Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
E' finita l'impunità dei tiranni, persino in Medio Oriente le analisi di Fiamma Nirenstein, Carlo Panella e Paul Berman
Testata:La Stampa - Il Foglio - Corriere della Sera Autore: Fiamma Nirenstein - Carlo Panella - Ennio Caretto Titolo: «L'ultimo canto del gallo - Chi siete voi, che volete - «Sono contro la pena di morte. Ma per lui l'accetterei»»
LA STAMPA di giovedì 20 ottobre 2005 pubblica a pagina 2 un articolo di Fiamma Nirenstein sul processo a Saddam Hussein, esemplare per la chiarezza morale e per la capacità di cogliere l'essenziale significato storico dell'evento.
Ecco l'articolo, "L'ultimo canto del gallo": Le voci e le immagini rotte continuamente da problemi tecnici televisivi davvero troppo stravaganti per l’importanza del momento, la qualità dell’immagine sfilacciata, Saddam Hussein, e il giudicie Rizgar Mohammed Amin, col coro greco dei sette coimputati di Saddam e dei cinque giudici colleghi di Rizgar, hanno messo in scena uno fra i più importanti drammi mondiali sul polveroso scenario del Medio Oriente. Chi non l’ha guardato avidamente, in Siria, Egitto, Arabia Saudita, Iran, Israele? Chi non vi ha letto i segni del proprio stesso destino? Chi non ha soppesato lo sdegnoso atteggiamento del tiranno deposto, interrogandosi sulla spocchia ostentata, se risponda a uno stato d’animo autentico e, peggio, a una reale speranza di tornare a imporre il dominio baathista, o se sia stato solo l’ultimo canto del gallo; chi non ha scrutato Amin, verificando nei suoi occhi la paura di essere trucidato per strada da una missile terra-terra o da sicari armati di kalashnikov, e trovando invece sul bel viso ornato da baffi curdi una quieta, eroica fiducia nella legge? Agli occhi mediorientali, a povera messinscena è un serio errore degli organizzatori; qui si acconciano le proprie ricorrenze storiche con la pompa e la formalità dovuta, è strano che gli americani e il governo dell’Iraq non abbiano cercato di evitare l’aria di paura che si leggeva nella miseria della presentazione tv. L’evento avrebbe dovuto essere, riguardando un tiranno che ha ucciso centinaia di migliaia dei suoi cittadini, molto più simbolico nella forma. D’altra parte però, Saddam nel box bianco come una gabbia per polli o come il lettino di un bebè, identico a quelli approntati per i suoi uomini, quelli che tremavano a ogni sua parola, fa intravedere a ogni rais la possibilità di dovere un giorno rendere conto delle persecuzioni delle minoranze, della promozione del terrorismo, delle stragi perpetrate. Assad deve aver ricordato, fra l’altro, quella di Hama compiuta da suo padre e deve aver pensato con un brivido alle accuse attuali contro il suo governo di sostenere il terrore e di aver ucciso Rafik Hariri, le memorie del Settembre Nero di re Hussein devono aver rannuvolato il totalmente innocente giovane Abdullah di Giordania che pure cerca un’emancipazione democratica; anche i sovrani sauditi e Mubarak di Egitto e gli Ajatollah iraniani, e Gheddafi, e gli altri, devono aver pensato ai decenni di imprigionamenti e di torture contro i dissidenti e probabilmente hanno tremato. Il messaggio del processo di Saddam sarà certo accompagnato da molte, estenuanti discussioni che proseguiranno un tempo infinito quanto lo sarà quello dell’assemblamento, una a una, delle prove di tutte le imprese del deposto dittatore sunnita; ma anche se molti ripeteranno che si tratta di un processo illegittimo i cui fili sono tirati dagli americani il significato basilare è uno: è giunto il tempo della responsabilità e forse della libertà, persino nel Medio Oriente. IL FOGLIO pubblica a pagina 2 la documentata e puntuale analisi di Carlo Panella "Chi siete voi, che volete"?
Ecco il testo: Khalil al Dulaimi, che dirige il collegio di difesa del rais deposto, sostiene che la "sentenza è già scritta". Ha ragione. La sentenza di morte per Saddam Hussein è stata invocata chiaramente e a gran voce dai più importanti leader politici iracheni – in testa Abdulaziz al Hakim, presidente del partito sciita Sciri – e sicuramente una pena soltanto carceraria creerebbe una risposta talmente irata sul piano interno da essere difficilmente controllabile. Non saranno due milioni – come ha detto esagerando "alla araba" – il rappresentante dell’accusa, ma sono di certo molte centinaia di migliaia le vittime irachene della ferocia di Saddam. Altrettante sono dunque le famiglie che oggi aspettano vendetta più che giustizia. Saddam è già condannato a morte, dunque. Non ci sono precedenti nella storia di processi contro dittatori che abbiano sulle spalle responsabilità atroci pari alle sue, ma conta pur sempre il fatto che gli altri, da Mussolini a Ceaucescu, sono stati comunque uccisi, sia pure dopo processi o sentenze farsa. Ma una condanna a morte non vuol dire un’esecuzione. Anche perché c’è un non piccolo problema politico in Iraq: il presidente della Repubblica, che deve per legge promulgare la sentenza, è contrario alla pena di morte. Jalal Talabani, infatti, si è rifiutato mesi fa di controfirmare la sentenza che mandava sul patibolo tre terroristi (colpevoli peraltro anche di attentati contro militanti del suo stesso partito) ed è stato sostituito dal suo vicepresidente. Attualmente la Corte suprema irachena ha confermato 56 delle 84 pene di morte pronunciate dai tribunali ed è più che probabile che Talabani non le firmerà. E’ questo un aspetto non secondario per illuminare la vita politica irachena di oggi. Talabani è infatti membro dell’Internazionale socialista, è convinto, e lo dice, che "Saddam meriti cento volte la morte", ma si rifiuta di avallare la pena capitale per motivi di coscienza. Non è detto che lo farà anche in occasione della condanna a morte di Saddam, ma non è neanche escluso. E’ un problema non insormontabile, ma comunque rappresenta l’indizio di una situazione complessa (oltre che della ricchezza del mondo politico iracheno). La direttiva del 2 ottobre del 1989 Non poche zone d’ombra avvolgono ancora tutte le fasi della cattura di Saddam nella notte tra il 13 e il 14 dicembre 2003. Ma è certo che, appena arrestato, ha dichiarato di volere trattare con gli Stati Uniti. L’ha confermato infatti, indirettamente, poche ore dopo lo stesso George W. Bush, negando ovviamente qualsiasi spazio a mercanteggiamenti "con un uomo di cui non mi fido per nulla e che ha tentato di uccidere mio padre". E’ anche fuori di dubbio che in questi anni di detenzione del rais la trattativa non è iniziata. Ma un altro piccolo indizio ci permette di comprendere che essa potrebbe avviarsi proprio ora, a processo iniziato, o quantomeno nelle sue ulteriori fasi. Forse proprio nell’imminenza di una condanna capitale che concluda un processo in cui siano state denunciate tutte le malefatte del regime e la figura del rais sia sgretolata nell’infamia di accuse provate. Questo processo ha infatti anche il rilevante scopo politico di contrastare quella popolarità che Saddam continua a riscontrare in parte del mondo sunnita iracheno e siriano. E’ successo infatti che, ieri mattina, il consigliere per la Sicurezza nazionale iracheno, Mouffak al Rubaie, si è recato in carcere, accompagnato da altri alti funzionari governativi, per parlare con Saddam. Visita inusuale, che viola tutte le procedure e che però potrebbe essere spiegata, appunto, con l’inizio di una trattativa. Una trattativa consistente. Saddam, dal primo momento della sua cattura, sa bene infatti di disporre di un enorme patrimonio politico. E’ un patrimonio che intende spendere, cosciente che gli può garantire maggiori vantaggi – fino alla salvezza della propria vita – di quelli che gli offre la sua difesa legale. Il rais, infatti, può mettere sul piatto della bilancia due grosse carte. La prima è la sua versione, suffragata da documenti ufficiali di Stato, sulle corresponsabilità degli Stati Uniti in alcuni crimini da lui compiuti. Con la non piccola aggiunta di un particolare scabroso: Saddam è in grado di dimostrare che George H.W. Bush, padre dell’attuale presidente, è stato corresponsabile dell’attuazione di molti dei crimini contestatigli nel capo d’accusa, prima come direttore della Cia, poi come presidente degli Stati Uniti. L’amministrazione di George W. Bush è perfettamente cosciente di questo pericolo. Soltanto grazie agli Stati Uniti erano infatti arrivati ad Ali "il chimico" i gas proibiti e letali usati ad Halabija per fare strage di curdi nel 1988. C’era poi la firma di George W. Bush sotto la "Direttiva segreta per la sicurezza nazionale numero 26" del 2 ottobre 1989, che disponeva: "Relazioni normali tra gli Stati Uniti e l’Iraq devono servire ai nostri interessi di lungo periodo e promuovere la stabilità sia nel Golfo sia in medio oriente. Il governo americano deve promuovere incentivi economici e politici a favore dell’Iraq per moderare i suoi comportamenti e per accrescere la nostra influenza su di esso". Questa direttiva è stata emessa tre mesi dopo lo scandalo Bnl-Atlanta che così è autorevolmente insabbiato – a tutto vantaggio di Baghdad – e che costa al nostro istituto ancora oggi l’ammortamento della perdita di cinque miliardi di dollari. Miliardi di dollari usati – a beffa di Bush – da Saddam per armare l’esercito che annetterà di lì a pochi mesi il Kuwait. E’ una direttiva che dimostra platealmente che – cosciente di tutti i massacri e i delitti contro l’umanità contenuti nei primi dieci capi d’imputazione del processo di questi giorni – Bush puntava tutte le sue carte sull’Iraq "per promuovere la stabilità del Golfo". Ci sono stati clamorosi errori politici, ma anche complicità pesanti, della cui denuncia però l’Amministrazione di George W. Bush dimostra di non avere timore. La prova migliore è già stata fornita al momento della cattura del rais. Nel dicembre 2003, al momento del blitz, sarebbe infatti stato facilissimo inscenare una morte in combattimento di Saddam Hussein durante uno scontro a fuoco e togliere così di mezzo uno scomodo testimone di molti errori. Non è questa dunque la vera carta su cui Saddam può tentare una trattativa che abbia possibilità di successo. Ma ve n’è un’altra. Semplicissima. Contenuta in questo quesito: "Quante vite di soldati americani può valere la vita di Saddam"? Basta porsi questa domanda per darsi la risposta e comprendere il percorso che il rais ha in mente dal momento in cui è stato catturato. Un appello di Saddam alla pacificazione nazionale – all’inizio di un "nuovo percorso", a una partecipazione piena dei sunniti al processo politico – può segnare una svolta positiva fortissima nella crisi irachena. E’ un appello che naturalmente non può arrivare all’inizio, ma soltanto alla fine del percorso processuale, forse addirittura a ridosso della sentenza. Il leader incatenato Durante il dibattito processuale si è compreso sino in fondo il coraggio che hanno avuto il governo iracheno e gli Stati Uniti nel permettere le riprese televisive integrali del dibattimento. A Tikrit i sunniti hanno applaudito il loro rais, ma altrettanti e forse ancora più applausi gli sono venuti ieri dall’immensa "piazza araba" che si riunisce davanti agli schermi di al Jazeera e al Arabiya. Non si è mai visto in un’aula di tribunale un imputato che dà del "tu" a un presidente che gli si rivolge con un rispettosissimo "lei" e che, con infinita pazienza, gli ripete le domande esponendosi al suo pubblico dileggio. In termini televisivi non c’è dubbio: il personaggio Saddam giganteggia, il personaggio "giudice" è debole, incerto, perdente. Non solo: il personaggio "accusa" è troppo tronfio e retorico, il personaggio "difesa" è invece indignato, pieno di pathos. Peggio ancora: i giudici a latere non si vedono. Sono nascosti, così come i cancellieri e l’altro personale giudiziario. Hanno paura. Tutti. Paura dei seguaci di Saddam Hussein, che anche in catene ha dimostrato di essere ancora e in tutto e per tutto il rais. Il suo stile, la sua calma, il suo rivendicare piena legittimità del ruolo di attuale presidente dell’Iraq, il suo "tu", incredibilmente spregiativo nei confronti di un giudice che non osa ricacciarglielo in gola e che lui magnanimamente "perdona". Tutto questo prefigura perfettamente le basi di una trattativa politica, la volontà e soprattutto la capacità di Saddam di affrontare il dibattimento non solo in punta di diritto (ruolo delegato soprattutto ai suoi avvocati), ma anche trasformandolo in un percorso che renda sempre più chiara la sua proposta politica. Saddam vive da ieri una sua nuova stagione politica, inusuale per un dittatore. E’ un leader incatenato e sicuramente condannato a morte che "fa politica", che sa di poter contare su una eccellente base di consenso e di popolarità, non soltanto nel suo paese, ma anche nel confinante Iran e in Giordania. Saddam, grazie al corto circuito mediatico, da ieri è ridiventato leader arabo, ogni suo gesto dimostra ed enfatizza questa sua ennesima performance. E il tribunale, in particolare il suo presidente, non hanno nessuna capacità, né possibilità, di contrastarlo. Anzi, del tutto inconsapevolmente, dimostrano di finire col dargli una mano. I tre boia Non molti sono finiti in un’aula di un "tribunale speciale" per tre volte, con capi d’accusa differenti, con una sentenza di morte già scritta. Saddam, invece, vanta questo record. La prima volta, gli è capitato quando aveva soltanto 21 anni, nell’autunno del 1958, quando è stato rinchiuso nella prigione di Assaray, vicino a Tikrit, con l’accusa di avere ucciso il responsabile locale del partito del dittatore Ghassem. Assieme a lui sono arrestati e accusati anche due suoi cugini, segno che il giovane è una sorta di "picciotto", che appartiene a una "famiglia" che si è schierata contro Ghassem e che riesce peraltro a garantirgli condizioni carcerarie incredibilmente favorevoli. A un certo punto la situazione precipita e Saddam e i suoi cugini sono deferiti al "Tribunale di al Mahadawi" di Baghdad, dal nome di uno spietato colonnello che inanella condanne a morte contro gli oppositori del regime. Un vero e proprio "tribunale del popolo" che non manda mai assolto alcun imputato. Saddam però sfugge al boia all’ultimo momento ed è addirittura rilasciato, grazie a una trattativa che il suo clan – il cui capo è il generale Hassan al Bakr, suo cugino – attraverso il Baath riesce a portare a termine col regime. Passano sei anni, Saddam attenta alla vita di Ghassem, fallisce, va in Egitto in esilio ma, una volta che Ghassem viene eliminato dal colonnello Afef, ritorna a Baghdad. All’alba di una mattina di ottobre del 1964 è però arrestato in casa sua e imprigionato, di nuovo con nuove accuse da pena capitale. Tutte meritate. Per anni ha infatti organizzato depositi clandestini di armi e di esplosivo (comperato dai pescatori di frodo del Tigri) per il Baath. Ha rubato automobili e le ha truccate, ha ucciso agenti e membri del regime, ha, insomma, messo in piedi un’efficientissima rete terroristica a Baghdad che ha insanguinato la città con centinaia di iniziative di guerriglia urbana. Anche questa volta, però, il leader terrorista non finisce davanti al plotone d’esecuzione. Suo cugino, il generale Hassan al Bakr è ormai diventato il vero leader del Baath e continua a godere di prestigio dentro le forze armate. Saddam è ancora assolutamente marginale nel gruppo dirigente del Baath, composto dal clan di Tikrit. Ma è uomo d’arme, è il più svelto a tirare di pistola, ha in mano tutta la struttura clandestina del partito e allora al Bakr decide di spendere tutto il suo prestigio nella trattativa per liberarlo. Saddam è dunque di nuovo salvato attraverso una trattativa. Ufficialmente egli evade durante un trasferimento in tribunale. Ma la versione ufficiale è incredibile e comica e copre a malapena la connivenza dei suoi due guardiani con la fuga. Secondo le sue biografie, infatti, il 13 luglio 1966, Saddam ottiene di scendere dal blindato che lo riporta dal tribunale in carcere dopo un’udienza, entra, assieme ai suoi secondini, nel ristorante "La gondola" (al Jaoundoul), va in bagno per lavarsi le mani – da solo – e se n’esce indisturbato dalla porta posteriore. Per ben due volte è entrato in un’aula di tribunale in cui l’attendeva una condanna a morte. Per due volte ne è uscito grazie a una trattativa politica basata sulla forza dei suoi sodali esterni, ben impiantati nei clan sunniti, capaci di mirare al risultato. La tracotanza, la sicurezza, anche l’evidente istrionismo di cui Saddam ha dato ampia prova durante la seduta del processo di ieri non nascono dunque dal nulla. Saddam ha già vissuto questo processo. Ha già fatto le sue prove generali. Sa anche bene che anche questa volta la sua salvezza dipende dal contesto politico, dalla sua possibilità di agire fuori dall’aula, più che dentro l’aula. Sa anche bene che non deve mai dare segno di essere un debole, uno disposto a scendere a patti. Sa bene che oggi come allora la trattativa – se i suoi carcerieri l’accettano – deve essere coperta, segreta. Ci prova. Il format "processo politico" Il dibattimento che si è aperto ieri a Baghdad non è il primo ad avere un forte impatto mediatico in medio oriente. Il primo grande processo che coinvolge la "piazza araba" si è tenuto ad Amman, in Giordania, il 29 agosto 1951, contro gli assassini del re Abdullah, ucciso sulla spianata delle moschee di Gerusalemme: si è consluso con sei condanne a morte. L’interesse politico e mediatico è spasmodico perché il dibattimento appura – ma soltanto in termini politici, non giudiziari – che l’assassinio è stato commissionato dal leader palestinese Hajji al Amin, cugino di Yasser Arafat. Tutti gli accusati e i condannati sono infatti suoi strettissimi collaboratori e il regicidio è stato attuato per impedire a re Abdullah di siglare la pace con Israele, che stava segretamente trattando con Golda Meir. Nel 1954, a Teheran, si svolse il processo contro il premier iraniano Muhammed Mossadeq, deposto dallo scià con un golpe aiutato dalla Cia. Il dibattimento ebbe enorme rilievo radiofonico e nei cinegiornali di tutto il mondo, anche a causa delle continue crisi d’astinenza da oppio dell’imputato, condannato a morte e poi graziato. Infine, nel 1981-82, si svolge al Cairo il processo contro gli assassini di Anwar al Sadat, tra questi Ayman al Zawahiri, braccio destro di Osama bin Laden. Il dibattimento ha un andamento a volte surreale perché la corte accetta spesso un astratto e teorico contraddittorio con gli imputati sul tema della legittimità coranica del "tirannicidio". Poi emette cinque condanne a morte. IL CORRIERE DELLA SERA pubblica a pagina 5 un'intervista di Ennio Caretto al saggista americano Paul Berman, che dichiara: «Sono contro la pena di morte. Ma per lui l'accetterei».
Ecco il testo: WASHINGTON — Per Paul Berman, l'autore di «Terrorismo e liberalismo», uno dei neoliberal americani che appoggiarono la guerra dell'Iraq, la condanna a morte di Saddam Hussein sarebbe «comprensibile». Il filosofo politico, che ha coniato il termine di «fascismo islamico» (ossia di estremismo religioso), paragona il processo a Bagdad al referendum sulla Costituzione e alle elezioni, «un passo avanti nella riconciliazione nazionale e verso la democrazia». Come giudica la prima udienza? «Avrei preferito un tribunale internazionale sul modello di quello che giudica Milosevic. Avrebbe avuto maggiore legittimità e avrebbe soddisfatto il mondo intero. Quello iracheno è esposto a critiche di parte, anche perché si avvale quasi solo di esperti americani. Ma l'Onu ha rifiutato di lasciarsi coinvolgere, una conseguenza, temo, dei nostri fiaschi diplomatici». Ha paura che sia visto come il tribunale dei vincitori? «Ho paura che non sia all' altezza del difficile compito, che lasci troppo spazio alla propaganda di Saddam, e che non convinca parte dell'opinione pubblica su qual è stata l'orrenda realtà del suo regime. Sarebbe una tragedia. Molto dipenderà dal giudice, dagli avvocati, dai testimoni. Ma l'inizio del processo è stato costruttivo». A quale parte della pubblica opinione si riferisce? «A quella sunnita in Iraq, e a quella che dubita di noi nel mondo: bisogna fare in modo che l'atroce realtà del passato prevalga sulla strumentalizzazione politica del processo. Per questo, è un bene che le udienze vengano trasmesse in tv: è una prova di trasparenza». Quale giudizio prevede alla fine su Saddam? «Quello negativo. L'ideologia baathista identifica il nazionalismo nel dittatore, proclama la superiorità araba sulle altre etnie, esalta la guerra permanente. Il raìs farà la figura di Milosevic: un arrogante che disprezza gli accusatori, che giustifica i suoi atti con la ragione di stato e rifiuta qualsiasi responsabilità». Come valuterebbe la condanna a morte di Saddam? «Sul piano filosofico, io sono contrario alla sentenza capitale, come lo è l'Italia. Ma in Iraq vige una cultura diversa, la pena di morte è legale. E' per me sarebbe facilmente comprensibile, se così sentenziasse la Corte. Il primo processo verte su un singolo episodio, ma il raìs ha sulla coscienza fino a 300 mila omicidi, più le vittime delle sue guerre. Un dramma iracheno su cui decideranno gli iracheni». Non pensa che aggraverebbe la spaccatura del Paese? «Si terranno parecchi processi contro il raìs, molti controversi, ma spero che alla fine daranno gli stessi risultati di Norimberga, che giovò soprattutto ai tedeschi: che aprano cioè gli occhi ai sunniti. Gli italiani uccisero Mussolini, un fatto che accetto, ma sarebbe stato meglio processarlo, avrebbe risanato alcune ferite». Il processo è un passo avanti? «Sì, come le elezioni. In Iraq c'è un netto contrasto tra la guerra, che sembra non registrare progressi, e la politica, che sembra invece capace di portare stabilità e democrazia. E vero, molte questioni restano irrisolte: le autonomie regionali, la spartizione del petrolio, il rapporto Stato- Moschea. Ma saranno quelle su cui si misureranno i partiti e i movimenti». Servirebbe una Commissione di riconciliazione nazionale come in Sudafrica? «Sì, anche se la situazione irachena è molto diversa da quella sudafricana di vent'anni fa. C'è un'analogia: da decenni i sunniti erano la classe dominante come i bianchi in Sud Africa. Ma lì l'ideologia della superiorità razziale stava vacillando, mentre in Iraq il baathismo non è crollato. Certi sunniti sono come i guerriglieri marxisti in America Latina: sono convinti di rappresentare il popolo anche quando il popolo elegge i loro nemici». Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla direzione della Stampa, Il Foglio e Corriere della Sera . Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.