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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
27.11.2005 Dalle parole ai fatti
Dopo la dichiarazione, Fassino adesso cambi la politica estera del suo partito

Testata:Corriere della Sera
Autore: Angelo Panebianco
Titolo: «DUE POPOLI DUE DEMOCRAZIE»
I lettori di IC conoscono già le dichiarazioni di Piero Fassino al convegno "La sinistra e Israele" tenutosi il 24 novembre 2005 a Roma. Parole che condividiamo, ma che per apprezzare pienamente vorremmo fossero seguite dai fatti. Primo fra tutti un profondo cambiamento della politica estera del suo partito. Se non seguiranno i fatti allora saremo autorizzati a classificare le sue parole come pura propaganda pre-elettorale. Ci auguriamo che non sia così. L'unico modo per dimostrarlo sono dunque i fatti. Li aspettiamo.

Ecco l'articolo di Angelo Panebianco:

DUE POPOLI DUE DEMOCRAZIE


C'è davvero tanta differenza fra l'auspicare, come la sinistra italiana ha sempre ritualmente auspicato, «due popoli e due Stati in Palestina» e pronunciarsi invece, come ha fatto Piero Fassino giovedì scorso nel convegno su Israele, a favore di «due democrazie»? Sì, c'è una grandissima differenza. Si può dire che Fassino, sposando quella formula, ha completato un percorso personale iniziato anni fa e che lo ha infine portato a chiedere alla sinistra italiana una radicale riconversione nel modo di atteggiarsi di fronte al conflitto israeliano- palestinese.
Dire che la Palestina dovrà ospitare, fianco a fianco, due democrazie significa congedare due verità di fede che la sinistra italiana ha abbracciato per lunghissimo tempo. Il primo tabù infranto riguarda Israele. Se si valorizza la democrazia, il giudizio su Israele, unica vera democrazia del Medio Oriente, diventa molto più benevolo e simpatetico di quanto non sia stato a lungo: non il brutale stato militarista oppressore dei palestinesi come per anni lo si è dipinto, ma una democrazia i cui standard di civiltà sono simili ai nostri, una democrazia spaventata, che lotta per la sua sicurezza (facendo anche, come è inevitabile, molti errori), circondata da milioni di uomini a cui è stato insegnato che distruggere l'«entità sionista» è fare la volontà di Dio. Il secondo tabù riguarda i palestinesi. Perché se ciò che si vuole non è uno «Stato palestinese» qualsiasi ma una democrazia, allora ne consegue che non tutto può essere scusato, che occorre essere esigenti con i palestinesi, appoggiare solo quei leader e quelle azioni che vanno nella direzione della costruzione della democrazia.
È insomma una scelta impegnativa, quella che Fassino, con la formula delle due democrazie, ha indicato alla sinistra italiana. Una scelta, va detto per amor di verità, che è anche un successo dei radicali di Pannella, per tanti anni praticamente gli unici in Italia a difendere l'idea che la democrazia sia l'unica possibile «cura» del conflitto palestinese-israeliano (e per l'intero mondo arabo).
Che la democrazia sia una cura, sia pure molto difficile da somministrare, è certo. Non solo aiuta a vivere meglio coloro che la abitano ma rende anche meno preoccupante per gli altri il suo incedere nel mondo. Uno Stato palestinese dittatoriale sarebbe una permanente minaccia per Israele, una stabile democrazia palestinese probabilmente no. Per la stessa ragione per cui temiamo gli effetti internazionali dell'involuzione autoritaria in Russia o per cui, delle due grandi potenze asiatiche in ascesa, ci preoccupa, in prospettiva (come ha scritto Marta Dassù sul
Corriere della Sera del 24 novembre), più la Cina totalitaria che l'India democratica. Così come ci spaventa l'idea di una bomba nucleare nelle mani della teocrazia iraniana.
Il discorso sulle «due democrazie» è fatto per non piacere ai massimalisti e agli estremisti. Essi perderebbero immediatamente interesse per i palestinesi se questi un giorno riuscissero a dare vita a una bene ordinata democrazia. Come mai? Perché la democrazia (che pure, se minacciata, può reagire come una tigre: vedi gli Stati Uniti dopo l'11 settembre) è un regime, a confronto degli altri, moderato, che fa della moderazione, per lo più, la sua politica. Per questo, massimalisti ed estremisti la disprezzano.




DUE POPOLI DUE DEMOCRAZIE


C'è davvero tanta differenza fra l'auspicare, come la sinistra italiana ha sempre ritualmente auspicato, «due popoli e due Stati in Palestina» e pronunciarsi invece, come ha fatto Piero Fassino giovedì scorso nel convegno su Israele, a favore di «due democrazie»? Sì, c'è una grandissima differenza. Si può dire che Fassino, sposando quella formula, ha completato un percorso personale iniziato anni fa e che lo ha infine portato a chiedere alla sinistra italiana una radicale riconversione nel modo di atteggiarsi di fronte al conflitto israeliano- palestinese.
Dire che la Palestina dovrà ospitare, fianco a fianco, due democrazie significa congedare due verità di fede che la sinistra italiana ha abbracciato per lunghissimo tempo. Il primo tabù infranto riguarda Israele. Se si valorizza la democrazia, il giudizio su Israele, unica vera democrazia del Medio Oriente, diventa molto più benevolo e simpatetico di quanto non sia stato a lungo: non il brutale stato militarista oppressore dei palestinesi come per anni lo si è dipinto, ma una democrazia i cui standard di civiltà sono simili ai nostri, una democrazia spaventata, che lotta per la sua sicurezza (facendo anche, come è inevitabile, molti errori), circondata da milioni di uomini a cui è stato insegnato che distruggere l'«entità sionista» è fare la volontà di Dio. Il secondo tabù riguarda i palestinesi. Perché se ciò che si vuole non è uno «Stato palestinese» qualsiasi ma una democrazia, allora ne consegue che non tutto può essere scusato, che occorre essere esigenti con i palestinesi, appoggiare solo quei leader e quelle azioni che vanno nella direzione della costruzione della democrazia.
È insomma una scelta impegnativa, quella che Fassino, con la formula delle due democrazie, ha indicato alla sinistra italiana. Una scelta, va detto per amor di verità, che è anche un successo dei radicali di Pannella, per tanti anni praticamente gli unici in Italia a difendere l'idea che la democrazia sia l'unica possibile «cura» del conflitto palestinese-israeliano (e per l'intero mondo arabo).
Che la democrazia sia una cura, sia pure molto difficile da somministrare, è certo. Non solo aiuta a vivere meglio coloro che la abitano ma rende anche meno preoccupante per gli altri il suo incedere nel mondo. Uno Stato palestinese dittatoriale sarebbe una permanente minaccia per Israele, una stabile democrazia palestinese probabilmente no. Per la stessa ragione per cui temiamo gli effetti internazionali dell'involuzione autoritaria in Russia o per cui, delle due grandi potenze asiatiche in ascesa, ci preoccupa, in prospettiva (come ha scritto Marta Dassù sul
Corriere della Sera del 24 novembre), più la Cina totalitaria che l'India democratica. Così come ci spaventa l'idea di una bomba nucleare nelle mani della teocrazia iraniana.
Il discorso sulle «due democrazie» è fatto per non piacere ai massimalisti e agli estremisti. Essi perderebbero immediatamente interesse per i palestinesi se questi un giorno riuscissero a dare vita a una bene ordinata democrazia. Come mai? Perché la democrazia (che pure, se minacciata, può reagire come una tigre: vedi gli Stati Uniti dopo l'11 settembre) è un regime, a confronto degli altri, moderato, che fa della moderazione, per lo più, la sua politica. Per questo, massimalisti ed estremisti la disprezzano.

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