Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Da pagina 31 a pagina 39 il numero di dicembre della rivista CHARTA MINUTA diretta da Adolfo Urso pubblica l'articolo "La via araba allo Stato nazionale", dell'arabista Sergio Bianchi.
Lo riportiamo: Le semplificazioni, per quanto eff i c a c i sul piano della comunicazione, non aiutano mai la comprensione delle dinamiche politiche, specialmente di realtà così difficili, variegate e complesse come quella operanti nel mondo arabo-islamico. Fra le semplificazioni che maggiormente possono indurre in errore, vi è l’idea che fra Occidente e mondo arabo, o peggio ancora, fra cristianesimo ed islam, sia in atto uno scontro di civiltà. Se ci si fa carico della complessità del mondo arabo-musulmano e delle sue dinamiche interne, ci si rende conto facilmente che le ragioni dell’attuale confronto hanno radici differenti e sono in larga parte interne ai processi di trasformazione delle società arabo-musulmane, i cui effetti raggiungono casa nostra solo in virtù del sistema di interessi, soprattutto economici, tipico della globalizzazione. Paradossalmente, vi è una certa misura di etnocentrismo masochista proprio nell’antimperialismo della sinistra no-global, che individua sempre nell’Occidente la causa dei fattori di crisi, non vedendo la realtà di un mondo arabo-musulmano in crisi da almeno 500 anni, cioè da prima che le potenze europee e gli americani si trovassero invischiati nella palude Medio-Orientale. Il medesimo ribaltamento del rapporto causa-effetto emerg e nelle tesi di quei neocon che, ipotizzando uno scontro di civiltà, si allineano paradossalmente alle tesi scritte nei documenti di a l - Q a ’ i d a h, documenti che all’orecchio degli arabisti suonano arcaici, estranei, perfino linguisticamente inadeguati al livello del dibattito politico arabo attuale. La realtà è spesso più articolata delle analisi: l’Occidente è ed è stato certamente uno dei fattori del processo di trasformazione di questa parte del mondo ed in alcuni casi nella storia ha favorito i processi di crescita civili ed in altri, come nel caso del Mandato britannico in Palestina, li ha decisamente alterati e complicati. Ma resta solo uno dei fattori di seconda battuta, la cui incidenza varia in misura crescente con le contraddizioni interne della società arab o - m u s u l m a n a . A guardarlo nell’insieme, quello del mondo arabo-musulmano assomiglia molto al processo storico che ha portato l’Europa ad uscire dalla logica imperiale verso le singole nazioni e poi da queste ai raggruppamenti continentali, come l’Unione e u r o p e a . Pur in condizioni economiche e sociali profondamente diff erenti, dal crollo della ‘Sublime Porta’ turca ai giorni nostri, il mondo arabo musulmano vive ancora la contraddizione di Stati nazionali che non si sono stabilizzati, non hanno trovato il proprio baricentro ed il proprio equilibrio relazionale, la propria leadership, la propria legittimazione morale e culturale. In qualche caso perfino la propria legittimazione giuridica. Già il termine nazione crea non pochi problemi nella stessa lingua araba: l’antico termine di d a w l a h rimanda a concetti amministrativi che presuppongono la comunità, la ‘ u m m a h ’, dietro cui si cela il sogno imperiale della k h i - l a f a h, il califfato, di cui solo i gihadisti sognano la restaurazione, ed il più moderno w a t a n non ha mai assunto la stessa legittimità culturale di ‘n a z i o n e ’ in italiano. In arabo non c’è ancora un termine vero, dotato della stessa carica semantica che si associa all’italiano ‘n a z i o n e’. Forse perché non c’è mai stata né una Caporetto, né un vero Ris o rgimento, di cui la ‘n a h d a h’ araba di inizio secolo è solo una pallida espressione letteraria. Ai suoi albori il nazionalismo arabo è sostanzialmente un fenomeno culturale estraneo alle masse arabe: i suoi ideologi sono ‘Abd ar-Rahman al-Kawakibi (1854 -1902), Rashid Rida (1865- 1935) e Najib Azuri (1873-1916)’. Nella sua seconda fase, dopo la rivoluzione dei ‘Giovani Tu r c h i ’ del luglio 1908, che ristabilì la costituzione del 1876 ed il processo di turchizzazione dell’impero, il nazionalismo arabo diventa antiturco e si radica nella società: nascono i primi partiti politici, come il ‘Partito del Decentramento’ (1912) e al-Futat, la ‘Società della Giovane Nazione A r a b a ’ (fondata clandestinamente a Parigi il 14 novembre 1909), che 6 anni dopo si unisce al gruppo al-‘Ahd, costituito nel 1913 da ufficiali arabi dell’esercito ottomano. E ’ da questi movimenti transnazionali, strutturati secondo il modello del partito e delle società segrete, sull’esempio del primo nazionalismo europeo, in particolare la carboneria italiana, che nascono i primi documenti politici indipendentisti, come il ‘P rotocollo di D a m a s c o’. Nel 1917-1918, dietro le baionette del generale britannico A ll e n b y, la cultura diventa storia nazionale, con la caduta di Damasco e Beirut, e la nascita della monarchia hashemita di Siria, con Faysal, ed Iraq, con suo fratello Abdallah, che poi, con l’accordo Sykes-Picot del 1916, diverrà Re della Transgiordania . In Arabia Saudita, invece, il movimento nazionale s’intreccia con l’ideologia wahhabista di Ibn Sa’ud, che proclamava il ritorno al puro islam (il cosiddetto I s l a h) come mezzo per far ritornare gli arabi al loro antico splendore; mentre in Egitto, un paese che ha sempre mantenuto un profilo autonomo nelle scenario arabo-islamico (dalla nascita dell’impero sciita fatimide fino al pashalato indipendentista di Muhammad‘ Ali), il nazionalismo nasce con i Fratelli Mussulmani e diventa radicalmente panislamico. In questo scorcio di storia emerge già la prima aporia di questo percorso arabo verso la nazione: da un lato vengono poste le basi di Stati nazionali come l’Arabia Saudita, l’Iraq, la Siria, il Libano, la Giordania o l’Egitto. Dall’altro però, paradossalmente, gli stessi movimenti politici che contribuiscono alla nascita dei vari Stati arabi, che da allora sono rimasti più o meno nei medesimi confini (se si tralascia la questione sionista), li privano della necessaria legittimità morale, storica e culturale. Lo stesso partito a l - I s t i q l a l, fondato dagli uomini di Re Faysal, che nel 1919 governava ancora la Siria, continuarono a d i ffondere nelle assemblee arabo-siriane degli anni 20-30, piattaforme panarabiste, basate sull’idea del Bilad ash- S h a m, della Grande Siria, o della ‘U m - mah A r a b i y y a h ’, la Grande Comunità Araba. La Palestina allora era per i nazionalisti palestinesi solo ‘Suriyyah Ja - n u b i y y a h ’, la Siria meridionale. Nel caso dell’Arabia Saudita, la monarchia traeva la propria legittimità dalla custodia dei Luoghi Santi dell’Islam, perciò con un collegamento territoriale e ffettivo, ma avendo però il proprio baricentro ideale sempre nell’unità islamica. Ibn Sa’ud, come i Fratelli Musulmani poi, sognavano la restaurazione di un Califfato sunnita dall’Iran a Costantinopoli fino a Marrakesh, liberato dalle eresie del Sultanato turco e dei modernismi panarabi, giudicati corrotti ed estranei alla cultura musulmana. La rivoluzione di Khomeini in Iraq non è che una variante shi’itizzata di questo nazionalismo religioso, che pur trovando basi territoriali (l’antica tradizione mahdista dell’Iran duodecimano) ed economiche (il santo petrolio, donato da Allah ai giusti) non riesce a trovare legittimazioni nazionali a fondamento dello Stato. Paradossalmente la matrice religiosa di queste entità statali, come nell’Afghanistan dei Taliban, crea un messianesimo politico che tende a trasformarsi sempre in imperialismo e viene abilmente sfruttato dai potenti di turno, siano essi i pakistani, gli americani o, qualche tempo fa, gli europei. Anche la terza fase della ‘rivoluzione araba’, la t h a w r a h, non è che una variante del panarabismo tradizionale: è quella contrassegnata negli anni ‘50 dall’espansione del socialismo e dall’influenza sovietica in Medio-Oriente, dietro i cui manifesti ideologici hanno cercato di ancorarsi i regimi ba’athisti e panarabi, dall’Iraq, alla Libia, all’Algeria. Il panarabismo socialista, con i suoi esperimenti di fusione nazionale e le sue frustanti avventure militari, ha il suo picco nell’Egitto di Nasir e la sua conclusione nell’avventura di Saddam Hussayn in Kuwait. Il socialismo terzomondista arabo, per molti aspetti in contrasto con i nazionalismi panislamici, non è in realtà che una variante del panarabismo storico, dove l’internazionalismo socialista non riesce a fornire legittimità statale mentre fornisce copiosamente l’alibi culturale, nella sua dimensione sopranazionale, per processi espansivi e di occupazione che si associano alle elites militari dominanti ed alle pressioni delle potenze straniere: è il caso degli Stati Uniti nella guerra Iraq-Iran . Confrontando la via araba alla nazione con quella europea emergono alcune d ifferenze significative, che ci danno ragione delle attuali difficoltà del processo storico arabo-musulmano e ci aiutano a capire l’impasse in cui versano le leaderships arabe: 1) Innanzitutto la formazione ed il consolidamento degli Stati nazionali avviene a seguito del lavoro politico di ristrette elites. Manca cioè una vera e propria dimensione popolare, soprattutto manca la presenza di una borg h esia imprenditoriale diffusa, raccolta attorno ad istanze territoriali. Nessuna rivoluzione araba è mai stata fatta dagli studenti, dalla piazza, dai lavoratori. A l posto di queste forze dal basso emergono due forze sociali predominanti: i ceti militari e la nobiltà territoriale, soprattutto in forma di ‘A s h i r a h ’, la tradizionale famiglia strutturata in clan. Tutti i vari regimi arabi del ‘900 sono emersi con colpi di Stato militari o con accordi internazionali a favore delle grandi famiglie reali. Mancando la base popolare, la ‘n a h - d a h’araba viene monopolizzata da minoranze, come i cristiani in Libano, Siria e Giordania, che furono l’anima del movimento nazionale antiturco e panarabo. Basti dire che l’alfabetizzazione nella Palestina sotto protettorato inglese era del 14% fra i musulmani, del 58% fra i cristiani e dell’87% fra gli ebrei. Nel primo congresso arabo di Parigi (1913), sui 23 delegati 11 erano cristiani ed uno perfino ebreo. La maggior parte dei quotidiani nazionalisti arabi, fino al 1948, avevano fra i propri animatori e finanziatori proprio i cris t i a n i . In altri casi minoranze religiose come gli ‘alawiti’ di Siria si sono impossessati del partito Ba’ath facendo perno sulla propria base religiosa e sulla coesione del gruppo, al pari dei drusi e degli shi’iti in Libano. Una situazione non differente caratterizza l’Iraq attuale, dove due gruppi minoritari del mondo arabo, i Curdi e gli Shi’iti, rappresentano l’ossatura della neo-nata Repubblica. La logica della ‘ a s h i r a h ’, del notabilato familiare locale, sta invece dietro l’ascesa sia delle monarchie che delle dittature militari, come quella irakena o libica: basandosi sulla forza di controllo dei clan, le elites, soprattutto quelle militari, hanno potuto mantenere il potere senza disporre di reale appoggio popolare. Tutto ciò non è rimasto senza conseguenze, poiché gli Stati arabi fino ad oggi non hanno mai avuto una vera legittimità popolare, né avuto a disposizione una solida base morale su cui fondare la prassi. La gestione del potere si è sempre basata su sistemi antidemocratici, che richiedevano fra l’altro l’individuazione di nemici esterni per ottenere quella legittimità che mancava allo Stato. Israele e l’Occidente sono stati perfetti, anche perché non hanno mai mancato di fornire agli arabi valide ragioni di contenzioso. 2) In secondo luogo gli Stati arabi non hanno mai avuto una vera identificazione fra territorio e nazione. I confini nazionali, che sono comunque relativamente recenti, continuano ad essere vissuti come artificiali dalla popolazione e vi sono gruppi, non solo beduini, che si spostano con una certa facilità da un paese all’altro o che posseggono terre e beni in paesi diversi da quelli di residenza in una misura assolutamente sconosciuta in Europa. Inoltre, pur esistendo lingue ‘nazionali’, come il palestinese, l’egiziano, l’irakeno, il tunisino, etc., che sono profondamente diff erenti dall’arabo classico, esse non hanno mai avuto un rango di lingua nazionale neppure a livello locale, come invece è avvenuto per l’h e b re w n e l l o Stato di Israele. Anzi, nella stragrande maggioranza dei casi non hanno neppure grammatiche codificate e non sono scrivibili. E’ paradossale constatare come il fenomeno della diglossia linguistica fra lingua araba f u s h a, classica, che pochi utilizzano ma che resta la lingua ufficiale nella forma di arabo standard, ed ‘ a m m i y y a h ’, dialetto, che tutti parlano, sia parallelo a quello della diglossia politica, per cui si vive in uno Stato nazionale reale delegittimato sentendosi però parte di un’entità politica sopranazionale inesistente ma a cui va la propria adesione. Non solo lingua e suolo non sono divenuti fattori di coesione nazionale, ma anche la stessa popolazione degli Stati nazionali si è ritrovata fra due polarità aggreganti: da un lato il gruppo familiare, vero fattore di coesione territoriale, e dall’altro l’appartenenza tribale. Pochi sanno che, per esempio, la Palestina per quasi mille anni è stata teatro di scontri violenti fra le tribù dei qaysiti e degli yamaniti e che uno dei motivi principali per il cui movimento nazionalista palestinese è stato sconfitto negli anni 30 e 40 dal nascente sionismo, è stato lo scontro sotterraneo fra le tribù palestinesi degli Husayni e dei Nashashibi. Vi sono nella storia araba interi movimenti politici che non hanno senso al di fuori di questa cornice tribale. La nazione, come codice identitario, ha nella cultura araba una capacità attrattiva ancora bassa rispetto al clan, da un lato, ed all’arabità (‘ u ru b i y y a h ’), dall’altro, anche se movimenti chiaramente nazionalisti come quelli cristianomaroniti in Libano o al-Fatah in Palestina stanno gradualmente modificando il panorama. 3) Il terzo elemento è il rapporto distorto fra Stato e religione: mentre infatti le nazioni europee e gli Stati Uniti nascono e si consolidano nella separazione fra la sfera politica, civile, e quella della Chiesa, religiosa, assumendo pertanto una dimensione nazionale inclusiva, che integra nella propria sfera di legittimità statale tutti i cittadini, nel mondo arabo le leadership statali non sono quasi mai riusciti ad operare una separazione fra s h a r i ’ a h e legge dello Stato. Quasi tutti gli Stati arabi, con pochissime eccezioni (ed anche queste più formali che reali), applicano norme della legge religiosa nell’ambito dei diritti individuali e del diritto familiare e ciò impedisce, per esempio, alle minoranze non musulmane, come gli d h i m m i (ebrei e cristiani), di essere integrati a pieno diritto in una società a base musulmana. Questo, per continuare l’esempio, è il dramma dei cristiani di Terrasanta, che sono tendenzialmente anti sionisti ma a cui la radicalizzazione religiosa dello scontro impedisce di schierarsi dalla parte dei palestinesi, che li opprimono e discriminano, fino a costringerli all’esilio (oggi i cristiani in Palestina sono meno dell’1% della popolazione). Analogo è il caso degli arabi drusi, che sono apertamente schierati dalla parte di Israele, nelle cui file militari servono. L’unica eccezione in Medio Oriente (se si esclude la fondazione dello Stato di Israele) a questo processo storico nell’ambito musulmano è la Tu r c h i a : uno Stato che dopo la caduta dell’Impero si è consolidato nel proprio territorio, dove la propria etnia si era insediata mille anni prima, con una propria lingua e, soprattutto, con una rigida divisione fra legge positiva e legge religiosa e dove il ceto militare ha saputo integrarsi con una borghesia urbana sempre in crescita, con l’uso del modello politico democratico adattato alle condizioni locali. In una situazione di sostanziale delegittimazione degli Stati arabi, di crisi del panarabismo e delle ideologie su cui si è via via sorretto; in un contesto di spregiudicato uso strumentale del panislamismo come mezzo di pressione e destabilizzazione di alcuni regimi in profonda crisi, ma che sta portando le classi dirigenti arabe verso un vicolo cieco, quello turco è un modello da seguire con attenzione. E’ su questo processo di crescita nazionale che occorre puntare per stabilizzare il Medio Oriente. Forse anche per questo l’Europa deve avere il coraggio di accelerare sull’all a rgamento alla Turchia, superando dibattiti che sono troppo pervasi dalla logica strisciante dello scontro di civiltà. Da pagina 28 a pagina 30 Marco Zacchera intervista Ilazhar Coen, consigliere all’Ambasciata israeliana a Roma sull'ipotesi di ingresso di Israele nell'Unione Europea.
Ecco l'articolo, "Israele non ha necessità di entrare nell’Ue": Il ministro Ilazhar Coen, consigliere all’Ambasciata israeliana a Roma, ha una lunga esperienza europea ed è quindi la persona più adatta per fotografare come gli israeliani vivano oggi i rapporti con l’Ue e se sia ipotizzabile, in un prossimo futuro, che Israele aderisca in qualche modo alla stessa Unione europea. M i n i s t ro, qual è il grado di conoscenza che gli israeliani hanno della vita poli - tica euro p e a ? "Il pubblico israeliano conosce da vicino l’Europa: molti cittadini israeliani sono nati in Europa o rappresentano la seconda o terza generazione di persone nate in Europa, e la breve distanza tra Israele e il Ve c c h i o Continente consente dei contatti quotidiani tra le società civili dei due Paesi. Per la maggior parte degli israeliani l’Europa costituisce la principale meta turistica. Ma al di là di questo uomini d ’ a ffari, ricercatori e accademici intrattengono relazioni costanti con i loro colleghi europei nell’ambito della loro occupazione professionale. Un terzo del commercio estero israeliano è svolto con l’Europa e Israele partecipa pienamente a tutti i vari programmi europei di ricerca e sviluppo, prendendo parte al processo di Partenariato Euro- Mediterraneo. Vi sono però anche molti che non partecipano attivamente al dialogo e alla cooperazione tra Israele e l’Europa. In assenza di fonti di informazione dirette, l’atteggiamento di gran parte dell’opinione pubblica israeliana nei confronti dell’Europa si forma così in base alle nozioni di storia recente del popolo ebraico durante la Shoah, e in base alle notizie, cui viene dato ampio rilievo sulla stampa, di episodi di antisemitismo nei confronti delle comunità ebraiche europee. La combinazione di questi due tipi di atteggiamenti non giova molto, in parole povere, all’immagine dell’Europa agli occhi degli israeliani più estranei alla politica estera. L’opinione pubblica israeliana considera e valuta poi i processi politici mediorientali come qualcosa che tocca sul vivo la stessa reale esistenza dello Stato d’Israele, e per questo essa non mostra molta simpatia nei confronti delle posizioni europee riguardo al processo di pace. Molti sono convinti che le posizioni dell’Europa tendano a favore dei palestinesi, senza prendere in considerazione le esigenze di sicurezza della democrazia israeliana. Proprio negli giorni scorsi è stata pubblicata la notizia, che ha avuto un’enorme risonanza in Israele, che l’Europa sta valutando la possibilità di intraprendere un dialogo con il braccio politico di Hamas, gruppo che si trova già nella lista del terrorismo dell’Ue. D’altronde, fino a oggi l’Europa ha evitato di inserire nella propria lista di organizzazioni terroristiche anche gli Hezbollah, nonostante sia ormai chiaro a tutti il ruolo negativo svolto da questi ultimi nella ripresa del processo di pace tra Israele e palestinesi, e nonostante l’inspiegabile fatto che un partito politico abbia a sua disposizione 12.000 missili! Su questi temi la distanza tra le posizioni israeliane e quelle europee è ancora grande, e questo non contribuisce a formare l’immagine di un’Europa equidistante tra l’opinione pubblica israeliana. L’opinione prevalente in Israele è che le motivazioni dell’Europa a tale riguardo sono dettate da interessi economici, in particolare per le fonti energ et i c h e " . Ma Israele è interessata ad una pro - g ressiva integrazione con l’E u ro p a ? "Siamo comunque molto interessati ad ampliare e approfondire le nostre relazioni con l’Europa: la vicinanza fisica, la condivisione dei valori di democrazia, libertà e di libero mercato sono solo alcuni degli elementi che rendono naturale il desiderio di vicinanza tra le due parti. Da quando Israele firmò l’accordo per la creazione di una zona di commercio libera con il Mec (1975), la cooperazione tra le due parti si è sempre più estesa. Oggi esistono relazioni commerciali e anche altri campi di cooperazione: oltre al dialogo politico, programmi scientifici, nel campo dei trasporti e molti altri, nel contesto dell’accordo di associazione firmato nel 1995. Israele ha anche firmato con l’Ue un Accordo Governativo di Procurement (Gpa) e un accordo con cui diviene parte del programma europeo di Ricerca e Sviluppo. Recentemente, nel 2004, Israele e la Commissione europea hanno firmato un piano d’azione per un ulteriore ampliamento della cooperazione, nell’ambito del programma europeo per le relazioni con i nuovi vicini, in seguito all ’ a l l a rgamento europeo (Enp) che comprende molti elementi e copre diversi campi e settori: politico, economico, industriale, doganale, scientifico, tecnologico e turistico. Per quanto riguarda l’adesione d’Israele all’Unione europea, ritengo che abbiamo a nostra disposizione una gamma così vasta di opportunità e possibilità da sfruttare senza la necessità, allo stato attuale, di entrare a far parte dell’Ue. Un giusto e corretto sfruttamento degli ambiti di cooperazione già esistenti, assieme a un contenuto valido e concreto, porterà le due parti a un grado di collaborazione e vicinanza che solo per poco non sarà identico alla piena adesione all’Ue. La questione dell’adesione di Israele all’Ue non è mai stata peraltro sollevata da esponenti ufficiali a Bruxelles, e pertanto non si è mai reso necessario per noi occuparcene. Comunque è chiaro che anche un dibattito puramente ipotetico sulla questione, a fianco dei numerosi benefici che deriverebbero a Israele da un processo simile, si pongono questioni non semplici, come quella legata all’identità ebraica dello Stato d ’ I s r a e l e . In ogni caso, non vi è dubbio che un r a fforzamento e un miglioramento delle relazioni tra Israele, Europa e altri esponenti occidentali - come la Nato - conferiranno a Israele un maggior potere che gli permetterà di assumersi i rischi legati al raggiungimento della pace con i palestinesi e gli altri vicini arabi". Come viene passata dai media, in Israele, la crisi che oggi sembrano at - t r a v e r s a re le istituzioni europee? Vi so - no stati commenti ai re f e rendum in Francia ed in Olanda? "La partecipazione di Israele a vari forum europei gode, ovviamente, di ampio spazio sui mass media israeliani, e le relazioni tra Israele ed Europa sono oggetto di dibattiti in molti forum professionali. Sempre più uomini d’aff a r i israeliani, industriali e uomini del mondo della tecnologia, sono coinvolti in rapporti di lavoro e cooperazioni con esponenti europei. Tutto questo, ovviamente, emerge attraverso i mass media e giunge al grande pubblico. Tuttavia, a causa della comprensibile sensibilità sul tema, la notizia isolata di una profanazione di un cimitero ebraico in una determinata città europea, a sfondo antisemita, ottiene una copertura mediatica, un’eco e un dibattito pubblico maggiori di quanto ne ottenga qualsiasi altra attività congiunta tra le società civili nei comuni campi d ’ i n t e r e s s e . I referendum svoltisi in Francia e Olanda hanno avuto un’ampia copertura mediatica in Israele, sia dal punto di vista interno europeo, sia per l’influenza di un’eventuale mancata ratifica della Costituzione europea sulle relazioni tra le parti. Con quest’animo e in mancanza di conclusioni chiare da trarre dai risultati dei referendum oltre che dall’annullamento dei referendum programmati in altri Paesi membri, anche l’opinione pubblica israeliana è in attesa di vedere quale sarà la sorte della Costituzione europea, e in particolare come ciò influirà sulle complesse relazioni tra le due parti". Da pagina 31 apagina 34 Sergio Bianchi intervista Yosef Ben Shlomo, ideologo del ovimento delle colonie.
Ecco il testo: Kdumim è uno dei primi insediamenti ebraici nel triangolo Tulkarem, Shechem, Qalqilya, nel cuore della We s t Bank araba. E’qui, fra i sicomori e gli ulivi, fra casette bianche con i tetti rossi, i giardini rasati e nugoli di bambini giocosi che si ricorrono sulle stradine bianche, che vive da quasi 30 anni Yosef Ben Shlomo, un ebreo askhenazi di 75 anni, che è considerato l’ideologo del movimento degli insediamenti. E ’ l’ala destra del Likud, quella che non crede allo scambio terra contro pace. Intorno i villaggi arabi, con i cui terreni coltivati la casetta di Ben Shlomo confina. "Lo scriva - mi dice - non abbiamo muri e difese. Solo tele - c a m e re di contro l l o ", e me le mostra con un dito secco e lungo, volgendo il viso verso l’alto, con i lunghi capelli bianchi scarmigliati che non riescono a stare dietro ai suoi movimenti veloci. Segnato nel fisico dalla malattia, l’erede di Gershom Sholem all’Università Ebraica di Gerusalemme prima, e poi, docente di filosofia ebraica alla Tel Aviv University, alle cui lezioni si entrava solo con un numero di prenotazione e dopo lunghe attese, parla ancora con la forza e la profondità del filosofo. Sa di appartenere carne e sangue a questa terra a cui deve la vita: "Mio padre era un chassid antisionista. Venne in Israele illegalmente nel 1932 e, grazie al - l’aiuto di una Rotschild, riuscì ad en - t r a re nelle quote di emigrazione. Non c redeva nello Stato ebraico ma si in - namorò del clima e del paese. Fu solo per questo che siamo stati gli unici della nostra famiglia a salvarci dal - l ’ o l o c a u s t o" P rof. Shlomo, di chi è la terra su cui è c o s t ruita questa casa ? "Di nessuno, non ho toccato la terra di nessun arabo. Era del Governo giordano prima della proclamazione dell’Indipendenza. Poi, dopo la guerra, è finita all’agenzia ebraica competente e chi mi ha preceduto l’ha avuta in concessione per edificare. Non c’era niente qui prima, nessuno l’ha rivendicata. Ci sono molte zone come queste in Israele, sono un po’ come il Limbo. Non creda che sia facile avere terreni qua, come ovunque in Israele: siamo controllati a vista, il Governo misura tutto e gli arabi ricorrono sempre ai tribunali dello Stato ebraico, dove spesso vincono perché siamo un paese di diritto". Cosa significa "Stato ebraico". Per noi ita - liani suona strano: non siamo abituati a defini - re l’Italia uno Stato cattolico e la Germania uno Stato protestante. "Il sionismo fin dall’inizio ha avuto due tendenza una messianica, secondo cui la costituzione dello Stato ebraico era una tappa anticipata nella storia delle redenzione ed una normalizzatrice, che tendeva a considerare Israele uno Stato come un altro, reso necessario dagli eventi. Poi vi erano i rabbini, la componente religiosa che, se si escludono figure come Rabbi Kook, erano fin dall’inizio addirittura su posizioni anti stataliste, non volevano creare uno Stato ma solo una comunità in I s r a e l e . Al di là della matrice storica, però, non si può non vedere come quella di Israele sia una situazione unica, per cui il paragone che Lei fa con l’Italia non è proponibile voi italiani, con Mazzini, Garibaldi e Cavour, avete liberato il vostro paese nel Risorgimento; cioè avete fatto vostra una terra in cui già eravate, dentro un universo linguistico e culturale che era già vostro. Così sono nate la maggior parte delle nazioni europee. Perfino gli americani sono coloni che si sono insediati in una nuova terra, un posto dove prima non erano mai. Per noi ebrei è molto diverso: fin dall’inizio, dalla Bibbia, se vuole, Dio ha detto ad Abramo ‘Vai in quel posto’. Vai, insediati, non stare dove sei, vai in un posto nuovo, una Terra Nuova. Negli anni ‘20, prima e dopo l’Olocausto, gli ebrei della diaspora hanno ripreso questo moto antico tornando in una terra dove erano sempre rimasti come minoranza ma dalla quale la maggioranza degli ebrei mancava da oltre 1000 anni. L’ebreo ha la sua identità in questa terra verso cui ha sempre pregato, da millenni, che dalla diaspora in poi ha sempre considerato la sua casa, il suo sogno. Se legge i Salmi sa cosa significa Gerusalemme per noi. Lei che parla arabo chieda ai palestinesi se prima dell’arrivo degli ebrei consideravano la Palestina la loro nazione? No, si sentivano parte dell’impero turco o della Siria. La nazione palestinese non esisteva, siamo stati noi sionisti che, per contrasto, abbiamo sviluppato il nazionalismo palestinese. Che ci piaccia o no l’ebreo ha la sua identità nella storia religiosa del Popolo di Dio. Ecco, lo spirito dei pionieri, dei settlers, è parte del Giudaismo, che poi si è fuso con la nazione. Noi siamo l’unica religione che fin dall’inizio è naturalmente e quasi fisicamente collegata ad un popolo. Non c’è l’uno senza l’altro. A questo aggiunga la lingua, l’ebraico, una lingua che gli ebrei della diaspora hanno coltivato ovunque, ashkenazi o safardi. Noi ebrei siamo riusciti a far rivivere l’ebraico come lingua quotidiana dello Stato ebraico, cosa che era ritenuta da tutti i linguisti del tempo una pura follia. Questo è stato possibile perché gli ebrei hanno sempre pregato in ebraico, sia che fossero italiani o russi o marocchini. Questo è stato un grande successo del sionismo, ma che dimostra ancora l’importanza del legame sostanziale fra giudaismo ed identità ebraica. E ’ dunque un fatto che Israele è uno Stato ebraico prenda le festività, sono tutte feste originariamente religiose, se si esclude il giorno dell’indipendenza. Potrebbe essere diversamente? Vede, gli ebrei che per primi sono arrivati in Israele, pur se istruiti, laureati, professionisti nei loro paesi di origine, qui hanno voluto fare gli agricoltori, collegarsi alla terra, al suolo, dove hanno le loro radici. Giudaismo, lingua ebraica, terra e nazione sono un tutto inscindibile per Israele ed i coloni sono coloro che ne incarnano lo spirito. In Israele però vivono anche non ebre i , come i cristiani ed i musulmani, per ta - c e re dei drusi e delle altre minoranze. Se Israele è uno Stato ebraico che po - sto c’è per i non ebre i ? "Senta, si guardi intorno Israele, pur essendo uno Stato ebraico, è anche l’unico paese dell’area che garantisce a tutti i cittadini, per legge, pari diritti e pari dignità. Pur essendo la democrazia un istituto storicamente estraneo alla cultura tradizionale ebraica, Israele lo ha fatto proprio e lo Stato ebraico è l’unico soggetto veramente democratico del Medio Oriente. Siamo tanto democratici che quella che per noi ebrei è la festa dell’indipendenza, per gli arabi israeliani è un giorno di lutto. Immagini cittadini israeliani, che hanno la mia stessa Id, che considerano la fondazione del ‘loro’Stato un giorno di lutto. La verità è che loro non si sentono parte dello Stato di Israele, così come io mi sento più vicino ad un ebreo americano, che ha passaporto americano, che ad un arabo con carta d’identità israeliana". Mi scusi, prof. Shlomo, ma vi sono an - che leggi dello Stato ebraico che di - scriminano chi non è ebreo, come quella sull’ ‘alyah’, per esempio, il di - ritto al ritorno. Il figlio di una donna e b rea russa, per esempio, dal momento in cui sbarca in Israele ne diviene cit - tadino. Lo stesso non vale per i non e b rei. Le potrei raccontare molte storie di donne russe cattoliche della Galilea che hanno comperato i certificati di di - scendenza solo per scappare dalla Russia... Per non parlare poi dei rifu - giati palestinesi. "Lei ha ragione questa del diritto al ritorno è l’unica vera discriminazione dello Stato. Davanti alla corte suprema ci sono stati casi eclatanti, uno sollevato proprio da un missionario cattolico di origine ebraica eppure la Corte ha sempre rigettato queste istanze. Ma d’altronde ci sono nei vari paesi arabi oggi fra i 2 ed i 4 milioni di rifugiati palestinesi, cacciati dalla loro terra di origine o che se ne sono andati durante le varie guerre, per forza o per scelta. Moralmente avrebbero anche loro diritto al ritorno, ma politicamente e praticamente questo è impossibile. E poi come stabilire chi sono i rifugiati oggi? E ’ un po’come con la terra con la scusa che non dispongono di documenti storici, di attestati obiettivi, la terra sembra essere sempre e solo la loro. Sa quanti sono i finti rifugiati che si dichiarano tali solo per avere le sovvenzioni delle Nazioni Unite? Perciò anche se la legge sul diritto al ritorno è moralmente discutibile, essa è praticamente utile". Cosa rimprovera al Governo israe - l i a n o ? " Vede, io con il tempo sono sempre più apolitico. In realtà alla mia età ho poco da rimproverare e nulla da rivendicare, anche perché nessuno mi può più togliere il diritto di vivere dove voglio nella Terra di Israele. Le dirò che paradossalmente, se lo Stato dovesse decidere di restituire anche questa casa, questo insediamento, io continuerei a vivere qui, se potessi, anche sotto un governo palestinese, perché il mio diritto e la mia libertà sono più grandi dello Stato stesso. Mi faccia essere ancora più paradossale se potesse servire a salvare anche solo la vita di uno dei nostri ragazzi di 18 anni dell’Idf, io regalerei agli arabi anche il Muro Occidentale (Ndr: Il Muro del Pianto, gli unici resti attuali del Tempio di Salomone a Gerusalemme). Non è questo il punto la questione, quello che io rimprovero al Governo, è che esso ha abdicato alle ragioni morali che sottostanno alla nascita dello Stato di Israele. Lei crede che dando terra contro accordi avremo la pace? Non si illuda avremo solo un contratto, magari con qualche firma di poco valore. Ma non avremo un vero accordo di pace fino a quando non sarà riconosciuto il nostro diritto morale e non solo pratico (quello ce lo siamo guadagnato con il sangue e cinque guerre) all’esistenza dello Stato ebraico. Non confonda questo caso con gli Accordi di Camp David lì si trattava di accordi fra due Stati, Israele ed Egitto. Ognuno ha riconosciuto l’altro. Tutti noi siamo stati a favore della restituzione del Sinai. Questo è un caso diverso se non c’è questo diritto morale all’esistenza, se c’è solo la politica, allora non solo la mia casa è illegale, ma anche quelle di tutti gli israeliani, anche tutta Israele è un furto se i palestinesi non riconoscono il diritto morale delle Stato di Israele all’esistenza nella nostra terra. Forse con gli anni sono diventato pessimista, ma le confesso che temo che questa posizione dello Stato ebraico ci porterà in prospettiva verso una nuova guerra, come Oslo ci ha portato all’Int i f a d a h . Si è fatto sera. Dai minareti dei vicini paesi arabi si diffonde l’Adhan, il canto del muezzin che richiama alla preghiera ‘Allah huwa al Akbar wa Muhammad rasul Allah’. In questa parte del mondo terra e cielo sembrano essere troppo vicini, al punto tale che ogni pietra, ogni sasso, ogni angolo di strada si carica di valori assoluti e in sere come queste ti senti fortunato ad essere un misero cattolico italiano, erede di una Chiesa che ha investito sui diritti naturali della persona senza aggettivi, che ha scelto di dare a Cesare quel che è di Cesare. Sarà fatica anche per Sharon convincere questi 200.000 settlers che rivendicano il diritto morale di Israele a trovare un accordo con palestinesi, per i quali gli ebrei vanno comunque ricacciati a mare. Certo è però che mai prima d’ora Israele aveva fatto scelte così coraggiose e mai come ora era stata così vicino alla pace, a discapito degli estremisti dell’una e dell’altra parte". Invitiamo i lettori di Informazione Corretta a scrivere alla redazione di Charta Minuta per esprimere la propria opinione. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.