Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Il razzismo multiculturalista smascherato da Giorgio Israel
Testata:Il Foglio Autore: Giorgio Israel Titolo: «Il multiculturalismo è multirazzismo (però buonista)»
IL FOGLIO di venerdì 16 dicembre 2005 pubblica a pagina 2 un articolo di Giorgio Israel che spiega perchè l'ideologia del "multiculturalismo", teoricamente l'antitesi del razzismo, sia in realtà essa stessa profondamente razzista. E’una storia vera, realmente accaduta, come altre analoghe. Un bimbo africano adottato fin da piccolo da una famiglia italiana viene ripetutamente molestato a scuola. I suoi compagni di classe lo chiamano "scimmia". Il bambino è scosso, disperato, i genitori protestano, s’incontrano con gli insegnanti e con i genitori degli altri bambini. Questi ultimi escludono vivacemente che vi siano sentimenti razzisti in circolazione. "E’ così difficile capirsi tra ‘diversi’… – protestano – non sarebbe il caso di organizzare degli incontri per scambiare la conoscenza dei rispettivi usi e costumi? La cosa più carina sarebbe organizzare delle cenette in cui ognuno fa gustare all’altro le proprie specialità etniche…". In realtà, il nostro bimbo parla romanesco e adora la pizza e gli spaghetti. Perché mai dovrebbe rompersi la testa a cucinare il kunde, il kaklo o il riso al cocco, e provarne il sapore per lui inusuale, mentre i suoi compagni lo introducono alle meraviglie dei bucatini all’amatriciana, che lui conosce meglio di loro? Inutile dire che al bimbo africano e ai suoi genitori la proposta non piace per niente. Sono storie vere. Storie di razzismo. Di razzismo buonista, non meno efferato di quello ordinario, perché ti avvolge subdolamente con le sue spire carezzevoli e se lo prendi a calci – come merita – rischi anche di passare per cattivo. Sono storie che esprimono meglio di qualsiasi analisi quanto l’ideologia multiculturalista abbia tracciato un nuovo "rispettabile" percorso per il razzismo, e minaccia di farlo diventare senso comune. Esaminiamo il percorso concettuale che sta dietro all’atteggiamento di quei genitori. Si parte dall’assioma della diversità: siamo diversi, ognuno ha delle radici identificanti, che è inutile nascondere o confondere, anzi è meglio che ognuno ne riassuma la consapevolezza fino in fondo, casomai le avesse improvvidamente smarrite. In parole povere: se sei negro (pardon, nero) e non hai cucinato e mangiato la banana fritta, sbrigati a farlo e a riacquisire la tua identità occultata: etnico è bello. Questo percorso consiste nell’indurire la coscienza etnica, laddove essa non è già sufficientemente dura, attraverso un processo di "culturalizzazione". E allora, dopo che ci siamo ben assisi ciascuno nella propria identità etnico-culturale, che abbiamo occupato il posto che ci è stato assegnato nel mondo della multiculturalità, con tanto di biglietto numerato, resta da passare al processo interattivo, al dialogo, all’"interculturalità". Nella fattispecie, fare un assaggio incrociato di bucatini all’amatriciana e di riso al cocco. Per tale via creeremo la società della mutua tolleranza. Per l’intanto – notiamo noi – ci siamo divisi più di quanto lo fossimo stati. Non è necessario molto sforzo per ricostruire questo percorso concettuale: basta consultare gli scritti "teorici" degli operatori del multiculturalismo, non di rado formulati come concreti programmi d’intervento politici e gestionali. Si parte dall’assunzione apodittica che le nostre società, le nostre città sono un "mosaico" di etnie, e pertanto si assume come dato di fatto una condizione di "multietnicità"; quindi si individua come primo passo per rompere le "barriere", la trasformazione della multietnicità in "multiculturalità", ovvero nientemeno che l’indurimento delle identità; il terzo passo consiste nel lanciare "ponti" di dialogo mediante l’"interculturalità". Se queste dottrine pretendono di diventare senso comune e addirittura orientamento di attività pratiche, diventa un dovere osteggiarle, perché si tratta di dottrine razziste. Difatti, i capisaldi concettuali che abbiamo appena visto sono la prova inequivocabile che il vecchio razzismo tradizionale e le dottrine multiculturaliste sono le facce della stessa medaglia. Abbiamo visto che il dato di partenza è che la realtà sociale è costituita da un "mosaico di etnie". Notiamo di passaggio che questa visione è oltretutto ignorante, perché presenta come un fatto nuovo la coesistenza di identità diverse, come se la Roma imperiale non fosse pullulante di ancor più identità di quanto non lo sia l’attuale, e la globalizzazione fosse un fatto del tutto nuovo, e non un processo che caratterizza tutta la storia dell’umanità (il vino e lo strudel sono esempi di globalizzazione alimentare ben prima della Coca-Cola). Certo, le forme attuali della globalizzazione – soprattutto economica – hanno caratteristiche nuove e pervasive, ma si tratta comunque di un discorso che merita ben altra cautela della asserzione di una rottura totale tra passato e presente. Comunque, l’idea del "mosaico di etnie" è il cuore di una visione razzista. Un razzista tradizionale avrebbe detto che l’umanità è un "mosaico di razze", magari composto dei tre tipi fondamentali di Gobineau. Che poi per qualcuno l’incrocio razziale sia il male – la fonte della degenerazione – e per altri sia invece il bene, cosa cambia? Ci si divide sui gusti ma si è d’accordo sulle premesse e cioè sul carattere razzialmente segmentato dell’umanità. Ma – si dirà – qui non si parla di razze, bensì di etnie. Il guaio è che questo non migliora affatto le cose. Il concetto di etnia è più complesso e ambiguo di quello di razza, perché non si basa come il primo sul determinismo biologico, bensì ricorre a un insieme di fattori eterogenei: biologici, linguistici, sociali, fino agli aspetti ideologici e di autorappresentazione. Trattasi di fattori che possono essere in parte assenti – un’etnia può caratterizzarsi per una forte identità religiosa o culturale senza unità linguistica o senza tratti somatici caratteristici – e che comunque si collocano a livelli molto diversi e incommensurabili fra di loro. Mantenere separati questi fattori è essenziale perché, come ha osservato Lévi-Strauss, il "peccato originale dell’antropologia" consiste nella confusione tra fattori biologici e produzioni sociologiche e psicologiche delle culture, la quale è all’origine del "cerchio infernale" che ha condotto alle ideologie razziste. Ed per questo che non pochi antropologi sono diffidenti nei confronti del concetto di etnia e considerano l’opportunità di sbarazzarsene. Chi conosca la storia delle dottrine razziali sa che esso è parente stretto di quel concetto di "stirpe" con cui il cosiddetto "razzismo spiritualista" italiano del periodo fascista tentò di proporre una versione non biologistica e più "accettabile" del razzismo. Come che sia, una prescrizione essenziale è non considerare le etnie come formazioni omogenee e confrontabili – come se tutte possedessero lo stesso tipo di componenti e caratteristiche, materiali, sociali o ideologiche – pena il ricadere nel "circuito infernale" di cui sopra. I tasselli di un mosaico hanno tutti lo stesso spessore e quasi tutte le stesse caratteristiche, mentre nulla del genere può dirsi per le etnie. Pertanto, la nozione di "mosaico" (etnico o razziale che sia) fa rientrare direttamente nel "circuito infernale". Il multiculturalista predica il confronto tra etnie su basi culturali. Pertanto ha necessità di un insieme di dati omogenei e di compiere un’operazione. La necessità deriva dal fatto che, per essere confrontabili, le etnie debbono esibire ciascuna tutte le possibili caratteristiche, nessuna esclusa: somatiche, culturali, culinarie, di abbigliamento, di religione, di lingua eccetera. Perciò, il bambino "africano" della nostra storia, per confrontarsi con i suoi compagni "italiani", deve esibire tutte le "sue" caratteristiche: se non sa cosa sia il riso al cocco, è bene che lo impari al più presto, e che impari anche la "sua" lingua, e via dicendo. E, per rendere possibile il confronto, le caratteristiche etniche debbono essere acquisite ed esibite in forma consapevole e strutturata: in una parola, debbono essere trasferite nella dimensione "culturale". Ma la codificazione "culturale" delle differenze è esattamente il modo per cristallizzarle: il bambino "africano", per potersi far accettare dai suoi coetanei "italiani" è costretto – sottilineiamo, costretto – a strutturare la sua identità attorno allo zighinì o alla banana fritta, e a imparare e a proporre i "suoi" canti tradizionali. Mentre gli altri risponderanno a suon di pizza e di funiculì funiculà. Scappa da ridere. Ma è un dramma. Perché di qui nasce la società comunitarista, la società delle divisioni, del razzismo e della violenza. Difatti, come scriveva Amarthya Sen il 2 dicembre sul Corriere della Sera, "la violenza è alimentata dal senso di priorità che viene dato a una pretesa identità. Quando arruolavano gli hutu per ammazzare i tutsi, alle reclute potenziali veniva detto che erano hutu e non anche kigaliani, rwandesi, africani ed esseri umani". Già, esseri umani… Il guaio è che i multiculturalisti sono riusciti a far diventare senso comune l’idea che l’umanesimo sia vuota retorica, mentre le loro visioni sarebbero ispirate a un realismo che rispetta le identità conciliandole tra di loro. E hanno occultato il fatto che, al contrario, la loro dottrina è quanto mai miserabile, non nel senso offensivo del termine, ma in quello testuale: perché immiserisce la straordinaria e infinita ricchezza con cui si manifesta l’umanità, riducendola a un conglomerato finito di monadi cristallizzate nella loro separatezza. Non vedono e non vogliono far vedere quale straordinario e variegato succedersi di identità sempre diverse per natura e caratteristiche ci offra la storia umana, nel dispiegarsi di una fantasia senza limiti: un "continuum" – non un mosaico, non un "discreto" – di formazioni, ciascuna caratterizzata da aspetti diversi, un emergere incessante di nuove identità. E’ proprio questa visione aperta che include anche la possibilità della riscoperta e del recupero (per libera scelta, però!) di parte o tutto delle proprie radici. Il multiculturalista non coglie che il bambino di origine africana, di colore, ma che parla in un dialetto napoletano o siciliano e ha abitudini alimentari della terra d’adozione, e tante altre caratteristiche di infinita varietà, è una nuova identità dinamica, è uno straordinario e originale frutto di quella continua creazione di nuovo che si manifesta nei processi sociali umani. No, secondo lui, per essere "accettato" egli deve essere inchiodato alle caratteristiche ricavabili dalla sua storia anagrafica, deve essere incasellato nella sua "etnia". Di qui le orride prescrizioni "interculturali", che imboccano la via opposta a quella più naturale e giusta: spiegare ai bambini che lo chiamano scimmia, che siamo tutti esseri umani, spiegare le cause che producono certe differenziazioni somatiche, e altre differenze di altro genere, mostrarne l’inessenzialità rispetto a ciò che ci accomuna. E’ davvero impossibile spiegare a un bambino che le razze non esistono, smantellare i pregiudizi pseudo-scientifici che ci si sono attaccati addosso come concrezioni? Non è così difficile. Quantomeno, se si crede ancora alla possibilità dell’"insegnamento", non ridotto alla trasmissione di formulette miserande da bazar della subcultura. Parlavamo di concrezioni difficili da scalfire. Ci si provi a dire "apertis verbis" in pubblico che le razze non esistono. Ci si troverà di fronte a reazioni tra lo scandalizzato e lo stupefatto, anche da parte di persone moderate, aperte, "progressiste". Ti dicono: "Ma come! Non è un dato di fatto che io sono bianco e quelli sono neri come la pece, e quegli altri gialli col naso schiacciato?" Devi spiegargli, contrastando mille pregiudizi, che la gamma dei colori che puoi trovare nel mondo è praticamente infinita, un continuo, che la gamma delle forme dei nasi è infinita, e così via; devi spiegargli che è impossibile fondare le differenze su basi genetiche. Quasi tre secoli di pregiudizi razziali, sostenuti da un’autorità "scientifica" che non era altro che un cumulo di assunti ideologici, ci hanno lasciato in eredità una crosta spessa di pregiudizi straordinariamente difficile da scalfire: nel perverso intreccio tra antropologia fisica e genetica delle popolazioni si è fondato un complesso dottrinario che si è ammantato di vesti "scientifiche" mentre non era altro che un conglomerato di preconcetti. Tanto più è necessario impugnare lo scalpello, invece di ricominciare a imboccare sentieri perversi già funestamente percorso con il concetto di razza. Dovrebbe essere superfluo dire che il concetto di "identità" non ha in sé nulla di negativo. Al contrario. Non vi è mai stato nulla di creativo nella storia dell’umanità che non sia stato connesso all’affermarsi di identità, e spesso di identità forti. Con il che non s’intende certo identità "pure": dovrebbe essere superfluo dirlo, ma purtroppo non è così. L’identità culturale dell’uomo rinascimentale non era altro che un conglomerato di apporti e recuperi culturali fra i più lontani e disparati, ma sintetizzati da una visione forte e proiettata verso un fine ben definito. Una società vitale – anzi, una società degna di questo nome – deve avere come perno un’identità dominante capace di orientarne lo sviluppo e stabilire i principi della convivenza civile. Questa identità dominante non deve essere sentita come qualcosa di chiuso, di esclusivo, o addirittura proteso a sanzionare la contrapposizione dell’"uno" contro l’"altro"; deve essere un’identità aperta, inclusiva, che propone il proprio modello in modo tollerante e rispettoso, tendente a dissolvere i fattori di contrapposizione e ostilità. La forza di un’identità aperta e vitale sta proprio nel non aver bisogno di caratterizzarsi in senso negativo, ovvero sulla sola base della sua diversità dagli "altri". Il multiculturalismo ha invece come pilastro la contrapposizione fra il "noi" e il "voi", e quindi, sotto lo schermo di un sorriso tollerante e buono, cristallizza una divisione irriducibile. Al contrario, un’identità vitale si fonda soprattutto su principi e ideali solidi da proporre e propugnare e attorno ai quali federare una società. Per questo il multiculturalismo alligna soprattutto nelle università dell’occidente e dilaga in Europa: perché è il simbolo di un’identità che non crede più in se stessa e nella propria capacità di proporre prospettive e ideali e ripiega verso la visione di una società segmentata e divisa in aree comunitarie che dovrebbero rispettarsi a vicenda quanto più non interferiscono e finiscono, com’è naturale, con l’odiarsi. Tanto più che oggi, fra queste identità, ne emerge una – l’integralismo islamico – che si pretende forte e capace di riempire tutti gli spazi lasciati liberi. Tariq Ramadan l’ha detto chiaramente: solo l’islam è capace di riempire il vuoto spirituale e ideale dell’Europa. Che risponde a questa sfida con la miseria multiculturalista, ovvero accettando di fatto questi propositi e tutte le loro conseguenze. Ma è proprio vero che l’identità europea non ha più nulla da dire, se non acconciarsi, con il multiculturalismo, alla deriva verso quello che ci ha prospettato la recente esperienza francese, verso quel che aveva previsto Lévi-Strauss nel 1971, "tensioni tali che gli odii razziali offriranno una misera immagine del regime di intolleranza esacerbata che rischia di instaurarsi, senza che le differenze etniche debbano neppure servirgli di pretesto"? Lo si può ammettere soltanto accodandosi alla corrente egemone di quella cultura accademica europea e statunitense che ha fatto delle teorie di Edward Said il proprio vangelo. Dobbiamo ammettere, con Said, che l’identità europea e occidentale sia stata una semplice costruzione basata sulla contrapposizione, all’"altro", all’orientale; e quindi che sia stata soltanto orientalismo? Dobbiamo quindi ammettere che, poiché l’orientalismo sarebbe stato il motore dell’imperialismo e del razzismo europeo, l’identità occidentale è nient’altro che imperialismo e razzismo, e che, dietro le parvenze di un falso umanesimo, tutte quelle costruzioni che riteniamo come grandi realizzazioni dell’identità europea, siano soltanto orrore? Colonialismo, razzismo, imperialismo: questo sarebbe l’occidente, e nient’altro? Buona parte della cultura occidentale si è accodata dietro queste teorie per coltivare quel che François Furet ha chiamato l’"odio di sé". E’ una letteratura vastissima. In fondo, "Impero" di Negri e "Guerra" di Asor Rosa non sono altro che un commento a Said. E ad essa non vale opporre una sorta di controcanto a Said, come fanno semplicisticamente Buruma e Margalit nel loro "Occidentalismo", senza mai spiegare cosa di quella tradizione possa ritenersi valido. Sono teorie che vanno respinte in primo luogo perché costrutti ideologici senza serio fondamento storico. E, in secondo luogo, perché l’identità europea ha avuto qualcosa di positivo e vitale da proporre indipendentemente dal suo definirsi contro l’"altro". Non nascondiamocelo. La ricerca delle "radici" ha sempre qualcosa di equivoco. Il rifiuto della caricatura tragico-comica della storia dell’occidente che ci forniscono i multiculturalisti non può consistere in una rivendicazione di bandiera delle glorie del passato. Non ci stancheremo di ripeterlo: sarebbe un errore tragico impigliarsi in un’impossibile tentativo di assoluzione degli autentici e indiscutibili orrori della storia europea. Ma sarebbe altrettanto folle dimenticare che, se le religioni monoteiste hanno avuto il torto enorme di essersi arrogate il diritto di imporre con la forza il loro messaggio, nondimeno è nella tradizione ebraica e cristiana che si è affermata l’idea della dignità dell’uomo, del rispetto della persona, una visione umanistica improntata all’idea di progresso. Né sarebbe saggio dimenticare che non è stato un torto, bensì un merito, dell’Illuminismo aver propugnato sul terreno "laico", più precisamente "non religioso", quelle idee e quelle visioni, di averle tradotte in principi della convivenza associata, persino sotto forma costituzionale. E’ stato suo torto piuttosto quello di pretendere di costituire una dottrina dell’uomo su basi scientifiche, cristallizzando in tipi (o razze) ben definiti i gruppi umani da "emancipare"; di aver preteso di definire le modalità scientifiche per redimere i popoli in stato provvisorio di inferiorità. Quando l’Abbé Grégoire scriveva, nel 1789, il suo saggio sulla "rigenerazione fisica, morale e politica degli ebrei" mescolava un sentimento indiscutibilmente nobile – e che, non a caso, convinse gran parte degli ebrei d’Europa ad assimilarsi alla cultura dominante – con una pericolosa caratterizzazione fisica e morale del "tipo" ebraico. Noi non risponderemo, con il multiculturalista, che l’ebreo andava lasciato nel ghetto (sia pure un ghetto dorato). Diremo al contrario che una visione umanistica è incompatibile con qualsiasi cristallizzazione delle differenze e che quindi bisogna ricominciare da dove si è sbagliato, con un’opera di resezione e ripensamento di quei principi che la civiltà europea ha offerto come base di ogni possibile convivenza civile, ancor oggi validi. Non può essere compito di un articolo neppure abbozzare questa opera di resezione. Ma appare evidente come vada gettato lo sguardo in quell’infernale intreccio di reazioni e controreazioni che si è prodotto, a partire dall’inizio dell’Ottocento, tra scientismo e romanticismo e che ha finito col porre al centro un’unica sciagurata posta in gioco: la rigenerazione totale dell’uomo, la palingenesi della società e dell’umanità, in contrapposizione a una visione realista e tollerante delle vicende umane. Un ideale palingenetico oscillante tra la pretesa di una ricostruzione scientifica dell’uomo e della società e quella del ritorno alle radici di un’umanità perduta e incorrotta, mito inesistente il secondo quanto è irrealizzabile il primo, entrambi fonte delle tragedie del Novecento. Un ritorno a una visione umanistica è quindi l’unica via di rigenerazione di un’identità europea altrimenti destinata a essere stritolata tra la guerra di civiltà che le è stata dichiarata e il suo odio di sé: una visione umanistica che ha saputo coniugare un progetto di conoscenza e di progresso con il principio della dignità dell’uomo ispirato ai principi ebraici e cristiani. L’umanesimo non è di moda. Alain Finkielkraut, nel suo ottimo "Nous autres modernes" ricorda alcuni passi del "De dignitate hominis" di Pico della Mirandola, e individua nell’idea dell’assenza di limiti per l’uomo il principio che ci ha condotto a "triturare, suturare e persino sostituire la natura" e che ci ha posto di fronte a un’alternativa tra natura e libertà che ci fa scoprire oggi la necessità dei limiti, alla constatazione che "i fondamenti biologici dell’esistenza non debbono essere totalmente a disposizione dell’uomo, se vuole preservare le sue speranze di essere libero". L’idea dell’onnipotenza è un prodotto della metafisica cartesiana posta a fondamento della scienza. Essa è conseguenza della concezione secondo cui la natura è soltanto una macchina, i cui principi di funzionamento sono assoluti e immutabili: essi sono stati stabiliti da Dio una volta per tutte, dopo di che egli si è ritirato dal mondo e l’ha abbandonato al suo funzionamento autonomo. Soltanto l’esilio di Dio dal mondo poteva concedere all’uomo l’onnipotenza assoluta, la facoltà di conoscere senza confini e di manipolare la natura senza limiti. Questa visione non appartiene all’umanesimo. Al contrario, il cartesianesimo ha voluto combattere radicalmente le concezioni umanistico-rinascimentali, imputando loro la colpa di una visione monistica del mondo. Quando Pico della Mirandola afferma che l’uomo è libero e non ha limiti, mette in luce soltanto un dato di fatto. Ed è un fatto a noi reso lampante dagli sviluppi più recenti della tecnoscienza (cui allude Finkielkraut), che mirano a toccare il fondo stesso della natura umana e non conoscono limiti alle loro ambizioni prometeiche. Osservare il dato di fatto di questa libertà non significa giustificarne tutti i possibili esercizi. Pico – esponente di una visione che mira a riconciliare il razionalismo greco con lo spiritualismo e la teologia cristiani ed ebraici – afferma che questa libertà è stata concessa all’uomo da Dio, ma che essa non implica di per sé un esito benefico: "Potrai degenerare in forme inferiori come quelle delle bestie, o, rigenerato, avvicinarti alle forme superiori, che sono divine". E così ricorda che questa è l’alternativa che l’uomo ha di fronte e su cui si misura la sua capacità di scegliere la via per migliorarsi, oppure la via per ridursi a uno stato bestiale, credendo che la libertà si realizzi abbattendo ogni limite, e in tal modo perdendola. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.