Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Il fallimento dell'Onu e la proposta di salvarla liberalizzandola avanzata da Joshua Muravchik
Testata:Il Foglio Autore: Marco Respinti - Joshua Muravchik - Christian Rocca Titolo: «Il palazzaccio di vetro»
IL FOGLIO di venerdì 16 settembre 2005 pubblica apagina 2 dell'inserto l'articolo di Marco respinti "Joshua Muravchik ci spiega il suo libro sul fallimento politico delle Nazioni Unite".
Ecco il testo: L’Onu, il grande dinosauro oggi sempre più prossimo alla paralisi, è stato in realtà sbagliato sin dall’inizio. Celebra i propri 60 anni e qualcuno la festa gliela sta facendo per davvero. Joshua Muravchik, per esempio – emblema stesso del neoconservatorismo come interventismo in politica estera – ha confezionato un regalo speciale: il libro "The Future of the United Nations: Understanding the Past to Chart a Way Forward", pubblicato dalla AEI Press, il ramo editoriale dell’American Enterprise Institute for Public Policy Research di Washington dove Muravchik è "Resident Scholar". Nato a New York nel 1947, di religione ebraica, Ph.D. alla Georgetown University nel 1984, sposato, tre figli, all’AEI studia attentamente le attività dell’Onu, il pensiero neocon, la storia del comunismo, il conflitto arabo-israeliano, la democrazia nel mondo, il terrorismo e la "Dottrina Bush". Docente, dal 1992, all’Institute of World Politics di Washington e analista al Washington Institute on Near East Policy, è membro del comitato editoriale dei periodici "World Affairs" e "Journal of Democracy". Per lui la liberazione politica del mondo è antidoto al comunismo ieri e al terrorismo oggi, e nella sua promozione agli Usa spetta un ruolo (morale e politico) primario. E Israele è un avamposto occidentale in terra ostile. Lo afferma da anni con libri come "The Senate and National Security" (1980), "The Uncertain Crusade: Jimmy Carter and Dilemmas of Human Rights Policy" (1986), "Nicaragua’s Slow March to Communism" (1986), "Exporting Democracy: Fulfilling America's Destiny" (1991), "U.S. Foreign Policy Options and Australian Interests" (1992), "The Imperative of American Leadership: A Challenge to Neo-Isolationism" (1996) e (vedi box qui a lato, ndr) "Heaven on Earth: The Rise and Fall of Socialism" (2002). "L’Onu è un grande, colossale fallimento": Muravchik suggella così l’alfa e l’omega del proprio pensiero in materia. "Nata per essere il baluardo della pace e della sicurezza nel mondo, la sua Carta di fondazione previde di dotarla di una potente forza militare d’intervento da impiegare solo su autorizzazione del Consiglio di Sicurezza (CdS). Ma questo esercito non ha mai visto la luce. Così è toccato agli Stati Uniti e ai suoi alleati della Nato difendere la pace in Europa. Di fatto, in tutta la propria storia, il Consiglio di sicurezza si è mosso solo due volte per fermare aggressioni che hanno comportato violazioni di confini nazionali, il tipo di aggressioni, cioè, che statutariamente l’Onu è nata per impedire: in Corea nel 1950 e nel Kuwait fra 1990 e 1991. In entrambi i casi, però, le Nazioni Unite non hanno nemmeno finto d’intervenire come prescritto dalla Carta di fondazione agli articoli 39, 42 e 43 che conferiscono loro il compito di mantenere la pace nel mondo: si sono semplicemente rivolte agli Stati Uniti e ai suoi alleati. Questo è stato peraltro fatto in base all’articolo 51 che afferma il diritto all’autodifesa personale o collettiva. L’Onu ha insomma permesso ad altri Stati d’intervenire a fianco della Corea del Sud e del Kuwait per aiutarli a difendersi. Eppure l’articolo 51 fu voluto come misura di emergenza da utilizzare ‘fino a quando il Consiglio di sicurezza non abbia adottato le misure necessarie a mantenere la pace e la sicurezza internazionali’, bypassando nella pratica gli ostacoli teorici. In altre parole, il CdS è riuscito a difendere la pace solo quando ha agito in base alla norma pensata per i casi in cui le Nazioni Unite non fossero state in grado o avessero mancato di agire…". Impasse strutturale? "Sintetizzerei così: è decisamente rischioso chiedere che né gli Stati Uniti né la Nato possano assumere iniziative militari senza una previa risoluzione del Consiglio di sicurezza. E, d’altro canto, alle risoluzioni del Consiglio che in qualche modo interessano gli Stati Uniti possono sempre porre il veto Stati come Russia e Cina". Un minaccia, insomma, alla sovranità nazionale, che fa più danni di quanti ne sani. "Intendiamoci", risponde Muravchik, grande assertore del beneficio per contagio della diffusione delle libertà democratiche nel mondo, "l’internazionalismo è cosa buona". Non è un controsenso? "No, le nazioni debbono parlarsi, cooperare e cercare di risolvere assieme i problemi comuni. Persino una superpotenza come gli Stati Uniti non può agire "unilateralmente" più spesso di tanto. Ma, detto questo, la cooperazione internazionale non è lo stesso del governo mondiale, quale oggi di fatto, seppur scheletricamente, l’Onu è. E il guaio maggiore è che un siffatto ‘governo mondiale’ non potrà mai essere democratico". Perché? Le Nazioni Unite non si reggono forse sull’eguaglianza di tutti gli Stati-membri? "Faccio un esempio. Gli Stati Uniti sono una comunità politica in cui il governo rende conto del proprio operato ai cittadini, i quali, per certi versi, hanno così la possibilità di controllare il governo. Lo stesso accade in Italia e in qualsiasi altro paese democratico. Il mondo nella sua interezza non è invece affatto una comunità politica. Affermare allora che i funzionari dell’Onu rendono conto del proprio agire ai ‘cittadini del mondo’ è un linguaggio di astrazioni senza senso". Non è che la prima vittima di questa mancanza di democrazia siano proprio gli Stati Uniti, gli unici oggi in grado di agire con efficacia contro le minacce internazionali, ma proprio per questo in competizione diretta con il Palazzo di Vetro, con l’aggravante che ogni loro azione conferma l’obsolescenza dell’Onu? "Per diversi aspetti sì. Epperò chi è che ne esce davvero sconfitto? Quando si sentono minacciati, infatti, gli Stati Uniti non rinunciano certo a difendersi per far piacere all’Onu. Ma l’Onu, questo sì, può costringere Washington a non intervenire in sostegno di amici e alleati. Dunque?…". Suona, direbbero alcuni, "imperialista". "Imperialismo? Oggi il mondo non è affatto minacciato dagli Stati Uniti, ma si metterebbe invece in pericolo se l’America assumesse posizioni isolazioniste. Fu l’atteggiamento egoista e miope degli Stati Uniti di allora che per esempio sicucontribuì a far scoppiare la Seconda guerra mondiale". Ed è stato l’assetto del mondo stabilito dopo quel conflitto dalla Guerra fredda che ha paralizzato le Nazioni Unite sin dall’inizio… "Dopo il 1989 si è sperato che l’Onu potesse tornare ai suoi propositi originari, ma oggi, sedici anni dopo, è evidente che anche senza la rigida divisione del mondo di allora il Palazzo di Vetro è incapace di agire con efficacia". Per esempio? "In Bosnia l’Onu ha addirittura peggiorato la situazione. Nel 1995 fece insediare i musulmani in quella Srebrenica che era considerata una delle "aree sicure" sotto la propria egida, ne disarmò le milizie e subito tutto questo si trasformò, ancorché involontariamente, in un concentramento di vittime pronte per il massacro. E prima ancora, in Ruanda, nel 1994, non solo l’Onu non riuscì a prendere iniziative efficaci onde porre fine alla mattanza che lì si perpetrava, ma addirittura ritirò i Caschi blu. Sono seguiti accorati mea culpa, ma poi in Sudan le Nazioni Unite si sono comportate poco diversamente". Nessuna speranza, dunque, per l’Onu. Meglio chiuderla che riformarla? "Si traggano le conseguenze. Atrofizzate sul piano del peacekeeping, le Nazioni Unite avrebbero potuto diventare il bastione della morale e della trasparenza nel mondo. E invece, anche qui, ecco lo scandalo Oil for Food, abusi sessuali su donne e bambini in diversi paesi e casi dopo casi di palese corruzione. Sul piano dei diritti umani, l’Onu è una sciagura. Ogni anno Freedom House, una Ong che si occupa di monitorare il livello della libertà politica nel mondo, stila la classifica dei dieci governi più oppressivi del mondo e ogni anno almeno metà di questi diventano membri della Commissione Onu per i diritti umani, guadagnandosi così il salvacondotto che li rende immuni da qualsiasi reprimenda da parte della stessa Commissione. La quale peraltro passa la maggior parte del proprio tempo ad attaccare Israele. Riformare? Chiudere?…". D i segiuo riportiamo invece l'articolo di Joshua Muravchik "Proposta: abolire il consiglio di sicurezza e puntare solo sulle Agenzie umanitarie".
Ecco il testo: Il lato ironico delle angosciate relazioni che da sempre corrono tra Stati Uniti e Nazioni Unite – e questo nonostante i primi ospitino la sede e sopportino la maggior parte dei costi delle seconde – è che l’Onu è in gran parte un’invenzione degli Usa, proprio come lo fu l’idea stessa di una organizzazione internazionale degli Stati. E non solo gli Stati Uniti si sono cullati nel sogno di questa organizzazione, ma per essa hanno speso il capitale diplomatico accumulato grazie al sacrificio profuso sui campi di battaglia dai loro figli proprio per far sì che quel sogno prendesse forma. E se questa ironia non bastasse, alcune di quelle iniziative Onu che a Washington procurano i grattacapi più grandi sono appoggiate proprio degli americani. Il Consiglio socio-economico (ECOSOC), sponsor di numerose attività delle Nazioni Unite da cui gli Stati Uniti dissentono, venne creato su insistenza americana in base all’idea che non è sufficiente rispondere direttamente alla minaccia della guerra senza cercare di eliminare prima le cause che la generano. Analogamente, anche la Commissione per i diritti umani, dalla quale gli Stati Uniti si ritrovano spesso esclusi a vantaggio di despoti e di dittatori, è stata creata sotto guida statunitense nella persona di Eleanor Roosevelt. E l’angusta definizione di autodifesa contemplata all’articolo 51 della Carte delle Nazioni Unite, che per i critici degli Stati Uniti renderebbe illecite le azioni americane in Iraq nel 2003, è il frutto delle insistenze del Segretario di Stato Edward Stettinius a fronte del ministro degli Esteri britannico Anthony Eden che invece tentò di ampliare detta definizione. Il presunto monopolio sull’uso legittimo della forza di cui godrebbe il Consiglio di Sicurezza viene direttamente dal progetto del presidente Franklin D. Roosevelt secondo cui la pace nel mondo successivo alla Seconda guerra mondiale sarebbe stata difesa da "quattro poliziotti" – Stati Uniti, Unione Sovietica, Regno Unito e Cina –, ai quali sarebbe spettata l’esclusiva di autorizzare o meno un eventuale ricorso alla guerra.
Ma nessun aspetto delle attività delle Nazioni Unite è tanto antietico quanto il settore coperto dalla Commissione per i diritti umani. Nel 2004, la delegazione americana all’Onu concertò i propri sforzi allo scopo di far approvare una risoluzione che biasimasse il governo del Sudan per le uccisioni di massa, gli stupri e le deportazioni che andavano moltiplicandosi nella regione del Darfur, e che, con altri, la Camera dei deputati e la presidenza degli Stati Uniti avevano definito "genocidio". La strategia di Washington era quella di appoggiare una proposta di risoluzione presentata dall’Unione europea, ma poi l’Unione europea, volendo evitare ogni controversia, negoziò un testo annacquato con il Gruppo Africano (l’assemblea di quegli Stati-membri che appartengono al continente africano), il quale, come sempre, agì " a prescindere", difendendo per automatismo uno dei suoi dalle critiche. Così il testo non autorizzò nemmeno l’istituzione di un "relatore speciale" che esaminasse la situazione del Darfur, strumento d’intervento normale, quello del "relatore speciale", che consente alla Commissione di esercitare la propria autorità morale. I gruppi di lavoro sui diritti umani criticarono poi il Consiglio di Sicurezza per non avere inviato nel Darfur una forza militare capace di proteggere la popolazione. Tutti sono sempre pronti perché qualcuno altro faccia il lavoro. Accadde però che nella Commissione Onu sui diritti umani non è stato possibile nemmeno pronunciare qualche parola decisamente non ambigua a favore delle vittime di quella tragedia. Ciò detto, la composizione delle Nazioni Unite ha tratto grandi benefici dalla diffusione della democrazia prodottasi in anni recenti. Stando al censimento fornito da Freedom House per il 2004, la maggior parte dei 191 Stati membri (118) si regge su governi eletti. Di questi, 88 sono stati giudicati "liberi", nel senso che in essi non solo si svolgono elezioni, ma esistono libertà di stampa e tribunali indipendenti, vige la certezza del diritto e sono attivi altri meccanismi tipici di un sistema democratico. Il problema della capacità dell’Onu di rispondere al pubblico dei propri atti non si limita però alla presenza fra i suoi membri di governi dispotici. Anche nella prospettiva delle democrazie, infatti, le Nazioni Unite mostrano di essere una istituzione talmente remota da cancellare quasi del tutto le connessioni fra il suo corpo internazionale e i cittadini dei vari Stati-membri. Fu, a suo tempo, una delle premesse della Costituzione degli Stati Uniti – quella da cui germogliò la prima democrazia moderna del mondo – l’idea che l’esercizio del potere non dovesse allontanarsi troppo dai cittadini. Il Decimo emendamento alla Costituzione statunitense riserva infatti agli Stati e al popolo dell’Unione nordamericana ciò che non viene esplicitamente "delegato" all’autorità federale. Negli Stati Uniti, certo, alcune decisioni le si è poi dovute prendere o alcune delle funzioni amministrative le si sono poi dovute esercitare a livelli di governo più lontani dai cittadini, ma tutto questo è stato fatto individuando con grande cura i destinatari di questi poteri poiché si temeva che più il governo fosse risultato distante, meno trasparente sarebbe stata la sua responsività nei confronti dei cittadini. Questo assioma si applica con forza ancora maggiore sul piano internazionale. Quanti sono i cittadini degli Stati democratici che sanno come votano i propri "rappresentanti" durante le sessioni dell’Onu? E a quanti importa? La risposta è che le procedure pratiche attraverso cui anche i cittadini delle democrazie possono esprimere i propri desiderata in merito ai lavori delle Nazioni Unite sono poche e deboli. E questo non è che l’inizio del problema. L’idea che il conto dei fallimenti dell’Onu debba essere presentato agli Stati che ne sono membri non è nuova. Anni prima che l’Onu nascesse, Winston Churchill difese la Società delle Nazioni in termini simili: "Fu sbagliato dire che la Società delle Nazioni fallì. Sono piuttosto stati i paesi membri che fallirono la Società". Forse è davvero così, ma in questo caso è lecito inferire che organizzazioni come la Società delle Nazioni e l’Onu contengono elementi strutturali tali da incoraggiare gli Stati-membri a comportarsi in modo inetto o irresponsabile. Quando il presidente Bill Clinton volle concentrarsi sulla politica interna ed evitare il coinvolgimento nei Balcani, l’ostacolo rappresentato in sé dal Consiglio di Sicurezza diede agli Stati Uniti un pretesto utile a giustificare il mancato ricorso ad atti di forza in Bosnia. Durante il genocidio perpetrato in Ruanda nel 1994, molte nazioni si fecero prendere da rimorsi di coscienza, ma l’insistenza di Washington nel bloccare qualsiasi azione in sede di Consiglio di sicurezza le lasciò impotenti. Ancora, nel 2005, la minaccia del veto cinese ha impedito di rispondere adeguatamente alla pulizia etnica in corso nel Darfur, offrendo ai riluttanti Stati occidentali una comoda scusa per evitare l’intervento diretto. Nel novembre 2004, il Comitato di Alto Livello su Minacce, Sfide e Cambiamenti presentò un piano generale di revisione dell’Onu contenente 101 raccomandazioni specifiche. I membri di quel Comitato affermarono che i "rami secchi" costituivano ancora un ostacolo serio all’efficacia delle operazioni Onu e quindi ne proposero il congedo in blocco. Allo stesso tempo, però, in contrasto con altre proposte di riforma presentate in precedenza secondo cui l’organizzazione soffriva di esubero del personale, il rapporto propose di assegnare al Segretario generale la disposizione di altri sessanta nuovi incarichi, oltre a un ulteriore suo vice. Il Segretario generale appoggiò l’idea del congedo in blocco, "in modo da rinnovare e riassestare lo staff in base alle necessità attuali", ma al posto di un altro vice, chiese che gli venisse assegnato "un più alto livello di autorità e di flessibilità manageriali, [inclusa] la possibilità di adattare il tavolo dei collaboratori a seconda delle necessità e senza indebite limitazioni". Ora, è difficile vedere come un congedo in blocco possa sperare di risolvere qualcosa. Né il Comitato né il Segretario Generale si sono mai infatti preoccupati di stabilire quale fosse l’origine dei "rami secchi". Ma la risposta ovvia è che tutto deriva dal criterio di distribuzione degli incarichi: che avviene per nazione invece che per qualifica. Del resto, Kofi Annan ha potuto perseguire indisturbato la propria linea – e questo tranquillamente appoggiandosi allo stesso rapporto del Comitato di Alto Livello su Minacce, Sfide e Cambiamenti – riaffermando la tradizionale distribuzione degl’incarichi su base geografica e imbastendo la consueta filippica: "Oggi dobbiamo aggiungere, assicurando un giusto equilibrio fra uomini e donne". Il Segretario generale propose cioè di rendere ancora più complesso e dispendioso quello che già era il più barocco sistema di "affirmative action" del mondo. Il risultato è intuibile: se i rami secchi verranno potati, lo saranno per essere rimpiazzati da altri, altrettanto secchi. Gruppi e studiosi indipendenti hanno del resto avanzato diverse altre proposte di riforma. Quella più importante, contenuta in un rapporto del 2002 stilato da una task force congiunta del Council on Foreign Relations e di Freedom House, chiede a gran voce la formazione dentro l’Onu di "assemblee di democrazia" composte di paesi documentatamente non dispotici. Sul piano formale, non si tratta di una riforma giacché non comporterebbe l’emendamento delle normative che regolano l’organizzazione né una ristrutturazione dei suoi organi. Eppure, se si dovesse dare vita ad assemblee di questo tipo, e se i loro membri acconsentissero a lasciarsene influenzare quanto al modo con cui votano all’Onu, si tratterebbe certamente di un passo avanti. Anche se tutto sommato molto potrebbe restare invariato quanto al presunto compito chiave delle Nazioni Unite, il mantenimento della pace mondiale, la proposta di detta task force potrebbe infatti assicurare una diversa composizione della Commissione per i diritti umani contribuendo così al parziale ricupero del prestigio morale dell’Onu. Nelle "assemblee di democrazia" verrebbero infatti radunati la maggior parte degli Statimembri dell’Onu. E se in queste assise questi Stati democratici dimostrassero compattezza, tali assemblee potrebbero efficacemente soppiantare il Movimento dei paesi non-allineati quale fazione dominante in seno alle Nazioni Unite, mutando così sensibilmente il clima dell’Assemblea generale e magari molto altro ancora. E’ infatti nel complesso difficile sostenere che l’Onu sia un’agenzia efficace nell’alleviare le sofferenze del mondo. Essa gode infatti di un triste curriculum di panacee economiche che in realtà hanno perpetuato o addirittura peggiorato il livello della povertà mondiale. I rimedi proposti dalle Nazioni Unite sono sempre stati animati da uno spirito di risentimento terzomondista diretto contro l’occidente e peraltro fondato sull’idea che siano proprio le strutture statali gli agenti economici più efficaci. Nel complesso, però, le Nazioni Unite trarrebbero benefici sicuramente maggiori se decidessero una buona volta di riesaminare in radice la propria intera struttura, smettendo così si perdere tempo sulla sola questione della composizione del Consiglio di Sicurezza. Timothy Wirth, della UN Foundation (l’organizzazione di supporto alle Nazioni Unite creata nel 1998 da Ted Turner), ama distinguere fra organi politici che – egli dice – assorbono solo il 20 per cento del budget dell’Onu e che però – egli riconosce – sono davvero difficili da difendere, e le agenzie specialistiche – l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’Unicef, l’Alto Commissariato per i Rifugiati e simili – a cui sono affidati i mandati umanitari delle Nazioni Unite. Questa dicotomia suggerisce una sorta d’intervento chirurgico radicale che potrebbe rimette l’Onu in salute. Dopo 60 anni non è infatti forse il caso di riconoscere che l’Onu politica è un fiasco? Perché allora non abolirne completamente l’Assemblea Generale e il Consiglio di Sicurezza, assieme ad altre agenzie inutili o pericolose quali la Commissione per diritti umani e quei diversi organismi speciali totalmente dediti alla sola causa palestinese? Il punto non è quello di abolire l’Onu, ma di liberalizzarla così che sul piano diplomatico possa fiorire una istituzione analoga al libero mercato. Né si tratta di separare gli Stati Uniti dal resto delle altre nazioni, quanto invece di permettere che il dialogo e la cooperazione si svolgano liberi dalle camicie di forza imposte da organismi e da agenzie che servono scopi improbabili. Gli americani sono convinti del fatto che il governo sia un male necessario. Il governo mondiale, però, è un male non necessario. E proprio lo sforzo di proporsi come protogoverno mondiale è il nodo centrale dei peggiori fallimenti dell’Onu. Christian Rocca nell'articolo "Fascino e tragedia del comunismo secondo i neocon scrive di un libro di Muravchik sulla storia delle utopie socialiste del loro fallimento, in uscita in Italia da Lindau.
Ecci il testo: Afine ottobre uscirà in Italia, per le edizioni Lindau, un altro libro di Joshua Muravchik, precedente a quello sulle Nazioni Unite che presentiamo in anteprima su questa pagina. Si intitola "Il paradiso in terra - Ascesa e caduta del socialismo" (528 pagine, 35 euro, traduzione di Geraldine Molinaro). Probabilmente si tratta del lavoro più importante svolto dall’analista dell’American Enterprise Institute, al punto che quest’estate la televisione pubblica americana, l’autorevole Pbs, ne ha tratto un formidabile documentario di tre ore e anche un dvd. Il libro e il documentario sono un rigoroso viaggio e un appassionato racconto di un’utopia generosa eppure tragica. Muravchik, come la gran parte dei suoi colleghi neoconservatori americani, ha un passato, un’esperienza, ma anche frequentazioni familiari, all’interno della sinistra socialista. Da ragazzo era socialista come suo padre e suo nonno. La sua era quasi una fede e del resto il socialismo è stato il più ambizioso tentativo di sostituire la religione con una dottrina politica che fin dall’inizio si è vantata di essere scientifica, di voler costruire l’uomo nuovo e di voler instaurare appunto il paradiso in terra. Del resto nessuna religione si è diffusa così largamente e velocemente come il socialismo, il comunismo e la socialdemocrazia. Una fede ideologica e un’aspirazione nobile che si sono presto trasformate in un incubo ricorrente in tutte le molteplici forme in cui si sono realizzate, dal comunismo sovietico a quello cinese, e poi asiatico, africano, sudamericano, terzomondista, senza dimenticare la radice socialista del fascismo mussoliniano. Nessuna di queste forme ha funzionato. Muravchik ne racconta la storia, analizzando le idee e ritraendo i suoi pensatori, i suoi leader e, infine, i suoi affossatori. Parte dalle esperienze rivoluzionarie francesi (la Congiura degli Eguali di Babeuf) e dal tentativo di Robert Owen di instaurare un modello utopico socialista negli Stati Uniti. E poi ovviamente, uno dietro l’altro, racconta Friedrich Engels, Karl Marx, i sovietici e tutti gli altri. Fino a coloro, come Gorbaciov, Deng Xiaoping e Blair, che consapevolmente o no, ne hanno decretato la fine. Sull'intervento del presidente iracheno Jalal Talabani alle Nazioni Unite, l'articolo di Christian Rocca "L'Iraq libero parla all'Onu, l'Onu lo critica".
Ecco il testo: Si sta comportando male? Da quando è arrivato qui ha già fatto saltare in aria il Palazzo?", entrando martedì al Palazzo di Vetro, George Bush ha scherzato così con Kofi Annan, stemperando la tensione intorno al ruolo e alla fama di cattivo dell’ambasciatore John Bolton. Eppure, battute a parte, ora non si trova più nessuno disposto a criticare il duro negoziatore americano. Il Corriere della Sera l’ha definito "l’angelo dei negoziati" e sui grandi giornali americani sono sparite le critiche. Il tentativo di riforma dell’Onu, l’unico in grado di renderla efficace e credibile, è fallito perché, come previsto, è stato bloccato dal club delle dittature. Così, improvvisamente, il mondo ha scoperto che Bolton è stato il capofila di chi si è battuto per dare una chance e un futuro alle Nazioni Unite, non per chiuderle. Le richieste americane ed europee e finanche di Kofi Annan erano semplici: condanna non ambigua del terrorismo, fuori i violatori dei diritti umani dalla Commissione sui diritti umani, trasparenza nella gestione interna. Le dittature, i paesi non allineati e la burocrazia Onu hanno detto di no. Stavolta non c’era trippa per accusare l’America, e anche l’accusa di voler annacquare l’obbligo a versare lo 0,7 per cento del Pil agli aiuti umanitari si è afflosciata di fronte ai dati reali secondo cui l’America ha quasi raddoppiato i suoi versamenti, da quando Bush è entrato alla Casa Bianca. Il New York Times s’è spinto oltre e, con James Traub, ha proposto di chiudere l’Onu e di sostituirla con un nuovo organismo, mentre i leader della sinistra mondiale hanno preferito i fasti della Clinton Global Initiative al declino e all’inconcludenza delle Nazioni Unite, che pure fino a ieri citavano in ogni loro discorso. Ieri all’Assemblea generale sono intervenuti, tra gli altri, Silvio Berlusconi e Vladimir Putin, mentre a margine dei lavori si sono incontrati il pakistano Pervez Musharraf e l’indiano Manmohan Singh. Musharraf ha anche stretto la mano al premier israeliano Ariel Sharon, mentre il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad e il collega filo-siriano del Libano Emile Lahoud hanno fatto fronte comune contro le presunte provocazioni americane. L’intervento più significativo è stato quello di Jalal Talabani, il presidente dell’Iraq libero e democratico. Fosse dipeso dall’Onu, sul palco di ieri ci sarebbe stato ancora Saddam. Talabani ha detto che "l’Iraq è riuscito ad emergere grazie alla guerra di liberazione guidata dagli Stati Uniti e ha iniziato a percorrere la strada della democrazia". Per tutta risposta, l’Onu ha pubblicato un rapporto rigoglioso di critiche sul processo costituzionale iracheno. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.