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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - Libero Rassegna Stampa
26.07.2005 Vittime del terrorismo: il Papa non menziona Israele
i commenti di Pierluigi Battista e Iuri Maria Prado, un'intervista a Sergio Minerbi

Testata:Corriere della Sera - Libero
Autore: Pierluigi Battista - Iuri Maria Prado - Mara Gergolet
Titolo: «Le vittime cancellate - Gaffe più grave perché di un tedesco»
Il CORRIERE DELLA SERA di martedì 26 luglio 2005 pubblica in prima pagina un editoriale di Pierluigi Battista sul mancato riferimento a Israele come paese vittima del terrorismo da parte Papa durante l'Angelus di domenica 24 luglio.

Ecco il testo:

Certamente non è stata un’omissione voluta, una negligenza deliberata e carica di significati negativi. Se nel suo Angelus di domenica scorsa Benedetto XVI non ha incluso Israele nell’elenco dei Paesi (Egitto e Turchia, Iraq e Gran Bretagna) esplicitamente menzionati come vittime degli attacchi terroristici degli ultimi giorni, si sarà sicuramente trattato di una banale dimenticanza, di un veniale errore diplomatico. Però è comprensibile che il governo di Gerusalemme abbia convocato il Nunzio apostolico in segno di protesta per la cancellazione dello Stato di Israele dall’elenco di chi patisce, tra lutti infiniti, le aggressioni terroristiche di un nemico che fa della strage degli innocenti la propria arma, seminando il panico non su obiettivi militari, ma tra la gente normale intenta nelle occupazioni della vita ordinaria.

Israele protesta ancora una volta contro un doppio standard morale e interpretativo. Quello che impedisce a molti, a troppi, di riconoscere nel terrore in grado di colpire la metropolitana di Londra come le stazioni di Madrid, le spiagge di Sharm el Sheikh come le strade di Istanbul lo stesso identico terrore che da anni affligge gli inermi cittadini israeliani: non i soldati impegnati in attività di guerra ma i civili che ogni giorno a Gerusalemme e a Tel Aviv salgono sull’autobus per andare a scuola, vanno al ristorante con gli amici, frequentano discoteche e luoghi di ritrovo come in una qualunque città minacciata dalla guerra del fondamentalismo islamista. Per i cittadini di Israele, però, la pietà dell’opinione pubblica mondiale sbiadisce e addirittura si dimezza. Forse, si mormora, i civili israeliani che saltano in aria quando i kamikaze si fanno esplodere «se la sono andata a cercare» (del resto, non è stata detta la stessa cosa per gli americani dopo l’11 settembre?). Come se per Israele non valesse l’orrore generato dalla guerra asimmetrica scatenata dai terroristi.

A Israele l’opinione pubblica internazionale stenta a riconoscere il risultato della riduzione di quasi l’ottanta per cento degli attentati terroristici da quando è cominciata la costruzione della barriera difensiva. Anzi, non si è affievolita la polemica contro la costruzione di quello che viene impropriamente definito un «muro» per evocare grotteschi paragoni con il muro di Berlino, eretto, è bene ricordarlo per chi si dimostra prigioniero del pregiudizio, per impedire l’uscita dei tedeschi dell’Est, non già per far da filtro all’ingresso di kamikaze intenzionati a uccidere il maggior numero di cittadini innocenti. Non viene adeguatamente riconosciuto nemmeno lo sforzo del governo di Sharon di procedere alla demolizione degli insediamenti dei coloni in terra palestinese.

Nell’oblio collettivo, allo Stato di Israele si fa fatica addirittura a riconoscere lo status di vittima di un terrorismo che, proprio come quello che compie i suoi massacri nei simboli della quotidianità occidentale, non si prefigge uno specifico e circoscritto e negoziabile obiettivo politico ma la distruzione esistenziale della stessa presenza ebraica organizzata in uno Stato. Una dimenticanza collettiva che è l’ultimo schiaffo morale alle vittime del terrorismo. L’omissione di Papa Ratzinger non ha certo il senso di un gesto aggressivo, come del resto ha chiarito il portavoce vaticano Joaquín Navarro Valls. Ma davvero lo Stato di Israele non può essere accusato di un eccesso di suscettibilità.
LIBERO pubblica in prima pagina il commento di Iuri Maria Prado: "Gaffe più grave perché di un tedesco":
Se faccio l'elenco dei Paesi aggrediti dal terrorismo fondamentalista, e dimentico Israele, mi rendo responsabile di un'omissione speciale e carica di significato. Speciale non soltanto perché Israele, gli israeliani e gli ebrei sono attaccati praticamente senza tregua, ma soprattutto perché essi rappresentano i destinatari tragicamente "privilegiati" dei propositi di annientamento stragista che il terrorismo rivendica apertamente. Ma si tratterebbe poi di una dimenticanza di grave significato perché entrerebbe in modo perfetto nel quadro storico, e drammaticamente attuale, di giustificazione, di discriminazione assolutoria, in cui sempre o quasi finisce il male inflitto agli ebrei in quanto ebrei. Se il Papa, dunque, quando diffonde il suo verbo di dolore per i Paesi che sono colpiti dal terrorismo, omette di citare Israele, non incorre semplicemente in un errore di contabilità politico-geografica. Piuttosto, offre un'importante conferma del fatto che un certo "clima" culturale è purtroppo diffuso, e non merita meditazione: che cioè non faccia scandalo anche solo l'ipotesi che gli israeliani e gli ebrei siano, in quanto tali e ancora oggi, dopo lo sterminio del secolo scorso, aggrediti. E se si trattasse solo di un'ipotesi sarebbe già terribile: ma si tratta invece di una sanguinosa realtà, e all'inesausta attività di organizzazione e messa in opera degli attentati contro Israele e contro gli ebrei si accompagna una ineguagliata letteratura apologetica e rivendicazionista, che rende appunto "speciale" quella violenza sistematica. Non è una buona ragione, magari, per dedicare a Israele e agli ebrei un'attenzione privilegiata (ma davvero non lo è?): dovrebbe essere sufficiente, tuttavia, per imporsi con rigore di non incorrere in simili dimenticanze. Il pericolo, altrimenti, è anche per l'autorità della Chiesa e del Papa, i quali avrebbero forse un interesse addirittura proprio a non rappresentare in nessun modo, nemmeno lontanamente, una realtà di silente giustificazione delle pretese ragioni antiisraeliane e antiebraiche del terrorismo. Avere un Papa il cui privato e intimo orrore per la strage degli ebrei è "presunto" (in ogni caso, non da parte del terrorista) rappresenta cosa ben diversa rispetto a un Papa che lo manifesta e comunica. Avere un Papa che "fa mostra" di non accettare nemmeno l'idea che Israele e gli ebrei siano attaccati, rappresenterebbe un'arma di delegittimazione micidiale dell'apparato ideologico che rinforza il terrorismo, e non solo quello antiebraico. Purtroppo il Papa ha deciso, quanto meno in questa occasione, di non rappresentare quello strumento di utile (e diremmo dovuto) contrasto morale. Le proteste del governo israeliano, opportunamente, si rivolgono a sollecitare attenzione su questo aspetto: nel non citare Israele, il Papa - certamente in modo involontario - ha offerto un'occasione ai tanti che vorrebbero escludere Israele e gli israeliani dalle ragioni e iniziative di protezione antiterroristica; ha offerto - a chi ha voglia di riproporla, e sono in tanti - l'idea che di Israele, degli israeliani e degli ebrei, e del male che ingiustamente li affligge, ci si possa dimenticare. E con tutto il rispetto dovuto, occorre poi far menzione di una circostanza particolare a questo Papa. Un fatto che lo riguarda personalmente, per quanto - diciamo così - incolpevolmente: è tedesco. E ricordare Israele, per un tedesco, costituisce o almeno dovrebbe costituire una questione irrinunciabile.
Il CORRIERE DELLA SERA pubblica anche,a pagina 9, un'intervista di Mara Gergolet a Sergio Minerbi, studioso dei rapporti tra Israele e Vaticano, "Ma Ratzinger ci è più vicino della sua curia":
«Israele protesta con il Vaticano? E io dico che era ora». Sergio Minerbi, già ambasciatore israeliano a Bruxelles, ora docente all'Università ebraica di Gerusalemme, uno dei più acuti studiosi dei rapporti tra lo Stato ebraico e il Vaticano, non fa concessioni alla diplomazia.
Eppure, il Pontificato di Giovanni Paolo ha segnato l'apertura della Chiesa all'ebraismo. Così come c'è stata la visita del Papa a Gerusalemme, in Israele.
«Giovanni Paolo II nella sua "storica apertura" si è riferito agli ebrei come ai "fratelli maggiori".
Contrariamente a molte altre opinioni, rispettabilissime, io credo che i suoi gesti vadano letti con meno enfasi. Chiunque conosca San Paolo, sa cosa significa la frase "fratelli maggiori". Infatti, per il centenario della sinagoga di Roma, l'ha sostituita con "fratelli prediletti"».
E riguardo a Israele?
«No, qui credo che sia cambiato poco. Basti ricordare l'assedio alla natività di Betlemme, nell'aprile 2002. Di fronte a 200 miliziani palestinesi che hanno profanato il luogo sacro, la Santa Sede se l'è presa con gli israeliani che hanno sparato contro le mura.
Avvallando una serie di bugie, come il fatto che i soldati avessero ucciso un prete. Ecco, di fronte a una così profonda incomprensione, io credo che si sia poca possibilità di dialogo. E, nonostante gli sforzi del nunzio a Gerusalemme per migliorare le relazioni, occorre dire che l'atteggiamento della Chiesa è sempre stato parziale e propalestinese, soprattutto sulla questione di Gerusalemme. La politica del Vaticano è questa, Ratzinger la conosce bene e non mi risulta che sia cambiato il segretario di Stato (Sodano, ndr) ».
Eppure, l'elezione di Ratzinger è stata salutata «con speranza» dal vostro ministro degli Esteri, Shalom. Sharon ha invitato Benedetto XVI in Israele, che ha risposto di considerare il viaggio "una priorità". Tutto già compromesso?
«Gli israeliani hanno grandi doti di speranza.
Hanno sperato in Wojtyla, sperano in Ratzinger. Che, personalmente, non mi dispiace. Credo che non farà gesti televisivi, ma sarà più lineare e trasparente. Rispetto a Wojtyla, l'atteggiamento nei confronti dell'Islam è più netto: di più decisa resistenza agli attacchi islamici. E qui c'è terreno comune con Israele. Anzi, credo che Ratzinger sarà un punto di riferimento anche per l'Europa».
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