quella occidentale, ostacolando la presenza di giovani studenti iraniani nelle università occidentali – cioè esattamente quel tipo di contatto che portò alla rivoluzione del 79 – e interrompendo i contatti tra uomini di affari iraniani e occidentali. Non è detto che il disaggio economico, soprattutto se «imposto» dall’estero, porti a maggior voglia di cambiamento di regime. La rivoluzione del 1979,del resto, non era una rivolta di pane. Era la rivolta di una società all’apice del suo benessere materiale che attraverso i suoi studenti univeristari e uomini di affari era venuto in contatto quasi di massa con le idee occidentali in voga in quegli anni. Senza la partecipazione iniziale degli intellettuali e, nella fase finale, dei militari (affatto poveri), i khomeinisti non sarebbero stati in grado di prendere il potere. La via d’uscita meno costosa dall’impasse attuale sta nel riprendere il filo spezzato della democratizzazione iraniana. Gli iraniani sono un popolo orgoglioso e nazionalista. Sebbene a doppio taglio, quest’orgoglio è un’arma formidabile contro gli ayatollah. Per ora i mullah hanno vinto una prima battaglia facendo del loro nucleare, ampiamente criticata da loro nel 79 come un progetto “folle” dello Scià, una questione di prestigio nazionale. Ora tocca al mondo libero di rivolgersi direttamente alla società iraniana per spiegare perché l’Iran dei mullah e di Ahmadinejad non deve avere il nucleare. E bisogna aiutare gli iraniani nel cammino verso la democrazia. Ma in tutto ciò l’Europa è assente. Dove sono le dimostrazioni a favore di Ganji e altri giornalisti in prigione? E quelli contro l’impiccagione dei gay iraniani? Dove sono le femministe quando gli ayatollah impiccano giovani donne accusate di aver ucciso i loro violentatori o quando i basiji buttano acido in faccia alle ragazze «scoperte»? Dove sono i sindacalisti italiani mentre un loro collega, rappresentante di conducenti di autobus di Teheran, giace in cella? Sono settimane che il trasporto pubblico è praticamente fermo per le proteste degli autisti. occidentali in voga in quegli anni. Senza la partecipazione iniziale degli intellettuali e, nella fase finale, dei militari (affatto poveri), i khomeinisti non sarebbero stati in grado di prendere il potere. La via d’uscita meno costosa dall’impasse attuale sta nel riprendere il filo spezzato della democratizzazione iraniana. Gli iraniani sono un popolo orgoglioso e nazionalista. Sebbene a doppio taglio, quest’orgoglio è un’arma formidabile contro gli ayatollah. Per ora i mullah hanno vinto una prima battaglia facendo del loro nucleare, ampiamente criticato da loro nel 79 come un progetto “folle” dello Scià, una questione di prestigio nazionale. Ora tocca al mondo libero di rivolgersi direttamente alla società iraniana per spiegare perché l’Iran dei mullah e di Ahmadinejad non deve avere il nucleare. E bisogna aiutare gli iraniani nel cammino verso la democrazia. Ma in tutto ciò l’Europa è assente. Dove sono le dimostrazioni a favore di Ganji e altri giornalisti in prigione? E quelli contro l’impiccagione dei gay iraniani? Dove sono le femministe quando gli ayatollah impiccano giovani donne accusate di aver ucciso i loro violentatori o quando i basiji buttano acido in faccia alle ragazze «scoperte»? Dove sono i sindacalisti italiani mentre un loro collega, rappresentante di conducenti di autobus di Teheran, giace in cella? Sono settimane che il trasporto pubblico è praticamente fermo per le proteste degli autisti. occidentali in voga in quegli anni. Senza la partecipazione iniziale degli intellettuali e, nella fase finale, dei militari (affatto poveri), i khomeinisti non sarebbero stati in grado di prendere il potere. La via d’uscita meno costosa dall’impasse attuale sta nel riprendere il filo spezzato della democratizzazione iraniana. Gli iraniani sono un popolo orgoglioso e nazionalista. Sebbene a doppio taglio, quest’orgoglio è un’arma formidabile contro gli ayatollah. Per ora i mullah hanno vinto una prima battaglia facendo del loro nucleare, ampiamente criticata da loro nel 79 come un progetto “folle” dello Scià, una questione di prestigio nazionale. Ora tocca al mondo libero di rivolgersi direttamente alla società iraniana per spiegare perché l’Iran dei mullah e di Ahmadinejad non deve avere il nucleare. E bisogna aiutare gli iraniani nel cammino verso la democrazia. Ma in tutto ciò l’Europa è assente. Dove sono le dimostrazioni a favore di Ganji e altri giornalisti in prigione? E quelli contro l’impiccagione dei gay iraniani? Dove sono le femministe quando gli ayatollah impiccano giovani donne accusate di aver ucciso i loro violentatori o quando i basiji buttano acido in faccia alle ragazze «scoperte»? Dove sono i sindacalisti italiani mentre un loro collega, rappresentante di conducenti di autobus di Teheran, giace in cella? Sono settimane che il trasporto pubblico è praticamente fermo per le proteste degli autisti. Il silenzio europeo su questi argomenti permette ai demagoghi della teocrazia di sostenere che l’Occidente stia usando due pesi e due misure. Eppure le poche manifestazioni di sostegno che ci sono state in Italia, soprattutto quella organizzata tre anni fa dal Riformista, ma anche quella pro-Israele del Foglio l’anno scorso, hanno avuto grande risonanza tra gli iraniani, scuotendo il regime. Perché i comunisti accusano chi si batte per Ganji di lavorare per la Cia, ripetendo le accuse degli ayatollah? Perché l’unico contatto sistematico che i parlamentari italiani hanno con le opposizioni iraniane è quello con un gruppo definito “terroristico” sia da Washington e Bruxelles sia dall’opinione pubblica iraniana mentre gli altri vengono snobbati usando ragionamenti ideologici novecenteschi? Le sanzioni, senza una mano tesa verso il popolo iraniano, danneggeranno i movimenti democratici in Iran.Vent’anni di sanzioni americane hanno prodotto solo due risultati: l’Iran ora ha più partner commerciali e l’America, che prima della rivoluzione aveva il 21% delle importazioni iraniane, non è tra questi. Nel 1974, sette paesi detenevano il 70% delle esportazioni e importazioni iraniane. In pieno regime di sanzioni, la stesso percentuale era in mano a 14 paesi europei e asiatici che se ne infischiavano delle sanzioni. Chi garantirà la piena partecipazione della Russia o della Cina alle prossime sanzioni? L’anno scorso, Washington ha imposto sanzioni contro 80 imprese cinesi che continuano a vendere tecnologia missilistica all’Iran. Allora se sanzioni saranno, che almeno siano mirate contro il regime, non il popolo. L’americano Kenneth Timmerman propone di vietare ai rappresentanti del governo iraniano di recarsi all’estero; di vietare i voli internazionali dell’Iran Air;di chiudere le acque internazionali alle navi di trasporto di Teheran; di rilasciare mandati di cattura contro i leader iraniani condannati all’estero per l’assassinio di dissidenti politici avvenuti in Europa negli anni ottanta e novanta; e di congelare i beni di Teheran. Le ultime due misure coinvolgerebbero direttamente Ahmadinejad e Rafsanjani. Per altro, quest’ultimo, secondo Forbes, ha «miliardi di dollari» su conti svizzeri e lussemburghesi e possiede interi villaggi turistici in Dubai, a Goa e in Thailandia. Toccare gli interessi dei mullah,che grazie alla rivoluzione hanno accumulato ricchezze che lo Scià nemmeno s’immaginava, significa aumentare il contrasto che pur esiste, e sta emergendo sempre di più, tra i conservatori di Teheran. Quando l’estate scorsa Ahamdinejad minacciò di perseguire i corrotti, decine di mullah miliardari trasferirono i loro fondi all’estero.Addesso, con la minaccia delle sanzioni, stanno riportando i loro soldi in Iran, dove le esternazioni di Ahmadinejad fanno oscillare violentemente la borsa locale. Infine, se si vuole veramente far tremare i mullah, bisogna aiutare di più le democrazie libanese e irachena, e premere sulla Siria. contro 80 imprese cinesi che continuano a vendere tecnologia missilistica all’Iran. Allora se sanzioni saranno, che almeno siano mirate contro il regime, non il popolo. L’americano Kenneth Timmerman propone di vietare ai rappresentanti del governo iraniano di recarsi all’estero; di vietare i voli internazionali dell’Iran Air;di chiudere le acque internazionali alle navi di trasporto di Teheran; di rilasciare mandati di cattura contro i leader iraniani condannati all’estero per l’assassinio di dissidenti politici avvenuti in Europa negli anni ottanta e novanta; e di congelare i beni di Teheran. Le ultime due misure coinvolgerebbero direttamente Ahmadinejad e Rafsanjani. Per altro, quest’ultimo, secondo Forbes, ha «miliardi di dollari» su conti svizzeri e lussemburghesi e possiede interi villaggi turistici in Dubai, a Goa e in Thailandia. Toccare gli interessi dei mullah,che grazie alla rivoluzione hanno accumulato ricchezze che lo Scià nemmeno s’immaginava, significa aumentare il contrasto che pur esiste, e sta emergendo sempre di più, tra i conservatori di Teheran. Quando l’estate scorsa Ahamdinejad minacciò di perseguire i corrotti, decine di mullah miliardari trasferirono i loro fondi all’estero.Addesso, con la minaccia delle sanzioni, stanno riportando i loro soldi in Iran, dove le esternazioni di Ahmadinejad fanno oscillare violentemente la borsa locale. Infine, se si vuole veramente far tremare i mullah, bisogna aiutare di più le democrazie libanese e irachena, e premere sulla Siria.
Luca Infascelli descrive la pesante censura esercitata dal regime sotto la presidenza di Ahmadinejad:
La svolta ultraconservatrice di Mahmoud Ahmadinejad non risparmia il mondo della cultura. La musica e il cinema sono le prime vittime,ma in generale in Iran tutte le arti devono continuamente superare improbabili esami etici e morali, tenuti da pseudo-esperti forti del proprio inattaccabile, dal loro punto di vista, rigore morale. Il risultato è che sempre più spesso l’arte viene censurata. Innanzitutto, è ovvio, quella straniera e occidentale. Sotto richiesta di Ahmadinejad in persona, il Consiglio Supremo della Rivoluzione ha da poco proibito la distribuzione e proiezione di film stranieri che fanno propaganda alle idee laiche, femministe, liberali, nichiliste e di degradazione della cultura orientale,invitando tutti i media,in particolare la tv statale e la radio, ad applicare l’ordine con integerrima scrupolosità. Stessa sorte è toccata alla musica. Entro la metà del 2006 l’autorità che disciplina le comunicazioni dovrà infatti garantire l’attuazione della normativa volta a vietare a radio e televisioni la messa in onda di musica occidentale, compresa la classica. Un sentiero, quello intrapreso da Ahmadinejad,che in quanto a restrizioni e intransigenza ricalca in pieno quello tracciato dall’Ayatollah Khomeini negli anni ’80. Fu proprio l’Ayatollah, infatti, a rendersi protagonista di gravi repressioni e significativi episodi, come quello del 1979, quando a ridosso della rivoluzione chiamò «anti-islamica» tutta la musica pop, senza dimenticare, esattamente dieci anni più tardi,la proclamazione della fatwa, coincisa con una condanna a morte per bestemmia, nei confronti di Salman Rushdie.E non bisognacredere che le scelte di Ahmadinejad di chiusura all’Occidente siano dettate da esigenze protezioniste finalizzate a rafforzare la cultura interna al paese. Il celebre regista Abbas Kiarostami, acclamato in tutto il mondo per il suo percorso creativo,definito come un nuovo neorealismo, ha spiegato la questione con molta nettezza: «La cultura ha così tanti problemi, in Iran, che verrebbe voglia di andar via.Ma per me l’Iran è come una madre,non la puoi abbandonare. Comunque l’unico modo per lavorare, se l’obiettivo è far vedere i propri film anche gli iraniani stessi,è autocensurarsi.Bisogna essere cauti, perché un film può essere lasciato sugli scaffali per anni solo perché non ha convinto il funzionario di turno». D’altronde, in Iran la censura colpisce ferocemente da tempo, e ben prima che la politica di Ahmadinejad arrivasse a calcare la mano con tali estreme decisioni, compresa quella di bandire una campagna pubblicitaria che ha come testimonial David Beckam. In passato, ad esempio, furono proibiti film come La battaglia di Algeri di Pontecorvo o Z di Costa-Gavras, ma anche in questo caso è molto più grave la situazione che coinvolge gli autori iraniani stessi.Davvero complesso,infatti,creare in libertà quando le regole dettate dal ministero della Cultura e della Guida islamica impongono che in un film non si possa contrastare per alcun motivo alcuna norma islamica, il governo o i giureconsulti, né affrontare temi come la corruzione o la prostituzione, incoraggiare influenze culturali, politiche ed economiche diverse da quelle governative,o lasciare intendere qualunque aspetto che possa essere utilizzato, chissà con quale fine, dagli stranieri contro il proprio paese. Dovendo i registi, inoltre, essere ben attenti, in fase di ripresa, a non inquadrare donne in primo piano, a non truccarle, a non vestire uomini con cravatte o maglie a mezza manica, a non girare scene con un’illuminazione eccessivamente intima e a un mare di altri precetti. In queste condizioni l’autonomia creativa non può esistere, e la linea dura di Ahmadinejad, che ha anche operato una totale chiusura nei confronti di quelle lievi aperture avvenute negli anni Novanta,s’imporrà senza fatica.Anzi, si è già imposta. La cultura in Iran è sotto totale controllo governativo.Fatto davvero deprecabile, se si considera che nonostante tutto il paese ha prodotto, negli ultimi tre decenni, registi come Kiarostami, Mohsen Makhmalbaf (Viaggio a Kandahar) e sua figlia Samira (Apple),Jafar Panahi (Il cerchio), scrittori del rango di Hushang Golshiri e Shahrnush Parsipur,la quale a causa delle proprie idee ha passato diversi mesi in prigione, motivo per cui ora vive negli Stati Uniti, o artisti liberi come la fumettista Marjane Satrapi, che nei suoi Persepolis ha raccontato con tale originalità e schiettezza la storia dell’Iran contemporaneo da essere acclamata da alcuni come la creatrice di una nuova letteratura.Una libertà della quale la giovane Satrapi può godere in quanto anche lei, ovviamente, non risiede in Iran, ma a Parigi.
Infine un articolo sul rafforzamento dell'alleanza tra Iran e Siria:
I leader delle due principali nazioni sulla lista nera delle democrazie occidentali e non si incontreranno alla fine di questa settimana. Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha infatti in programma per il prossimo venerdì una visita in Siria, la prima da quando ha assunto il potere nel mese di agosto scorso. A riferirne è oggi l’agenzia di stampa siriana Sana, citando fonti vicine al governo di Damasco. Poco dopo la notizia è stata diffusa anche dalla stampa iraniana. Stando quanto reso noto dall’agenzia di Teheran Fars, Ahmadinejad incontrerà il presidente siriano Bashar al Assad oltre ad altri esponenti di spicco del paese: la visita si compie su invito del presidente siriano, che era stato a Teheran poco dopo l’insediamento di Ahmadinejad in agosto. Insieme al Nord Corea, i due regimi mediorientali sono considerati da Washington i due «paesi canaglia» da tenere sott’occhio dopo la caduta di Saddam Hussein. Nelle ultime settimane, l’attenzione della comunità internazionale è stata catalizzata dalle ambizioni atomiche del governo di Teheran, che recentemente ha annunciato la rimozione dei sigilli sui siti nucleari, spingendo la trojka europea ad annunciare il deferimento del regime davanti al Consiglio di Sicurezza. Il vertici del regime Siriano, compreso lo stesso presidente Assad, sono già sotto i riflettori delle Nazioni Unite, che hanno indetto un’investigazione sull’omicidio dell’ex premier libanese Rafik Hariri, la cui pista sembra condurre direttamente alla presidenza di Damasco. Gli esperti prevedono un rinsaldamento dell’asse Damasco- Teheran, in vista dell’ulteriore isolamento nazionale seguito dallo scandalo Hariri e dalla rimozione dei sigilli iraniani.
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