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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio Rassegna Stampa
17.11.2005 L'Iraq verso le prime elezioni parlamentari
l'analisi di Christian Rocca

Testata:Il Foglio
Autore: Christian Rocca
Titolo: «Votare in Iraq»
IL FOGLIO di giovedì 17 novembre 2005 pubblica a pagina 1 dell'inserto l'articolo di Christian Rocca "Votare in Iraq".

Ecco il testo:

Il 15 dicembre l’Iraq voterà per la terza volta in un anno, a completare una delle più veloci transizioni dalla dittatura alla democrazia della storia recente. Ci sono molte novità politiche in corso, la principale delle quali riguarda il Grande ayatollah al Sistani. La figura religiosa di riferimento dell’Islam sciita ha deciso, d’accordo con gli altri tre Grandi ayatollah della marija, di non dare alcuna indicazione di voto, se non quella di recarsi alle urne, al contrario di quanto fece in occasione delle elezioni del 30 gennaio quando appoggiò l’Alleanza sciita. Quelle erano elezioni costituenti, volte a
scrivere la carta fondamentale dell’Iraq, quindi fondamentali per assicurare che il nuovo Stato non fosse anti-islamico. Queste sono elezioni politiche, destinate a esprimere un governo. A differenza dei colleghi iraniani, al Sistani non crede sia compito dei religiosi partecipare direttamente al processo
politico e all’amministrazione del paese. Il regime di Saddam è caduto nella primavera del 2003, per effetto dell’invasione angloamericana. Subito dopo, con il beneplacito dell’Onu, è stato scelto un governo transitorio non ancora democratico, ma rappresentativo dell’articolazione etnica e sociale dell’Iraq. Il 30 giugno 2004, gli iracheni sono tornati politicamente e amministrativamente sovrani, ma difesi dalle forze della coalizione. Con il passaggio dei poteri è cominciato il cammino politico verso la normalità
democratica, attraverso un calendario concordato con le Nazioni Unite. Il 30 gennaio si sono tenute le prime elezioni libere, boicottate da tre province sunnite (su 18) dell’Iraq. L’Assemblea Nazionale ha scritto la nuova Costituzione, cooptando una parte dei sunniti. Il voto referendario di conferma del testo costituzionale dell’ottobre scorso è stato un ulteriore passo avanti, non solo perché adesso l’Iraq ha una Carta fondamentale democratica, ma anche perché è stata legittimata sia dal voto favorevole di una parte della comunità sunnita sia da quello contrario di chi alle precedenti elezioni aveva disertato le urne. Ora con una nuova Costituzione, e con il loro ex torturatore alla sbarra, gli iracheni sono chiamati a votare per eleggere il primo Parlamento libero e democratico di tutto il medio oriente (Israele escluso). Saranno eletti 275 parlamentari con un complicato sistema elettorale, ma che dovrebbe garantire quei sunniti che a gennaio rimasero a casa. E’ stato abbandonato il collegio unico nazionale, così ora 230 seggi vengono assegnati su base provinciale. I rimanenti 45 sono di "compensazione" per quelle liste che non riescono a raggiungere il quorum locale, ma che a livello nazionale ottengono un numero sufficiente di voti. L’analista Nimrod Raphaeli, sull’imprescindibile sito del Memri, ha raccontato tutto ciò e ha scritto che nel paese c’è un certo disincanto a causa del fallimento del governo Jaafari nel mantenere le promesse sulla sicurezza e sulla situazione economica. Eppure i gruppi o partiti politici sono oltre duecento, raggruppati in ventuno ampie coalizioni. Sono soltanto cinque quelle che si contenderanno la maggioranza dei seggi e, di conseguenza, il governo dell’Iraq.

La decisione di al Sistani di non influire sul voto, oltre a garantire un futuro non teocratico, ha scatenato un terremoto e provocato una scissione nel fronte vincitore delle scorse elezioni. L’Alleanza Nazionale Irachena è meno ampia rispetto al 30 gennaio. E’ più islamista, ma non avrà la benedizione di al Sistani. E’ più vicina a Teheran, ma secondo il Memri proprio per questo comincia a essere malvista dagli iracheni indispettiti dagli agenti iraniani che popolano la zona di Bassora e dalla crescente islamizzazione della società. Sono 17 i partiti che vi fanno parte: i principali sono lo Sciri di Abdul-
Aziz al Hakim e il Dawa dell’attuale primo ministro Ibrahim al Jaafari. Con loro c’è anche il movimento che fa capo al radicale sciita Muqtada al-Sadr.
L’attuale vicepremier Ahmed Chalabi è uscito dall’Alleanza di cui è stato il coordinatore, e sembra più libero di agire con un nuovo raggruppamento di sciiti e turcomanni laici e monarchici. Il suo National Congress Party gode di ottimi rapporti sia con Teheran sia con Washington. L’ex premier
sciita Ayad Allawi, invece, sta percorrendo la via opposta: la sua alleanza laica e liberale ha messo insieme le grandi personalità sunnite del paese, da Adnan Pachachi al vicepresidente al Jawer, e sta tentando una delicata operazione politica di recupero di 11 gruppi di insorti, provando a farli uscire
dalla lotta armata. La quarta coalizione è sunnita ed è composta dal Partito islamico e da altri due gruppi sunniti. La quinta è il solidissimo fronte curdo del presidente Jalal Talabani e di Massoud Barzani.
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