Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Una domanda a chi contesta la barriera di difesa prendendo spunto da un articolo pubblicato dal quotidiano lodigiano "Il Cittadino"
Testata:Informazione Corretta Autore: la redazione Titolo: «Una domannda a chi contesta la barriera di difesa»
Ennesimo articolo contro la barriera di sicurezza israeliana, in difesa dei diritti di proprietà e di circolazione dei palestinesi e di un supposto "diritto internazionale" e contro il diritto alla vita degli israeliani, pubblicato apagina 1 e 14 da IL CITTADINO, quotidiano del lodigiano. Ne è autore Davide Bernocchi Ecco il testo, che riportiamo con una domanda: le organizzazioni di difesa dei diritti umani e caritatevoli citate nell'articolo hanno mai organizzato campagne, o convegni, contro il terrorismo palestinese per fermare il quale la barriera è stata costruita?
Ecco il testo, "Ma che cosa produce quel muro?": Gli israeliani dicono "barriera di sicurezza", i palestinesi "muro dell’apartheid" o "muro di annessione". Al di là della querelle sui termini, ciò che importa è mettere a fuoco la realtà. E capire che peso ha, nella vita quotidiana di tanti individui e tante comunità, un’opera che sta mutando in modo radicale, nonostante la condanna della Corte internazionale di giustizia del luglio 2004 e il coro di proteste e moniti che si leva in tutto il mondo, il volto della Terra Santa. A seguito della decisione della Corte dell’Aja, il governo israeliano ha rivisto a febbraio il piano iniziale dell’opera, riavvicinando in alcuni tratti il suo tracciato ai confini della Cisgiordania fissati nel 1967 e riconosciuti dal diritto internazionale. Ma ciò è ben lungi dal rappresentare una soluzione accettabile al problema delle legittimità e dell’utilità; tanto più che Israele si è riservato di decidere se e in che forma completare la barriera che, di fatto, si appresta ad annettere al territorio israeliano alcuni tra i maggiori insediamenti illegali (dal punto di vista del diritto internazionale) dei coloni ebraici, per esempio i blocchi Ari’elEmmanuel e Ma’ale Adumim. Del muro si parla, insomma, ma poco e male. Per capirne meglio caratteristiche e impatto sulla società locale, Caritas Italiana ha organizzato a fine marzo il seminario "Il muro israeliano in Cisgiordania: dati e fatti", al quale hanno partecipato rappresentati qualificati di realtà del mondo israeliano e palestinese che lavorano sulla questione, oltre che delle Nazioni Unite. È stata un occasione preziosa per acquisire conoscenze inedite. Come quelle fornite da Antigona Ashkar, rappresentante di B’Tselem Centro israeliano di informazione per i diritti umani nei Territori occupati, che ha presentato il piano del tracciato della barriera di separazione, termine che la sua organizzazione preferisce a quello di muro, per evidenziare il fatto che solo il 5% del manufatto sarà costituito di lastre di cemento, mentre per il resto si presenterà come una combinazione di componenti (barriera elettronica, strada, fossato, recinto e altra strada) che arriva a una larghezza di 60, e persino 100 metri. La ferita, in ogni caso, è lacerante. E quanti anche in Israele dissentono dal progetto, osservano che il governo Sharon ha non solo il diritto, ma il dovere di proteggere i propri cittadini nella maniera che ritiene più opportuna. Però ciò non lo legittima a violare la legalità internazionale e i diritti umani. E la barriera, costruita non in territorio israeliano ma palestinese, rappresenta una violazione della legalità internazionale, oltre a comportare svariate e gravi lesioni dei diritti dei palestinesi, a livello personale e comunitario. Allegra Pacheco, di Ocha Opt, ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari nei Territori palestinesi occupati, ha delineato un quadro preoccupante dell’impatto umanitario che la barriera sta avendo ed avrà, qualora venisse completata nella forma prevista. Inoltre ha chiarito che il progetto si colloca nel contesto di un più ampio "regime di chiusura" imposto ai Territori dalle autorità israeliane: dal 2000 Tsahal, l’esercito israeliano, ha eretto circa 700 tra posti di blocco e barriere fisiche all’interno della Cisgiordania, per frazionare e controllare più agevolmente la mobilità dei palestinesi, ma compromettendone irrimediabilmente la quotidianità. Alle molte domande sull’azione concreta dell’Onu, Pacheco ha risposto che fa ciò che gli stati membri decidono che faccia, sottolineando l’importanza della pressione sui governi nazionali perché si mobilitino nella fase odierna, in cui gran parte della barriera è ancora un progetto sulla carta. Ocha ha fornito un interessante rapporto sull’impatto del muro su Betlemme, la cui continuità territoriale con Gerusalemme è già interrotta. "Stop the Wall", campagna popolare palestinese contro il "muro dell’apartheid", era rappresentata da Ahmad Maslamani e Maren Karlitzky, coordinatrice europea. Il movimento rappresenta non già il livello politico, ma piuttosto la società civile palestinese, e ha affermato con forza che è inaccettabile che il mondo si limiti a offrire denaro e aiuti ai palestinesi, quasi a comprarne il silenzio... Una violazione tanto grave della legalità internazionale rischia di compromettere definitivamente le possibilità di pace: Karlitzky ha parlato della necessità di sostenere un’azione non violenta di opposizione al muro, citando in particolare le posizioni inequivocabili dal Consiglio ecumenico delle chiese, che ha invitato a forme di disinvestimento nei confronti delle realtà israeliane che non prendessero le distanze dall’opera. Ta’ayush, movimento pacifista araboebraico in Israele, ha infine presentato, per voce di Einat Podjarny, il proprio lavoro di condivisione della resistenza nonviolenta delle comunità di base palestinesi contro la barriera, sottolineando la repressione spesso violenta che il governo israeliano esercita nei confronti del dissenso, anche quando esso viene espresso in modo pacifico e democratico da cittadini israeliani. Accanto a Podjarny sedeva uno dei partner più importanti di Ta’ayush, Ayed Morrer, leader della comunità del villaggio di Budros, a nord di Ramallah. Morrer ha parlato della difficoltà delle comunità locali che si vedono confiscare terre, acqua e risorse, o dividere in due il villaggio a fare sentire la propria voce persino alla stessa Autorità nazionale palestinese, quasi che a Ramallah si fosse convinti che sottrarsi al muro è impossibile. «Non è il nostro destino: possiamo farcela!», è lo slogan che Budros ha scelto per la propria battaglia quotidiana contro la barriera, fatta di dimostrazioni e ricorsi ai tribunali israeliani. Una battaglia che ha già ottenuto una vittoria contro l’apparente ineluttabilità del muro: grazie all’impegno attivo e compatto della comunità, Israele ha rivisto i propri piani per l’area e ha infine deciso di spostare la barriera, all’altezza del villaggio, lungo il tracciato della Linea verde. Come dire che è ancora possibile fare molto. Anche se non resta molto tempo. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta a scrivere alla redazione de Il Cittadino per espremire la propria opinione. cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail pronta per essere compilata e spedita.