Guido Olimpio sul Corriere della Sera di martedì 17 gennaio 2005 riferisce le opinini di diversi esperti sul tempo necessario all'Iran per giungere alla costruzione di ordigni nucleari. Le stime, pessimistiche, degli esperti israeliani sono svalutate in quanto influenzati "dalla politica o da interessi diretti".Certo: il "diretto interesse" a sopravvivere, che difficilmente può essere un cattivo consigliere. Come dimostra l'intervista a Michael Rubin pubblicata dal Foglio, poi non è solo Israele ad essere preoccupato per le mire nucleari iraniane. I vicini arabi del regime degli ayatollah appaiono anzi addirittura "terrorizzati".
Fra quanto tempo l'Iran avrà la sua prima atomica? Gli esperti e gli 007 hanno molte teorie e poche informazioni precise. Uno studio americano sostiene che che «l'Iran potrebbe arrivare al suo primo ordigno nel 2009», a patto che risolva gravi problemi tecnici e tutto vada per il verso giusto. È più o meno della stessa idea il generale Zeev Farkash, capo uscente dell'intelligence militare israeliana che però avverte: entro un anno (o forse meno) Teheran raggiungerà «il punto di non ritorno» (la capacità di arricchire uranio per uso militare), ossia entrerà in una fase attraverso la quale non sarà impossibile arrivare alla Bomba. Per questo, ha sottolineato il generale, «abbiano tra i sei mesi e un anno per fare qualcosa». L'alto ufficiale invita a non fare l'errore di pensare subito al risultato finale — l'ordigno — bensì a concentrarsi sulla strada che porta all'atomica. E di conseguenze la strategia di contenimento deve tenere conto di questo risvolto.
Altre stime israeliane non si allontanano troppo dalle previsioni di Zeev Farkash indicando come «scadenza» tra i 4 e i 5 anni. Gli europei parlano, invece, di 5 mentre alcuni tecnici americani allungano i tempi: tra i sei e i dieci anni. Chi non è influenzato dalla politica o da interessi diretti (come possono essere gli israeliani) si muove con prudenza nell'esaminare la pur reale minaccia iraniana e cerca di sottolineare che gli scienziati di Teheran hanno ancora molto lavoro da svolgere. E le difficoltà da superare possono rallentare di molto il progetto nucleare. Ma le risorse impegnate e la caccia tecnologica scatenata dai mullah potrebbero rivelare sorprese.
Gary Milhollin, direttore del Wisconsin Project sul controllo delle armi nucleari, ritiene che gli iraniani abbiano la volontà di andare fino in fondo e senza perdere tempo.
«Quanto ci impiegheranno ad arrivare alla meta? Nessuno ha la risposta.
Però non mi sorprenderei se entro cinque anni produrranno una, due o tre bombe nucleari». Osservatori «moderati», infine, tendono a vedere i piani di Teheran come uno strumento di pressione e credono che per ora abbiano una dimensione civile. Sono gli stessi israeliani a sottolineare che manca la «pistola fumante», la prova che il progetto avrà un fine militare, anche se è evidente che gli ayatollah ci stanno lavorando.
A spingersi ancora più in là nella minimizzazione del percolo iraniano è il quotidiano comunista che pubblica un'intervista di Marina Forti a Riccardo Redaeli del Landau Network/ Centro Volta, "rete internazionale di scienziati impegnati sui temi della sicurezza nucleare". Secondo Redaelli e la Forti, che tende a enfatizzare le opinioni del suo interlocutore, il negoziato tra Unione europea e Iran non è certo fallito per colpa della volontà di Teheran di giungere comunque a dotarsi di armi nucleari, ma piuttosto per la scarsa generosità delle offerte europee al regime: occorreva, ci viene fatto capire, pagare subito "in contanti" la rinuncia iraniana all'arricchimento dell'uranio. La possibilità che, seguendo questa via, l'Unione contribuisse al rafforzamento di un regime ostile e criminale senza avere la certezza che esso non riprendesse segretamente il suo programma nucleare (secondo un copione già visto in opera nei negoziati tra Stati Uniti e Corea del Nord) non è discussa da Redaeli e dalla Forti, la quale preferisce invece introdurre il tema dell'"insicurezza" iraniana e della minaccia rappresentata dalle armi nucleari israeliane. Dimenticando la differenza tra armi offensive e armi difensive e tra un regime fanatico votato alla distruzione di tutto ciò che contrasta la sua ideologia totalitaria e una democrazia liberale la cui aspirazione è semplicemente di vivere in pace e sicurezza.
Sarà il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite a occuparsi del programma nucleare iraniano? Certo è che il contenzioso tra Tehran e l'occidente sembra precipitare: dopo due anni e mezzo di negoziati con un trio di paesi europei, e di collaborazione con l'Agenzia internazionale per l'energia atomica, ai primi di gennaio l'Iran ha riaperto gli impianti in cui intende sperimentare l'arricchimento dell'uranio - che aveva accettato di chiudere alla fine del 2004, come gesto «volontario», in vista di ulteriori colloqui con Francia, Germania e Gran Bretagna. Così, mentre l'Aiea e gli europei chiedono garanzie sulle sue intenzioni, Tehran riprende a lavorare sulla parte più delicata e meno verificabile del suo programma atomico... Sembra che l'Iran abbia scelto una linea di condotta che porta diritto allo scontro. Perché? «Sarebbe un errore leggere le mosse dell'Iran secondo schemi lineari e razionali», dice Riccardo Redaelli, professore all'Università Cattolica di Milano e ricercatore del Landau Network/Centro Volta, una rete internazionale di scienziati impegnata sui temi della sicurezza nucleare. Da buon conoscitore della realtà politica iraniana e dei termini dei negoziati internazionali degli ultimi anni, avverte: «E' forte la dimensione di politica interna nella decisione iraniana di precipitare le cose: il tentativo del presidente Mahmoud Ahmadi-Nejad di ritagliarsi un suo ruolo, in un quadro di forte lotta interna all'establishment». In terzo luogo, fa notare, «l'accelerazione di queste settimane è il risultato di un accumulo di errori e di calcoli sbagliati dell'una e dell'altra parte».
Quali le ragioni del rilancio da parte di Tehran?
Il gruppo che definiamo ultraconservatore rappresentato dal presidente Ahmadi-Nejad e da Ali Larijani, il capo del Consiglio di sicurezza nazionale, è convinto che l'Iran sia in una posizione di relativa forza nei confronti dell'occidente. Un po' per le difficoltà americane in Iraq, un po' per la crisi energetica e il prezzo del petrolio, ritengono che l'Iran abbia in mano le carte migliori degli ultimi anni. Hanno percepito che la mossa occidentale di andare al Consiglio di sicurezza ha esiti incerti, la comunità internazionale è divisa. D'altra parte ritengono di poter resistere a eventuali attacchi militari limitati: hanno fatto scenari che vanno dall'operazione «chirurgica» a bombardamenti prolungati per alcuni giorni, e pensano di potere fare fronte. Pensano che un attacco compatterebbe il paese, e probabilmente non sbagliano: ritarderebbe di qualche anno il programma nucleare ma rafforzerebbe il regime. A quel punto il governo potrebbe uscire dal Trattato di non proliferazione, giocare in modo più pesante in Iraq. Considerate che per la prima volta un presidente iraniano è popolare agli occhi arabi. Non delle èlite forse, ma delle opinioni pubbliche sì: uno che interpreta sentimenti comuni quando parla di Israele e degli Stati uniti. Un attacco all'Iran sarebbe uno sconquasso per i regimi arabi cosiddetti moderati, filo occidentali.
Ahmadi-Nejad è alla presidenza da agosto, ma i negoziati con il trio europeo si trascinavano già da tempo. Perché siamo arrivati allo scontro?
L'Iran si è sentito preso in giro dagli europei. Riassumiamo: l'Iran aderisce al Trattato di non proliferazione nucleare, e ha il diritto di arricchire uranio per fabbricare il combustibile per le proprie centrali nucleari civili. Il trio europeo riconosce questo diritto, ma chiede a Tehran di rinunciarvi, in modo definitivo. Il motivo è che acquisita quella tecnologia è facile superare la «soglia» che conduce ad applicazioni militari, e nessun controllo è davvero in grado di escludere che questo avvenga; l'Iran ha nascosto in passato parte delle sue attività; così ora l'Aiea, e le potenze nucleari, chiedono di «ricostruire la fiducia». La rinuncia ad arricchire uranio però richiedeva buone contropartite: e l'offerta presentata dagli europei lo scorso agosto era davvero inaccettabile per l'Iran. Chi l'ha letta deve riconoscere che si chiedeva una rinuncia certa e verificabile in cambio di compensi futuri e imprecisati, con verifiche a dieci anni. La trattativa del trio e dell'Ue con l'Iran è fallito, e sarebbe stato meglio riconoscerlo mesi fa.
Ora questi paesi rilanciano a loro volta, e vogliono tirare in causa il Consiglio di sicurezza. Significa andare verso sanzioni? O, peggio, verso azioni militari al di fuori del quadro Onu? Oppure ci sono ancora spazi di negoziato?
La mossa del Consiglio di sicurezza non è necessariamente catastrofica. L'importante è che la comunità internazionale si renda conto che le misure punitive - pressioni, risoluzioni di condanna, sanzioni - non funzionano con l'Iran. Serve un accordo politico che possa rassicurare la comunità internazionale circa il programma atomico iraniano senza però umiliare l'Iran, che vuole riconosciuto il suo ruolo di grande nazione in Medio Oriente e vuole le garanzie di sicurezza cui ha diritto. Non potrà più essere un negoziato solo tra Europa e Iran: bisogna trovare un altro «formato» e deve includere in qualche modo gli Usa, perché solo questi possono dare le garanzie di cui l'Iran ha bisogno. C'è una straordinaria mancanza di sintonia tra Tehran e Washington: da almeno dieci anni in entrambe le capitali ci sono voci favorevoli a un riavvicinamento, ma i momenti di apertura da parte iraniana con coincidono con quelli americani e viceversa. Gli iraniani, anche gli ultraconservatori, vogliono impegnare direttamente gli Stati uniti, sono stufi degli incontri segreti, la diplomazia parallela che continua da parecchi anni.
Già: l'Iran è circondato da truppe americane in Afghanistan, in Iraq e nel Golfo persico, e per di più la bomba atomica c'è già in Medio oriente, l'ha Israele.
Appunto: nessuna trattativa sarà efficace se non coinvolge gli Usa. Ma quale formula di negoziati scegliere? In passato il nostro Centro aveva proposto di allargare i colloqui al G8, ma ormai non è più realistico. E' pensabile però una iniziativa autonoma del segretario generale. La Carta dell'Onu lo prevede: il segretario generale può «offrire i suoi auspici» per appianare una trattativa, magari formare un team di negoziatori. Questo eviterebbe all'Iran l'umiliazione di essere messo «sotto processo» al Consiglio di sicurezza, e agli occidentali il rischio di incastrarsi in un Consiglio diviso. Perché ciò sia possibile bisogna però che nessuna delle grandi potenze sia contraria, e che l'Iran dia segno di disponibilità: il segretario generale non prenderà una iniziativa simile se votata al fallimento. Ma qui tornano vari fattori imponderabili: uno è proprio Ahmadi-Nejad...
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