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L'Opinione Rassegna Stampa
12.12.2005 Se il Corriere della Sera difende Al Tantawi
Dimitri Buffa commenta un articolo di Sergio Romano

Testata: L'Opinione
Data: 12 dicembre 2005
Pagina: 1
Autore: Dimitri Buffa
Titolo: «L'ambasciatore Sergio Romano e l'islamically correct del Corrierone»
L'OPINIONE di sabato 10 dicembre 2005 pubblica in prima pagina e a pagina 2 un editoriale di Dimitri Buffa che riportiamo:
Brutta cosa quando si pubblicano, parafrasando Altan, idee che non si
condividono. A via Solferino si vergognano della Fallaci e si sentono molto
in imbarazzo ogni qual volta l'ottimo Magdi Allam mette in mutande in tv gli
interlocutori sinistrorsi e allo stesso tempo islamofili a basso prezzo che
credono di capire tutto di quel mondo e invece non fanno altro che
propagandare le idee inaccettabili di chi mira a fare in Europa e nei paesi
arabi una nuova teocrazia mussulmana.
Giorni fa chi scrive ha dovuto sentire con le proprie orecchie un intera
trasmissione di "Radio tre mondo" dedicata dal grande amico (e
intervistatore principe) di Massimo D¹Alema, Paolo Franchi, conduttore da
anni di quello spazio su RadioTre, alla rivalutazione dei "fratelli
musulmani". I quali adesso vengono accreditati di nuova linfa democratica e
di rinnovata tolleranza solo perché hanno partecipato alle elezioni in
Egitto senza scatenare una guerra civile. Pazienza se in passato hanno fatto
secco Anwar el Sadat per avere siglato la pace con Israele o se hanno anche
tentato di uccidere Mubarak, che peraltro si salvò per miracolo nell'81 da
quello stesso attentato che invece provocò la morte dell'ex capo di stato
egiziano.
Altro grande rivalutatore dei Fratelli musulmani in quella storica
trasmissione di pochi giorni fa fu l'ex ambasciatore Sergio Romano che non
perde occasione di mostrare le proprie aperture incondizionate al fronte dei
paesi islamici, Iran compreso, e la propria ostilità anti occidentale, in
special modo contro Usa e Israele.
Romano anche ieri ha stupito con effetti speciali facendo un articolo
assolutamente inutile sullo sceicco Al Tantawi dell'università di al Azhar
al Cairo che, malgrado il titolo negativo di pagina uno, sostanzialmente
sembrava una "marchetta" di riparazione a un articolo di Magdi Allam uscito
a settembre in cui si rammentavano i ben poco onorevoli precedenti di Al
Tantawi in materia di giustificazionismo dei martiri suicidi anti
israeliani. All'epoca Allam deprecò l'invito in Italia di questo al Tantawi
da parte dell'istituto di studi filosofici orientalistici di Napoli, dicendo
che era un errore invitare a un convegno sul dialogo interreligioso uno
sceicco che predicava l'odio. Apriti cielo, a difendere il predicatore
scesero in campo tutti gli orientalisti napoletani e anche l'ambasciatore
italiano in Egitto. Ergo, se due più due fa quattro, ieri il "Corrierone" ci
ha messo la pezza "islamically correct" subappaltandola a Sergio Romano.
Pazienza quindi per la Fallaci e per Allam, che non sono profeti nella
propria patria di via Solferino. Dove gli ex ragazzi di Lc e della Figc che
occuparono militarmente il desk all'epoca di Piero Ottone adesso strizzano
l'occhio al terzo mondismo arabo-islamico.
Di seguito pubblichaimo l'articolo di Sergio Romano, pubblicato dal CORRIERE DELLA SERA del 9-12-05 in prima pagina e a pagina 19, con il titolo "E l'Imam di Al Azhar dice all'Italia «Punite voi i musulmani disonesti»

Se l'Islam avesse una costituzione ecclesiale e una gerarchia istituzionale, questo sarebbe il suo principale palazzo apostolico. Qui lavora infatti, circondato da uno stuolo di teologi e collaboratori, Mohamed Sayed Tantawi, Grande Imam della Moschea di Al Azhar, o «sceicco di Al Azhar», come viene familiarmente chiamato. Il palazzo è costruito con grande abbondanza di marmi in uno stile che riprende alcuni motivi dell'architettura islamica, e la sua facciata ha la forma dei leggii che ho visto in questi giorni in tutte le moschee del Cairo: un mobiletto che si apre come una «V», o come le mani spalancate del credente, per accogliere il libro in cui è racchiusa tutta la sapienza dell'Islam.
Il Grande Imam lavora nel cuore della «V», al centro della facciata, ed è l'uomo che può influire, con le sue interpretazioni del Corano e le sue fatwa, sulla vita e sui comportamenti quotidiani di alcune centinaia di milioni di sunniti sparsi per il mondo. Quando l'Imam di Al Azhar parla, il mondo islamico ascolta attentamente.
Ma su un muro, alla sommità della scala che porta al piano nobile del palazzo, leggo una frase del presidente della Repubblica egiziana Hosni Mubarak che mi viene tradotta così: «Continueremo a sostenere le parole di Al Azhar finché avremo vita». Per una grande confessione questa dichiarazione sarebbe rassicurante se il Grande Imam, come le altri maggiori personalità religiose dell'Egitto, non fosse nominato dal capo dello Stato. Sino a che punto può considerarsi indipendente un'autorità religiosa che deve la sua nomina al capo del potere civile? Quando la Francia approvò la legge che proibisce alle ragazze musulmane di portare il velo nelle aule scolastiche della Repubblica, l'Imam Tantawi dovette pronunciarsi e lo fece con una sentenza salomonica. Disse che le ragazze vivono in Francia e sono tenute a rispettare le leggi dello Stato francese; ma possono, se vogliono conservare il velo, proseguire altrove o in altre scuole la loro istruzione. La decisione ebbe l'effetto di tranquillizzare le coscienze di molte famiglie. La maggior parte delle ragazze si tolse il velo, una minoranza decise di andarsene per la sua strada. Sarebbe stata questa la sentenza se il Grande Imam non fosse nominato dal presidente della Repubblica e se Mubarak non avesse un evidente interesse a mantenere con la Francia rapporti cordiali? Tantawi è nato nel 1928, si è addottorato in esegesi coranica all'Istituto religioso di Alessandria e ha insegnato nello stesso istituto fino al 1985.
Quando vengo introdotto nel suo studio, non è seduto allo scrittoio sotto una fotografia del presidente Mubarak, ma in un angolo della stanza accanto a una finestra coperta da una grata di legno che lo protegge dalla luce e dal sole di una giornata particolarmente calda. Su un tavolino accanto a lui vi è il modello in avorio della grande moschea di Gerusalemme, dono di un amico palestinese. Ha una veste scura, molto semplice, e il capo coperto dalla piccola berretta bianca di cotone ricamato che è portata, senza distinzione di rango, da tutti gli imam. Mi accoglie con i modi paterni dei grandi leader religiosi ripetendo più volte, come in una litania, una parola che equivale al nostro «piacere d'incontrarla».
Parliamo delle comunità musulmane in Europa: un popolo composto da un numero imprecisato di persone (quindici milioni secondo alcuni, venti secondo altri) che pongono agli Stati europei problemi nuovi. Quei musulmani sono per molti aspetti, dal punto di vista religioso, i suoi sudditi. Che cosa ordina e raccomanda il Grande Imam all'Islam europeo? La risposta è una lunga divagazione attraverso i principi che ispirano la religione musulmana.
Siamo tutti fratelli, figli di uno stesso padre e di una stessa madre. Crediamo che le differenze di religione non debbano impedire la collaborazione tra popoli di religione diversa. Non crediamo allo scontro di civiltà. Poi, entrando nel vivo del problema, ricorda che gli egiziani in Europa sono partiti per cercare lavoro, non diversamente dagli europei che vennero in Egitto, soprattutto dopo l'apertura del canale di Suez. Come tutti gli emigranti, hanno il diritto di essere trattati «adeguatamente», ma debbono obbedire alle leggi dello Stato che li ha accolti. Se non obbediscono alle leggi, il Paese che li ospita ha il diritto di giudicarli e punirli. Se sorgono questioni controverse hanno il diritto di tornare in patria.
Spiego al Grande Imam che si è molto discusso in Italia, negli ultimi tempi, della costituzione di una Consulta islamica (ora prossima a iniziare i suoi lavori) e della formazione degli imam che debbono svolgere le loro funzioni nelle nostre città. Sarebbe utile, per esempio, istituire in qualche nostra università, d'intesa con le autorità islamiche, un corso di formazione per imam italiani? Mi risponde che l'Italia ha accettato i musulmani sul suo territorio e deve fare quindi ciò che ritiene opportuno. «Se un imam si comporta male potete rimandarlo al suo Paese d'origine e trattenere quelli che giovano all'Italia». Il Grande Imam è un uomo prudente, attento alle sue parole. È evidentemente stretto fra due esigenze, non sempre facilmente compatibili: la rigorosa preservazione dell'identità religiosa dei musulmani e gli interessi politici dello Stato egiziano nel mondo. Capisco ora perché il suo segretario, prima dell'inizio della conversazione, mi abbia detto che l'Imam non intendeva parlare dei rapporti fra religione e politica.
Anche il rettore dell'Università di Al Azhar è nominato dal vertice del Paese e anche lui ha nel suo studio una grande fotografia del presidente Mubarak. Ma qui, fra le mura della maggiore università musulmana nel mondo (400.000 studenti nei suoi numerosi campus), il linguaggio è meno sfumato, più diretto e talvolta addirittura polemico. Ahmed Mohamed Al Tayeb è dottore di dottrina islamica, è stato preside di facoltà ad Assuan e in Pakistan, ha ricoperto più recentemente la carica di Muftì dell'Egitto (l'autorità che emette pareri non vincolanti sulla conformità della legislazione civile ai precetti religiosi) ed è rettore di Al Azhar da due anni. Parlo anche con lui dei musulmani in Europa e gli chiedo se sia favorevole alla naturalizzazione degli egiziani che vivono nell'Unione Europea.
Risponde che la cittadinanza straniera, per chi ha deciso di espatriare, è «quasi un diritto». Ma non esiste soltanto il problema della cittadinanza. Vi è anche quello del modo in cui i musulmani sono trattati; e aggiunge, per spiegarsi con un esempio, che la Francia applica ai francesi e ai musulmani trattamenti diversi. Suppongo che si riferisca alle legge sulla proibizione del velo islamico e osservo che quella norma vuole abbattere il muro invisibile tra le comunità islamiche e la società francese. Una ragazza senza velo è più «eguale», più libera di integrarsi e di scegliere le sue amicizie, forse addirittura di sposare un ragazzo cristiano. Risponde che la donna musulmana deve sposare un musulmano o uscire dall'Islam e che la Francia, chiedendole di togliersi il velo, ha confiscato la sua libertà religiosa. Aggiunge che queste norme vanno giudicate alla luce di altri atteggiamenti ostili adottati contro i musulmani in Paesi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti.
Ritorno al tema dell'integrazione ricordando al rettore di Al Azhar che gli immigrati musulmani vivono in società molto secolarizzate e che dovranno, se vogliono farne parte, accettare qualche adattamento. Replica immediatamente dicendosi convinto che i problemi dell'Europa d'oggi nascono dalla declinante importanza del fattore religioso nella vita dei suoi cittadini. E non appena gli ricordo che la Lombardia, una delle più prospere regioni europee, è anche una di quelle in cui la presenza domenicale nelle chiese è più modesta, mi chiede: «In che cosa è prospera? Che cosa può dare al mondo una tale civiltà?». Gli rispondo che molti cardinali di Santa Romana Chiesa dicono più o meno le stesse cose. E dico a me stesso, congedandomi, che fra due posizioni eguali e opposte il dialogo è difficile, se non impossibile.
Un po' di relativismo, forse, non guasterebbe.
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