Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
La sinistra che va in piazza per Israele autoritratto in tre articoli
Testata: Autore: Peppino Calderola - Franco Debenedetti - un giornalista Titolo: «Sinistra, bentornata in Israele - L'ostilità anti-israeliana ? Per la nostra storia è contronatura - Il cordone ombelicale si è rotto con Arafat»
IL RIFORMISTA di mercoledì 2 novembre 2005 pubblica apagina 6 l'articolo di Peppino Calderola "Sinistra, bentornata in Israele "
Ecco il testo: Leggendo l’elenco degli aderenti alla fiaccolata di domani per Israele, la novità balza agli occhi. Il centro-sinistra e la sinistra ci sono quasi al gran completo. Manca Diliberto, ma il caro ragazzo ha cose da fare con gli Hezbollah. Manca Bertinotti, che è stato sul punto di esserci, poi, forse incalzato dagli umori del suo partito profondo, si è sfilato correggendo il generoso Franco Giordano. Poi ci sono gli aderenti non presenti, Parisi in testa, che difenderebbero Israele solo se Ferrara si togliesse di torno. Poi c’è Massimo D’Alema che tutti davano come assente e che invece ha spiegato che era del tutto ovvio considerarlo un amico di Israele. Meglio di così non potevano sperare quelli che in questi anni, gli anni del "demonio" Sharon, gli anni dell’innamoramento della destra italiana per Israele, gli anni delle manifestazioni contro Bush e il sionismo si sono dannati l’anima per spiegare che la sinistra non è e non può essere nemica di Israele. Oggi siamo tutti assieme. Evviva. Proviamo, visto che siamo diventati tanti, a impostare un ragionamento nella sinistra che porti il tema della manifestazione più in profondità. La quasi unanimità della sinistra attorno a Israele dopo le dichiarazioni del leader iraniano porta alla luce molte questioni. La prima è che la protesta di domani non può essere interpretata solo contro una frase o più frasi eccessive ma estranee alla cultura musulmana. Il presidente iraniano dice cose che la propaganda arabo-musulmana sostiene da decenni e su cui ha formato una opinione pubblica immensa e le generazioni a venire. Lo scandalo è rappresentato dal presidente iraniano, ma prima di lui, accanto a lui e dopo di lui, nel Medio Oriente e nell’intero mondo arabo-musulmano, domina l’antisemitismo. L’odio anti- ebraico resta la malattia principale che corrode questa parte di mondo e la tiene assieme.L’antisemitismo non è la conseguenza di qualcos’altro ma la causa di qualcos’altro. La presa di distanza e l’indignazione sollevate dalle frasi del leader di Teheran devono spingerci a riflettere sull’atteggiamento remissivo che il mondo occidentale, e anche la sinistra, hanno avuto di fronte alla contrapposizione fra la generalità del mondo arabo-musulmano e lo stato ebraico. La remissività consiste nel fatto che pochi governanti occidentali hanno messo al centro delle relazioni con i leader arabi, anche con quelli considerati moderati, la necessità, oggi e non domani, di una modifica dell’atteggiamento verso Israele. Mezzo secolo e più dopo la decisione con cui l’Onu, nel novembre del ’47, sancì la nascita di Israele è troppo chiedere che si dica a leader arabi che le parole contro Israele pronunciate nei discorsi, scritte nei libri di scuola, trasmesse dalle tv sono considerate intollerabili dall’Occidente e dalla sinistra occidentale? Il secondo elemento di cui conviene prendere atto è la fine della illusione attorno al nazionalismo arabo. Siamo dentro un’altra storia.L’idea che il nazionalismo arabo fosse una manifestazione primordiale di anti-imperialismo e per questa ragione andava sostenuto malgrado i debiti culturali che i nazionalisti arabi avevano contratto con tutto il peggio delle culture reazionarie occidentali, questa idea si è rivelata fallace. Il nazionalismo arabo nasceva dentro la guerra fredda ed è stato incardinato nelle prospettive, per essere generosi, delle classi dirigenti più modernizzatrici del mondo arabo che tuttavia mai si sono posti il problema della democratizzazione delle loro società. Al punto che il fondamentalismo islamico nasce come risposta religiosa alla miseria, una sorta di welfare islamico di fronte ai nuovi tiranni. La sinistra occidentale, sia quella di provenienza comunista sia quella di orientamento socialdemocratico, ha guardato dentro la gabbia di un mondo che c’era, lo scontro Usa-Urss, immaginandosi un mondo che non c’era, il nazionalismo arabo come via di emancipazione dei popoli dell’area arabo-musulmana. Forse bisogna partire da qui per ricostruire un rapporto con il mondo arabo-musulmano che sia impostato sul dialogo, ma su un dialogo esigente, in primo luogo chiedendo insistentemente, petulantemente che l’orrore di un così diffuso antisemitismo sia cancellato. Infine la sinistra deve riflettere sull’occasione persa in questi anni con Israele. Persa ma recuperabilissima. Soprattutto dopo la novità felice della adesione quasi unanime di domani. La scelta non è fra Israele e i palestinesi. Due stati si è detto e due stati dovranno essere. Alcuni di noi hanno chiesto, e sia pure tardivamente ottenuto, che il giudizio sulle leadership israeliane, anche quelle più difficilmente digeribili, fossero improntate a uno spirito realistico per cui un soldato di Israele, si chiami Rabin o si chiami Sharon (so che non sono la stessa cosa) ha in testa la necessità di arrivare alla pace con il nemico.L’occasione persa a cui mi riferisco implica una rivoluzione culturale nella sinistra. Se partiamo, come si è sempre fatto dal ’47 ad oggi, dai palestinesi si incontrano macigni inamovibili. La cultura politica deve confrontarsi con il tema delle possibilità che esista e si manifesti un Islam democratico, il sistema di relazioni statale deve confrontarsi con regimi il migliore dei quali sarebbe considerato inaccettabile dal cittadino Diliberto se fosse costretto a vivere laggiù, il sistema di relazioni internazionali, anche dopo la guerra fredda deve confrontarsi con il potenziale multilateralismo su cui scommettere e in particolare sul sogno di un multilateralismo che faccia centro su un Medio-Oriente dinamico impostato attorno a uno Stato di Israele sicuro di se in grado di dialogare e aiutare stati arabo-musulmani liberati da profeti folli e dittatori. L’occasione da recuperare, è tema che merita molte pagine, è il rapporto fra sionismo, inteso come uno dei più originali movimenti nazionali capaci di creare una rivoluzione sociopolitica, e la cultura di una sinistra non anti-capitalistica ma orientata a correggere il sistema dato, a correggerlo costantemente nella migliore cultura riformista. Il confronto con il sionismo, non solo con la sua anima di sinistra, è stata una sfida che la sinistra comunista cercò di impostare, come ha ricordato ieri su queste pagine David Bidussa, ma che la sinistra riformista può risolvere. Attorno alla difesa di Israele, e all’idea di un nuovo Medio-Oriente che dia una patria ai palestinesi, c’è un’idea di futuro che è anche una sfida culturale. Sempre a pagina 6 si trova l'articolo di Franco Debendedetti "L'ostilità anti-israeliana ? Per la nostra storia è contronatura".
Ecco il testo: Ci sarà anche Piero Fassino alla fiaccolata contro le minacce iraniane a Israele, promossa dal Foglio di Giuliano Ferrara. Per Pigi Battista (Corriere della Sera del 31 ottobre ) è «un atto coraggioso»: perché così dimostra di non dare peso alle scontate obiezioni delle vestali per cui è anatema partecipare a iniziative che partono dalla destra, a prescindere. Ed è un atto coerente perché si pone in continuità con altri suoi "strappi" rispetto a posizioni radicate nel passato della sinistra, e culminate nelle dichiarazioni sull’Iraq contenute nella famosa intervista a La Stampa e ripetute al congresso dei Ds di un anno fa. Ma c’è una questione, che attiene più alla logica politica che al coraggio e alla coerenza, da porre non a Fassino, ma a parte della sinistra italiana, e che non riguarda solo il passato: perché l’ostilità verso lo stato di Israele? Infatti questa ostilità appare, per molti versi, quasi contro natura. Prima di tutto da parte di quelli che rivendicano il ruolo preminente avuto dal Pci nella lotta partigiana: fu la lotta contro il comune nemico a cementare una contiguità con i partiti della sinistra, che per molti fu adesione esplicita. L’Israele delle origini, e ancora quello dell’immediato dopoguerra, doveva apparire come il luogo in cui si realizzava l’utopia comunitaria, la costruzione di un mondo nuovo in cui terreni venivano sottratti al deserto e resi fertili, in cui le menti venivano sottratte all’ignoranza e fertilizzate dai migliori centri di ricerca al mondo.Erano molti gli elementi ideali e culturali comuni a Israele e alla sinistra, e non solo a quella non comunista. Ma, soprattutto, Israele è una democrazia. Non è bastato mezzo secolo per riconoscere che, nel conflitto tra lo stato di Israele e i paesi arabi - per decenni, tutti i paesi arabi circostanti - da una parte c’era un paese democratico, dall’altra monarchie assolute e dittature teocratiche e/o corrotte.Gli errori, anche le colpe, di Israele - Sabra e Chatila, tanto per dare un riferimento - che pesano nella memoria degli amici di Israele, non sono la causa dell’ostilità della sinistra: perché, se di etica si deve parlare, che cosa è il sostenere la dittatura corrotta e ambigua di Arafat fino al suo ultimo disfacimento morale e politico? Non nasce da ragioni di giustizia, l’ostilità di tanta sinistra, ma da ragioni politiche: è figlia della guerra fredda, della divisione del mondo tra democrazie popolari e democrazie tout court. E analogamente è figlio della guerra fredda anche il filoarabismo della sinistra democristiana, aldilà degli interessi petroliferi. Il pregiudizio non solo antisraeliano ma antiebraico è duro a morire e diffuso, come testimonia la recente dichiarazione di Guido Crosetto sui banchieri ebrei, richiamata ancora ieri sul Financial Times. Il pregiudizio antiisraeliano di una parte della sinistra appare non come dissenso dalle politiche di molti governi di Israele,ma si rivela piuttosto come un modo per camuffare sentimenti anticapitalisti. Il ripudio di Ariel Sharon (lo Sharon di prima dell’evacuazione di Gaza) sta al pregiudizio antiisraeliano come il ripudio di George W.Bush sta al pregiudizio antiamericano: preferenze politiche in cui sfogare preferenze ideologiche. È nell’interesse dell’Unione tracciare un netto solco tra la critica a eventuali comportamenti politici di Israele nel futuro del negoziato con i palestinesi e il pregiudizio antisraeliano. Espressioni come quelle del leader iraniano mirano esplicitamente a spodestare la leadership moderata dell’Anp in favore di Hamas e della Jihad islamica. Una delle poche cose buone fatte dal governo in questi anni è tentare di avere un proprio ruolo al tavolo negoziato dal quale siamo fuori - la cosidetta road map - e questo si dovrà continuare in futuro, perché le elezioni del 25 gennaio sono un passaggio terribile per Abu Mazen, che infatti ha criticato duramente nell’incontro con Fini le parole iraniane. Il no al pregiudizio antisraeliano, oggi, è una scelta a favore dei moderati palestinesi. Un filo rosso collega le proteste internazionali contro l’escalation dell’Iran teocratico, la rinnovata intesa franco- americana contro la Siria per l’assassinio di Hariri, la vittoria di Sharon alla Knesset per evacuare Gaza, le pressioni occidentali che hanno reso meno farsesche le elezioni in Egitto.E porta a riconoscere, comunque si voglia mantenere il giudizio sulla decisione di intervenire in Iraq, che si sono messi in moto movimenti politici, e che sarebbe imperdonabile non adeguare ad essi, anche solo pragmaticamente, le proprie politiche. «Sarà esportata, ma è democrazia», come dice l’ormai famoso titolo di Repubblica. Proprio la considerazione di quanto è costato farlo dovrebbe indurre a difendere, con convinzione e tutti insieme, la democrazia là dove c’è. Infine, l'articolo "Il cordone ombelicale si è rotto con Arafat ", che ravvisa nella morte raìs l'evento che ha rotto la dipendenza ideologica della sinistra italiana dalle posizioni più oltranziste del nazionalismo palestinese.
Ecco il testo: L’adesione dei Ds alla manifestazione di domani davanti all’ambasciata iraniana ha suscitato scalpore. In primo luogo perché è la prima volta in cui la sinistra italiana partecipa a una manifestazione esclusivamente in difesa di Israele, senza bisogno di aggiungere sullo striscione «ma anche per i diritti del popolo palestinese». In secondo luogo, perché la manifestazione è promossa dal Foglio. In terzo luogo, per la qualità e la quantità dei dirigenti presenti: da Piero Fassino a Massimo D’Alema. Il presidente ds però, nell’intervista a Repubblica in cui ieri ha annunciato la sua presenza, ha rifiutato seccamente l’interpretazione della «svolta» dalemiana. Ricordando di essere «così "anti-israeliano"» da essere stato anche, dieci anni fa, «l’unico leader italiano in quel periodo» ad andare in visita dall’allora premier Nethanyau «per ragionare sulle prospettive della crisi mediorientale». Ma sotto la Quercia le spiegazioni dell’adesione dei massimi dirigenti sono le più diverse. «Si sana una ferita - dicono alcuni - una frattura lunga dieci anni, dalla morte di Rabin a oggi, compresa la fase in cui Barak si è spinto più avanti». Una frattura che si è poi aggravata con l’elezione di Sharon. Quando «a tenere aperta linea del dialogo c’era rimasto solo Fassino». Accreditando così la dicotomia che vuole nei Ds un segretario filo-israeliano e un presidente filo-palestinese. «E quale sarebbe la differenza, non sono entrambi e anni sulla stessa linea che dice "due popoli, due stati"? » replicano altri. La novità che nessuno però si sogna di negare è il diverso e assai più positivo giudizio su Sharon, ormai quasi unanime, che sembra spingere Fassino a riprendere la guida di quel piccolissimo movimento che nella sinistra si è sempre battuto per spostare la linea su posizioni più vicine (o meno lontane,secondo i punti di vista) a Israele. Il segretario lo ha fatto con diverse interviste e articoli sui giornali già all’indomani del ritiro da Gaza.E ora - di fronte alle affermazioni di Ahmadinejad - sembra deciso a raccoglierne il frutto. Non solo con la tempestiva adesione alla manifestazione del Foglio. Anche, per esempio, con la decisione di dare una struttura più solida e riconosciuta a quella «Sinistra per Israele» che finora - all’interno dei Ds - si è organizzata prevalentemente a Milano, con una piccola appendice romana. Guidata da Giuseppe Franchetti, presidente della Federazione sionistica italiana e dell’associazione Keshet, «Sinistra per Israele» sembra destinata a uscire presto dall’ombra. Fassino ha intenzione infatti di affidarne il rilancio a Furio Colombo (che ha anche l’indiscutibile vantaggio "tattico" di essere inattaccabile da sinistra, dopo la sua bellicosa stagione antiberlusconiana all’Unità). Dell’associazione fanno parte anche Giuseppe Caldarola e Victor Magiar, che naturalmente saranno entrambi alla manifestazione. Il diessino Magiar, tra l’altro, è assessore alla cultura nella comunità ebraica romana, in quella sorta di governo di Grosse Koalition che vede nel ruolo di portavoce Riccardo Pacifici, assai più vicino al centrodestra. «Speriamo che la manifestazione sia anche l’occasione per la comunità ebraica di Roma per guardare con maggiore apertura a tutte le forze politiche », dice Fabio Nicolucci, che oltre a essere collaboratore del Riformista è anche il primo responsabile di quel manifesto di adesione al corteo, affisso dai Ds di Roma, che ieri campeggiava a pagina tre del Foglio. Naturalmente a determinare l’adesione dei Ds alla manifestazione è l’enormità delle dichiarazioni del presidente iraniano,che ha parlato di «cancellare Israele dalla mappa del mondo». Questa è la novità, sottolineano al Botteghino, dove non mancano le risposte polemiche a chi contesti la «continuità» della loro linea. «Qualora ce ne fosse ancora bisogno - sibilano - l’adesione alla manifestazione dell’intero stato maggiore del partito dimostra quanto sia ridicolo il tentativo di cucire attorno alla sinistra un’immagine caricaturale da parte di alcuni giornali». Il riferimento, per chi non lo avesse capito, è al quotidiano di via Solferino. Ma forse alla scelta diessina ha contribuito anche la riapertura, sull’onda delle primarie, della prospettiva di un partito unico, che in qualche modo dà più forza ai riformisti e allo stesso tempo li costringe a competere. Come osserva Nicolucci: «Le primarie hanno riaperto una battaglia delle idee. Certe timidezze su Israele erano anche figlie della guerra fredda: l’accelerazione sul partito riformista e dunque il superamento dei partiti cresciuti dentro gli schemi della guerra fredda rende più semplice entrare nel merito». Esiste però ancora un’altra interpretazione. Certo la svolta di Sharon, certo l’enormità delle parole di Ahmadinejad, ma anche - se non innanzi tutto - la scomparsa di Arafat. «La morte di un uomo che libera i vivi». La morte dell’uomo che firmava la pace in inglese e lanciava proclami di guerra in arabo, seguita dall’ascesa di una leadership palestinese certo più debole, ma pure più generosa. Non manca, anche nei Ds, chi sia convinto che il vero cordone ombelicale con le posizioni palestinesi si sia rotto allora.E soltanto così. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta di inviare il proprio parere alla redazione de Il Riformista. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.