Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
I cristiani sono nel mirino del terrorismo e delle tirannie islamiche lo spiegano Michael Horowitz, Giulio Meotti e Carlo Panella
Testata:Il Foglio Autore: Giulio Meotti - Carlo Panella Titolo: «Sveglaiti Europa - Perché quelli di al Qaida sono attacchi "anticristiani"»
A pagina 2 dell'insertoIL FOGLIO di giovedì 21 luglio 2005 pubblica un articolo di Giulio Meotti su Michael Horowitz, filosofo ebreo americano impegnato nella difesa dei cristiani perseguitati.
Ecco il testo: Nel 1997 un magazine battista incluse Michael Horowitz fra i dieci più importanti cristiani al mondo, assieme a Madre Teresa e Bill Graham. Solo che Horowitz è ebreo. Però aveva mosso oltre 10.000 chiese americane nel denunciare le condizioni dei cristiani nel blocco comunista e nei regimi arabi. Ha criticato il Dipartimento di Stato che considera eroi soltanto i giovani davanti ai tank in piazza Tienammen, dimenticando i montagnard e i cattolici clandestini di Pechino. E’ stato il collante fra l’Anti-Defamation League e la National Association of Evangelicals, un ponte verso il mondo di Jim Dobson a Colorado Springs. Ha fatto pressioni per la svolta di Bush sul Sudan. Di lui Charles Colson, collaboratore di Nixon e tra i più influenti "rinati alla fede", ha detto: "Dio ha mandato questo ebreo nel mondo per i gentili". La mattina dell’11 settembre, Horowitz era nell’ufficio di Sam Brownback per i fondi agli oppositori di Kim Il Sung. Nel 1998, insieme con Eliott Abrams, ha fatto pressioni su Bill Clinton per l’International Religious Freedom Act. Da quando nel 1995 sul Wall Street Journal ha denunciato le persecuzioni islamiche, Horowitz sta ricevendo continue minacce dai musulmani. Veterano dell’Amministrazione Reagan, è poi diventato direttore dell’Hudson Institute, uno dei più influenti think tank fondato da Norman Podhoretz. Al Foglio, Horowitz spiega che è in corso "una battaglia contro l’anima dell’islam fascista. Quando guidavo il movimento americano sulle persecuzioni dei cristiani nel mondo islamico, le maggiori figure della comunità musulmana mi avvertirono che la mia vita era in pericolo. Dobbiamo continuare la guerra senza quartiere ai radicali, ai terroristi e ai fondamentalisti, al fascismo islamico schierato contro la nostra democrazia e modernità. Ma non sarei qui a parlare con lei se qualche musulmano non mi avesse informato delle minacce che mi venivano rivolte. Forse non esiste un islam ‘moderato’ come lo intendiamo noi. Chiamiamola decenza, di cui l’Indonesia è un esempio, calpestata dai regimi fascisti che dobbiamo riformare o abbattere. Bush, che è stato più grande di Reagan, lo sa molto bene". Al Wall Street Journal ha detto che era un bene che la politica estera americana subisse un’impronta "evangelica", è salutare alla politica un po’ di messianismo laico. Ha individuato 45 autocrazie da riformare entro il 2025. "Per un ebreo il silenzio non è un’opzione". Secondo Horowitz diventerà centrale, prima dell’Iran, la questione saudita: "E’ la fonte del dominio islamico fascista, finanzia il terrore, sforna terroristi e attira il fanatismo rivendicativo dei musulmani totalitari". Sull’Europa non si fa illusioni: "E’ appesantita sulla guerra al terrorismo, ha dialogato con chi non doveva e ha sostenuto i fascisti islamici. Non ha rispetto per i suoi valori, è come se vivesse negli eterni anni Sessanta, radicalismo anticattolico, pacifismo negligente e mancanza di visioni politiche che possano riformare il medio oriente. E’ impotente e le manca ogni virtù della propria cultura e tratta l’islam con patronale indifferenza. In Europa il sangue dell’11 settembre, se mai è stato fresco per un solo minuto, ormai è stato del tutto lavato. Sarà in grado di chiamare guerra la sua risposta a chi ha fatto 200 morti a Madrid e distrutto decine di altre vite a Londra?". "Dobbiamo rilanciare i dissidenti come Ganji" Pim Fortuyn, Theo van Gogh, King’s Cross, il multiculturalismo è fallito, serve una nuova moralità nel confronto con l’islam: "Mio padre è nato in Polonia, io stesso avevo pochissimi amici da piccolo, nessun italiano o irlandese. Aveva un’insegnante che parlava un inglese senza accento. Ha avuto grandi difficoltà nell’adottare i principi e i valori americani. Ma ce l’ha fatta e le cose fra ebrei e cristiani da allora sono cambiate. Del multiculturalismo europeo resta soltanto il ghetto francese, dove ha presa la parola obliqua e ambigua di Tariq Ramadan". La risposta al terrorismo deve essere militare, etica e culturale. "L’occidente deve smetterla di chiedere scusa al mondo islamico, deve essere orgoglioso di quello che è e deve essere pronto a difenderlo. La democrazia non si tutela da sola. E’ vero però che quella militare non può essere la strategia permanente. Reagan è stato grande in questo, come Blair e Aznar. La guerra al terrorismo può essere vinta soltanto se ogni cristiano si sente ebreo e se ogni ebreo si sente cristiano. Siamo noi gli obiettivi dell’odio islamico fascista. Per questo ero preoccupato che l’Amministrazione Bush fosse guidata dai realisti". La vittoria sul terrorismo passa dal nodo gordiano dei cristiani: "Sono come gli ebrei negli anni Trenta. Come Hitler riuscì a perseguitare milioni di ebrei soggiogando anche tutti gli altri, così nei regimi arabi fascisti i cristiani sono vittime al fianco dei musulmani che non possono affacciarsi alla democrazia con la pistola alla testa dei terroristi fanatici. Dobbiamo rilanciare i dissidenti, come l’iraniano Ganji a cui Bush ha dato grande risalto". Le comunità cristiane sono una fonte di democrazia e modernità all’interno del mondo islamico, una sorta di anticorpo. "La speranza di milioni di musulmani in Pakistan, Indonesia, Egitto, Sudan, Iran e Iraq, e di altri milioni di cristiani in Cina, Corea del Nord e Laos dipende solo dagli Stati Uniti". Ha gioito quando Bush ha incluso Pyongyang nell’"asse del male". Perché mancano all’appello più di 300.000 cristiani. Giulio Meotti Carlo Panella, sempre a pagina 2 dell'inserto, spiega "Perché quelli di al Qaida sono attacchi "anticristiani" ": Da anni, da prima dell’11/9, tutte le tv del mondo mandano in onda uno "spot" di al Qaida che dimostra la vocazione anticristiana del terrorismo islamico. E’ un servizio sull’addestramento dei mujaheddin identico nella sua struttura a quelli delle forze di polizia. Si vedono mujaheddin incappucciati che marciano, che combattono a mani nude, che pendono da sbarre ginniche. Si vede anche il classico artefatto di tutti gli spot di tutte le polizie del mondo: l’irruzione armata in una casa. L’incappucciato calcia il portone mentre i due suoi colleghi si appiattiscono a fianco degli stipiti, le identiche movenze, gli stessi gesti sincopati per entrare poi in una stanza dalla porta chiusa, infine gli spari. La differenza con gli altri filmati – mille volte abbiamo visto questa scena a illustrare azioni antimafia – è l’obiettivo finale contro cui gli incappucciati sparano. Non è un qualsiasi bersaglio: è una croce, una riconoscibile croce latina, una croce cristiana. I militanti di al Qaida si allenano – e ci tengono a farlo sapere – sparando a croci cristiane. Non è malignità sospettare che il gesto blasfemo non sia stato spiegato agli spettatori di tutto il mondo in omaggio a una visione "politically correct". Il vero problema, però, è che questo odio per la croce, non è solo di al Qaida, non è legato solo all’odio per i "crociati" di cui è infarcita la fatwa del 1998 di Osama bin Laden che lancia il Jihad. Il problema vero è che l’odio per i cristiani, odio religioso, politico, radicale, è uno dei tanti fondamentali ponti teologici che collegano una parte dell’islam cosiddetto moderato al terrorismo islamico. Il problema vero è che questo odio anticristiano – come quello antiebraico – è uno dei tanti veicoli dell’ampio consenso che il terrorismo islamico riscontra nella umma musulmana. La polemica sulla scomparsa della definizione quale "anticristiani" degli attentati di Londra, nelle due prime versioni del comunicato del pontefice, è chiusa e vale quel che la Santa Sede, in particolare il cardinale Angelo Sodano, ha chiarito al riguardo. Ma basta seguire il dibattito interno all’episcopato che agisce nelle aree a egemonia musulmana per rendersi conto che oggi la Chiesa è cosciente che sta montando in una parte non marginale del mondo dell’islam, non fra i terroristi, ma nella normale predicazione musulmana, soprattutto in Asia, un atteggiamento anticristiano. Basta seguire la cronaca – a proposito di scontro di civiltà – per accorgersi che il 23 aprile scorso 40 cristiani pachistani – lavoratori immigrati, donne e bambini – sono stati schiaffati in prigione a Riad dopo un’irruzione della polizia saudita nella sala in cui stavano celebrando messa. Una notizia da prima pagina, ignorata dalla stampa, che dà per scontato il diritto dell’Arabia Saudita di incarcerare chiunque osi celebrare messa, voglia indossare un crocefisso al collo, preghi Cristo, anche nel chiuso della sua abitazione (il culto cristiano è tollerato in Arabia Saudita solo nelle ambasciate e nei locali che godono di extraterritorialità). Basta ricordarsi che nel 1984 gli avvocati musulmani del Pakistan scioperarono per protestare contro la "blasphemy law" emanata dal governo di Zia ul Haq, in base alla quale può, ancora oggi, essere arrestato chiunque affermi in pubblico – fuori dal luogo di culto – che "Cristo è figlio di Dio", per il reato di shirk, il più grave dell’islam: il politeismo. Basta ricordarsi – lo fa solo l’agenzia Fides – il suicidio con un colpo di pistola in bocca del vescovo di Faisalabad, Pakistan, John Joseph, avvenuto il 7 maggio 1998 davanti al tribunale che aveva condannato a morte il cristiano Ayub Maish. Condanna emessa sulla base della "blasphemy law", per chi "insulti, ridicolizzi o dissacri prestigiose figure religiose". Il cristiano condannato (in seguito allo scandalo del suicidio del vescovo la pena è stata commutata in ergastolo) aveva osato criticare la fatwa di Khomeini che incitava a uccidere Salman Rushdie. Basta leggere le parole pronunciate in Vaticano, in apertura del sinodo dei vescovi dell’Asia, il 28 aprile 1998, pochi giorni prima di questo suicidio, da Joseph Coutts, vescovo pachistano di Hyderabad: "Se da un lato occorre continuare il dialogo con l’islam, in uno spirito d’amore e comprensione cristiani, dall’altro non dobbiamo aver paura di parlare apertamente e di condannare la crescente marea dell’islam intollerante, militante e oppressivo, I mujaheddin di bin Laden, nel loro filmato "promozionale", si addestrano a sparare contro una croce latina, una croce oppressivo, che sta facendo soffrire le Chiese asiatiche. L’atteggiamento predominante nei paesi islamici è quello di considerare i cristiani dei "dhimmi", dei soggiogati, dei traditori. L’islam non può e non deve essere messo nelle stessa categoria dell’induismo, del buddismo, dello shintoismo. L’islam è molto differente. E’ una forza politico-religiosa con tendenze espansionistiche, che hanno conseguenze gravi per la Chiesa cattolica in Asia. C’è una crescente militanza e intolleranza da parte dell’islam". Basta pensare alle decine di cristiani uccisi e alle centinaia di feriti negli attentati contro chiese e scuole religiose in Pakistan dal 2001 a oggi a Bahawalpur, Slanpinagor, Quetta, Islamabad, Murree, Maxila, Karachi, Chuyyanwali. Basta ricordare che decine di musulmani che si sono convertiti al cristianesimo copto stanno marcendo nelle prigioni del moderato Egitto, accusati di apostasia, per aver infranto il divieto coranico di lasciare l’islam. Il terrorismo anticristiano di al Qaida, dunque, s’innesca su un islam anticristiano che si sta espandendo in molti paesi musulmani, su piani diversi, non solo del terrore armato, ma anche e soprattutto del terrore civile, della persecuzione giudiziaria, dell’intimidazione, del divieto a praticare la fede cristiana. Non solo da parte di organizzazioni, ma addirittura di Stati. Fenomeni legati l’uno all’altro, tutti e due dipendenti dalla medesima matrice teologica, che risale al teologo del XIII° secolo Ibn Taymmyya e alla sua influenza sul più vivace ed espansivo islam sunnita contemporaneo, quello wahabita – o salafita – dell’Arabia Saudita. Chi cerca oggi – per ozioso vizio complottista – un Grande vecchio del terrorismo islamico, e del fondamentalismo che lo nutre, deve solo accontentarsi di guardare a questo filosofo di 700 anni fa, perché è lui il principale ispiratore di Abd Al Wahab, nato nel 1703 in un’oasi del Neged e morto nel 1792, fondatore della setta musulmana che nel 1744 Muhammad Ibn Saud incrocia con i destini della sua dinastia. Una setta dogmatica, quella dei wahabiti – o meglio, salafiti – priva di grande spessore culturale, senza figure di rilievo teologico, ai margini del dibattito religioso musulmano, su cui però, per capriccio della storia, si riversa a partire dal 1939 e poi a cascata dal 1973 la manna dei miliardi dei petrodollari dell’oro nero saudita. Il proselitismo saudita diventa parossistico nella seconda metà del 900. Si parla di 15 mila nuove moschee wahabite fondate nel mondo, si verifica la penetrazione del wahabismo in Pakistan, India, Afghanistan (i Talebani sono wahabiti come Osama bin Laden e al Zarqawi), Palestina, Sudan, Somalia, Cecenia e in Europa. Non solo in Albania e Bosnia, ma anche nel Londonistan e in tutte le metropoli. Tra i tratti fondamentali del wahabismo vi è anche l’iconoclastia, l’odio per le immagini dei santi, del Cristo e della Madonna, così come degli imam sciiti, loro nemici mortali (da qui le stragi di sciiti organizzate da Zarqawi in Iraq e da al Qaida in Pakistan e Afghanistan). Lo straordinario proselitismo wahabita allarga a macchia d’olio la componente anticristiana – e antiebraica – di tanta parte dell’islam contemporaneo, rafforzata da un dato storico: la proibizione di Omar, secondo califfo succeduto a Maometto, di esercitare altri culti nella penisola arabica. Interdizione inizialmente limitata all’Hjaz – il regno in cui si trovano la Mecca e la Medina – e poi estesa dal 1932 da Abdulaziz ibn Saud in tutto il nuovo regno: l’Arabia Saudita. L’insegnamento di ibn Taymmiyya (ispiratore non solo del wahabismo, ma anche di tutto il fondamentalismo sunnita, inclusi i Fratelli musulmani) ripropone la necessità del ritorno a un’osservazione meccanica, fedele, concreta della sharia, della legislazione coranica quale è stata codificata dalla scuola hanbalita, la più formale, dogmatica, prescrittiva. Ibn Taymmiyya ritiene che sia
indispensabile alzare il livello di attenzione della umma nei confronti della apostasia, impedire che i nemici della fede, cristiani ed ebrei, i dhimmi (costretti nella società musulmana classica, fino al 1839, a pagare una "tassa di sottomissione", la jiza), si possano introdurre nella comunità dell’islam. Ibn Taymmiyya dà concreta ed entusiasta forma a questa indicazione e si impegna in una campagna per ottenere la condanna a morte di un cristiano accusato di apostasia. Ma scrive le sue pagine più resistenti all’usura del tempo là dove – sempre attraverso la chiave di lettura dell’apostasia – tenta di ricomporre la coscienza del musulmano nel suo compito, nel suo alveo primario: il rifiuto della società dominata dagli idoli che ha mosso la coscienza di Maometto e l’ha fatta degna della fiducia della voce di Dio. Il rifiuto del governo idolatrico mascherato da finto governo musulmano, la ricerca dell’apostasia nella finta ortodossia musulmana (l’ambasciatore egiziano sgozzato recentemente in Iraq è definito "apostata" dai suoi assassini, come Sadat, ucciso nel 1981), queste sono le ossessioni di ibn Taymmiyya, che in questo "peccato" cerca la spiegazione dell’inspiegabile tramonto dell’egemonia araba, definitivamente travolta nel 1258 dall’invasione mongola. Ibn Taymmiyya diventa così il teorico della rivolta del musulmano contro il "finto governo musulmano", che in realtà è il governo del "faraone", infestato dai cristiani e dagli ebrei mosaici. Il suo violento odio contro i dhimmi cristiani ed ebrei, la sua contrarietà non solo alla costruzione, ma addirittura alla manutenzione di chiese e sinagoghe traspaiono già dai titoli di alcune sue opere: "Il Libro della Risposta ai cristiani", "Il problema delle Chiese", "La Vera Risposta a colui che cambiò la religione del Cristo", "La vergogna delle genti del Vangelo", "Allontanarsi dai popoli della Geenna". Le persecuzioni degli ultimi anni dei cristiani in Pakistan, così come l’ideologia portante di Osama bin Laden, di al Qaida e dei Talebani (che abbatterono le statue di Budda in omaggio all’iconoclastia wahabita) non possono essere comprese se non si conosce l’influenza che ha sulle madrasse pachistane, sulla concezione dell’islam radicata negli anni 80 e 90 in Pakistan e Afghanistan da un altro seguace di ibn Taymmiyya – non wahabita – Abu Ala al Mawdudi, che col suo movimento Jamaa e Islami punta a una esplicita, rivendicata, sottomissione dei cristiani e degli ebrei ai musulmani, secondo il modello della dhimma, della "cittadinanza di seconda classe", che sempre il secondo califfo, Omar, canonizzò a partire dal 640 d.C., otto anni dopo la morte di Maometto. Youssef M. Choueiri, eccellente islamista, così riassume la concezione dello Stato dell’ideologo del Pakistan contemporaneo (il dittatore Zia ul Haq riformò dall’alto dopo il 1978 il Pakistan, secondo le sue direttive integraliste; una sorta di rivoluzione khomeinista elitaria): "Secondo al Mawdudi il pluralismo politico e l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge sono contrari all’essenza stessa dell’islam. Lo Stato islamico è innanzitutto un’entità ideologica; solo coloro che aderiscono ai suoi principi dottrinali possono essere considerati cittadini di prima classe. A tutti gli altri, fintanto che restano ‘leali e obbedienti’, sono riconosciuti diritti particolari di cittadini di seconda classe. In uno Stato islamico vivono fianco a fianco due categorie di cittadini: i musulmani e i non musulmani (dhimmi). I posti chiave dello Stato, siano essi legislativi, esecutivi giudiziari o militari, sono appannaggio esclusivo della prima categoria. (…) I non musulmani godono della protezione dello Stato purché paghino una speciale tassa detta ‘jiza’. Questa tassa è allo stesso tempo espressione di lealtà politica e una forma di monetizzazione per l’esenzione dal servizio militare. Da un lato dunque le distinzioni di razza, colore, nazionalità, territorio e lingua sono giudicate barbare e pagane, dall’altro la classificazione dei cittadini in due classi è esaltata come ‘la soluzione più giusta per consentire la coesistenza fra musulmani e chi è estraneo alla religione di Allah’". Nonostante decenni di dialogo interreligioso, dunque, si afferma sempre più in una parte non marginale della umma islamica, una visione egemonica, dittatoriale, anche nei confronti delle altre religioni del Libro, un ritorno alla dhimma medioevale, alla "sottomissione" delle religioni cristiana ed ebraica, riconosciute, ma tollerate solo in posizione di subordinazione. Un ritorno eccitato dalla frustrazione di un mondo musulmano che si crogiola nella autocommiserazione e nell’invidia per il progresso materiale e i successi politici degli odiati cristiani occidentali e ancor più dei vittoriosi ebrei israeliti. La dhimma si è imposta così di nuovo dal 1979 in poi in Iran, dopo la rivoluzione islamica, per via legislativa. Oltre alla censura a cui sono sottoposti tutti i libri di religione, che devono avere il "nulla osta" del ministero della Cultura, sono sbarrate ai non musulmani tutte le professioni che riguardano in qualche modo, anche in senso lato, l’assetto politico della pòlis musulmana (insegnante universitario, magistrato, dirigente dell’amministrazione pubblica, ufficiale). I nuovi dhimmi, infatti, per percorrerle, sono tenuti a superare un esame di teologia islamica talmente rigoroso che nessuno lo supera e che quindi funge per loro da diga assoluta. A queste, si sommano poi infinite discriminazioni amministrative nell’assegnazione di case popolari, avanzamenti di carriera e altro, con l’aggiunta di gravi discriminazioni nel diritto penale. Un esempio: l’omosessualità di un non musulmano può essere punita con la morte, quella di un musulmano può essere punita, al massimo, con un consistente numero di frustate. E’ noto il conflitto che ha prodotto in Sudan due milioni di morti (secondo Amnesty; secondo altre fonti 500 mila), da quando nell’83 è stata introdotta la sharia anche nel sud cristiano e animista che si è rivoltato. Sono recenti gli scontri interreligiosi nei 13 Stati del nord della Nigeria che hanno introdotto la sharia e che pretendono di imporla anche ai dhimmi cristiani. Meno noto è il peso crescente che ha sul fondamentalismo islamico l’insegnamento di Sayyd Qutb in campo sunnita e dell’ayatollah Fadlallah, leader di Hezbollah libanese, in campo sciita. Il primo arriva a ritenere necessario reintrodurre una tassa di sottomissione, naturalmente in forma moderna, e che – come in Iran – debbano essere interdette a cristiani ed ebrei (e zoroastriani) le responsabilità giudiziarie e quelle politiche di comando. Lo sheikh Mohammed Hussein Fadlallah – leader spirituale del potente Hezbollah libanese – è un po’ più sofisticato di Qutb e punta sull’umiliazione e sul "riconoscimento formale, espresso in pubblico, da parte dei cristiani e degli ebrei" della superiorità della religione musulmana. Per l’uno come è per l’altro, i libri che mettono in discussione i fondamenti dell’islam vanno proibiti. Il ruolo della Chiesa Questa è la radice, il sostrato cultural-religioso su cui si regge l’anticristianesimo – e l’antiebraismo – delle organizzazioni terroristiche musulmane. Sino a oggi le chiese cristiane hanno subito questa iniziativa. La scelta di Giovanni Paolo II, pur a fronte di denunce precise, specifiche, forti, come quelle avanzate nel sinodo dei vescovi asiatici del ’98, di fronte al martirio di tanti cristiani per mano musulmana – e non solo di terroristi – di fronte allo scandalo del suicidio di un suo vescovo per protestare contro la persecuzione dei cristiani in Pakistan, di fronte ai tanti morti cristiani della guerra civile e religiosa in Sudan (in cui indubbiamente erano presenti anche elementi diversi, etnici), è stata quella di smorzare i toni. La sua preoccupazione principale è stata di evitare ogni sovrapposizione tra l’iniziativa politica dell’occidente – incarnata prima nella guerra di liberazione del Kuwait voluta dall’Onu e poi in Iraqi Freedom voluta da George W. Bush – con quella della Chiesa cattolica. La volontà di Papa Wojtyla è stata dunque quella di fare di tutto, anche pagando costi alti, per impedire che l’ampia platea – moderata – dei musulmani, potesse pensare che la Chiesa si fa proteggere da Stati visti come "cristiani", anche se tali non sono più da secoli. Peggio ancora, dalle armi americane. Scelta, probabilmente, lungimirante. Ma, forse, il condizionale è d’obbligo – così come il più totale rispetto per una scelta difficile – dietro il piccolo giallo della definizione del comunicato della Santa Sede degli attentati di Londra come "anticristiani", poi ritirata e modificata, si cela il tormento di un drammatico ripensamento della strategia ecclesiale. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.