Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
L'attentato a Londra visto dall'America e da Israele le opportunità e gli errori dell'intelligence, la strategia antitotalitaria di Blair e Bush e gli errori di calcolo dei terroristi
Testata:Il Foglio - La Stampa Autore: Anna Barducci - Christian Rocca - Paolo Mastrolilli Titolo: «Visto da Israele - Visto dall'America - Combatterli a Baghdad non ci mette al riparo a casa»
IL FOGLIO di venerdì 8 luglio 2005 pubblica a pagina 1 dell'inserto l'articolo di Anna Barducci "Visto da Israele", che riportiamo: Roma. Quando si sente parlare di un attentato, di qualsiasi matrice sia, inevitabilmente si pensa a Israele. Lo Stato ebraico negli ultimi anni d’Intifada, e in tutta la sua storia di paese continuamente sotto attacco, ha dovuto sviluppare un servizio d’intelligence che potesse prevenire l’attuazione di attacchi terroristici nel paese. Le operazioni militari come Scudo di Difesa nei Territori, intrapresa nel marzo 2002 dopo che in un solo mese i gruppi armati avevano ucciso 120 persone, sono servite a evitare la morte di altri israeliani. Gli obiettivi civili sono il bersaglio più facile e colpire loro significa creare un forte impatto psicologico sulla popolazione. Gli attentati di Madrid provocarono un senso di timore tra gli spagnoli: invece che un desiderio di reazione forte, ci fu una voglia di ritrarsi dalla prima linea della guerra al terrorismo. In Israele, attacchi suicidi come quello in un bus del 19 agosto 2003 a Gerusalemme, con un bilancio di 22 morti e 135 feriti, rendono invece intransigenti sia la popolazione sia il governo a continuare la politica di difesa contro i gruppi armati. "Non si può comparare la situazione in Israele con l’attentato in Gran Bretagna – dice al Foglio Eli Karmon, analista all’International policy institute for counter- terrorism al Centro interdisciplinare di Herzliya – Non si può parlare nemmeno di un calo di tensione dello stato d’allerta delle forze dell’ordine inglesi. Non ci sono mai stati attentati di questo tipo nel paese, ma soltanto retate di arresti e qualche attacco sventato o fallito. Scotland Yard, secondo quanto riportato finora, era informata di un piano per un grande attacco terroristico, che avrebbe sconvolto il paese in questo periodo. Il Regno Unito però non è mai stato colpito direttamente come Israele. Il nostro esercito è continuamente sotto stato d’allerta, anche nei momenti di tregua, perché sappiamo che un attentato potrebbe scoppiare da un momento all’altro, nonostante non sempre sia possibile prevenirli tutti". I servizi non lavorano sul presente apparente Per Yigal Carmon, ex consigliere dell’anti- terrorismo per vari premier israeliani, colonnello dell’intelligence per venticinque anni e presidente del Middle east media research institute (Memri), è importante che i servizi d’informazione europei possano collaborare per prevenire gli attentati. "I servizi di sicurezza non lavorano sul presente apparente. Può essere anche un periodo di calma, ma questo non deve importare o influire sul loro operato. Il loro compito è di focalizzarsi sulle informazioni dell’intelligence o sulla loro mancanza. Quando si ricevono dati sicuri, allora si lavora, incentrandosi su di essi, quando sono generali si cerca di capire che linea seguire – dice Carmon – I mezzi di trasporto, come ci insegna la storia, sono i target preferiti per portare a termine stragi di massa. I media hanno riportato che le forze di sicurezza inglesi erano a conoscenza già da una settimana che un attentato poteva essere attuato. Quello che bisogna capire è quale tipo d’informazione avevano ricevuto. Se era generale o specifica e se permetteva di prendere misure di prevenzione o no. Una cosa importante è che i media inglesi non hanno ancora mostrato alcuna immagine dell’accaduto. Una politica giusta, che purtroppo Israele ha infranto da tempo. Quando avviene un attentato terroristico immediatamente le tv isrealiane si precipitano a riprendere e i giornalisti fanno domande alla polizia. Involontariamente, a volte, accade che gli ufficiali lascino trapelare informazioni. In questa occasione, l’intelligence britannica ha fallito. E’ quindi necessario non fare riprese né domande ai servizi di sicurezza e lasciare i terroristi nel buio. Non devono sapere se sono sulle loro tracce. Quando ero il consigliere per l’anti-terrorismo del primo ministro ci riunivamo ogni settimana per verificare le informazioni dell’intelligence. E poi coordinavamo con l’esercito, la polizia e le varie forze dell’ordine la risposta necessaria per reagire alla minaccia. Dividevamo l’intelligence in informazioni contro bersagli dentro il paese e target israeliani all’estero. A volte, avevamo sessioni ad hoc infrasettimanali. La posizione di consigliere per l’anti-terrorismo accanto alla figura del premier era stata creata per valutare i dati dell’intelligence e preparare una reazione nazionale militare adeguata". Negli Stati Uniti, l’incarico di principale consigliere dell’intelligence per il presidente è stato creato dall’Amministrazione Bush. L’attuale direttore dell’intelligence nazionale, John Negroponte, coordina quindici servizi informativi. L’Europa fino a oggi non ne ha ancora uno. Sempre a pagina 1 dell'inserto troviamo l'articolo di Christian Rocca "Visto dall'America", che riportiamo: Il Foglio ha chiesto ad alcuni analisti ed editorialisti americani, conservatori e liberal, di commentare l’attacco islamista a Londra e di provare a immaginare che cosa potrà accadere nel momento in cui il quadro sarà più chiaro. Quali possibili reazioni ci dovremmo aspettare dai britannici, se la strage indica un cambio di strategia dei terroristi e, infine, se cambierà la risposta occidentale al fondamentalismo islamico. Max Boot, editorialista del Los Angeles Times e studioso al Council on Foreign Relations, crede che non ci sia stato niente di particolarmente nuovo nella strategia terrorista a Londra. "Sembra tutto molto simile a quanto successo a Madrid". Secondo Boot, "i terroristi volevano fare qualcosa del genere da un bel po’ di tempo, ma sono sempre stati ostacolati dai servizi segreti. Eppure è inevitabile che kamikaze così determinati prima o poi ci riescano. Nessuno può proteggere adeguatamente un grande sistema di trasporto pubblico come quello di Londra o di Madrid o di New York o di Roma". Quanto alle reazioni inglesi, Boot prevede "una predominante risposta simile a quella americana, vale a dire un raddoppio della determinazione a sconfiggere il terrorismo, a vincere in Iraq e a non cedere ai terroristi". Boot immagina anche "una minoranza in Gran Bretagna, e magari un po’ più di una minoranza nel resto d’Europa, che proverà a riproporre risposte centrate sull’appeasement, ovvero sulla pacificazione in cambio di qualche concessione. Purtroppo non c’è modo di scendere a patti con costoro, visto che il loro obiettivo è semplicemente quello di creare un califfato globale. Credo che ci dovremmo aspettare altri attacchi come questi negli Stati Uniti, in Danimarca e in Italia, cioè in quei paesi che si sono opposti al terrorismo. Il punto sarà capire se l’Europa riuscirà a gestire il rapporto con la sua minoranza musulmana interna. Fin qui la maggior parte dei paesi europei non ha preso misure di polizia interna sufficienti, come quelle necessarie a chiudere le moschee dove si predica la violenza. Sebbene in ritardo, ora immagino che ci sarà un giro di vite, ma gli europei dovranno trovare il modo di assimilare gli immigrati. Potranno imparare qualcosa dagli Stati Uniti, anche se non esiste un modo veloce, facile e sicuro per riuscirci". Paul Berman: leggete la rivendicazione Il saggista liberal Paul Berman, autore di "Terrore e Liberalismo" e del prossimo "Power and Idealists" (dove sostiene che la sinistra pronta a usare la forza per proteggere i diritti umani e sconfiggere il totalitarismo islamico è la vera erede dei radicali degli anni ’60) nota che "la rivendicazione dei terroristi ha descritto la strage come una risposta alle guerre in Iraq e in Afghanistan. Attenzione: non solo in Iraq, ma anche in Afghanistan. La stessa cosa dissero dopo Madrid. L’idea che l’Iraq e l’Afghanistan siano un’unica guerra è molto chiara a Bush, Blair e ai loro alleati. E’ chiara alle persone comuni come me ed è chiara alle cellule di al Qaida in Europa. Non è chiara soltanto a una parte dell’occidente. Immagino che, come successe dopo Madrid, una buona parte della gente dirà: ‘Avete visto? La guerra in Iraq è stata un errore’. E non diranno niente sull’Afghanistan". Un altro liberal come il sociologo Thomas Cushman, direttore del Journal of Human Rights e autore di "A matter of principle: humanitarian arguments for war in Iraq", crede che "gli inglesi, a differenza degli spagnoli, non cederanno. Sono abituati all’Ira e sanno che cosa fare. La strage contribuirà ad aumentare il sostegno per le misure forti che Blair deciderà di prendere. Gli altri europei invece continueranno a criticare le azioni americane. Preferiscono pestare sull’America, invece che combattere il terrorismo. Il problema è questo. Tanto più che il loro comportamento diventa la più importante strategia a disposizione di al Qaida. La sinistra continuerà a cercare ‘la causa’ del terrorismo e sosterrà la tesi che la guerra in Iraq ha creato più terroristi. Naturalmente la migliore risposta è quella di rafforzare l’attuale strategia e di non cedere ai ricatti dei difensori dei diritti civili, i quali continuano a non capire la situazione di sicurezza in cui viviamo e si preoccupano più dei diritti dei sospetti terroristi che delle carneficine di innocenti. Il problema principale della sinistra è di non capire che il potere e la forza devono essere usati per proteggere le società liberali. E che non sempre sono un male". Secondo Cushman, il fatto che i terroristi abbiano scelto di attaccare nel giorno in cui il G8 si riuniva per risolvere i problemi della povertà "dimostra che a loro non importa niente degli oppressi e dei deboli. A loro interessa soltanto destabilizzare le libertà e la società civile occidentale per instaurare la loro regressiva visione sociale". Christian Rocca A pagina 15 LA STAMPA pubblica un'intervista di Paolo Mastrolilli a Daniel Pipes, consigliere di Bush per il Medio Oriente, "Combatterli a Baghdad non ci mette al riparo a casa" ( va sottolineato che Pipes, comè chiaro dall'intervista, non ha il minimo dubbio sull'opportunità di combattere i terroristi islamisti anche a Baghdad)
Ecco il testo: Daniel Pipes è convinto che i terroristi non sanno cosa fanno: «Pensano di intimidire l’Occidente, ma otterrano l’effetto opposto». Il consigliere del presidente Bush per il Medio Oriente è impegnato in questa battaglia da anni, e cerca di spiegarsi la logica degli attentati di Londra: «È sempre difficile esaminare la strategia dei terroristi, perché partono da premesse sbagliate sulla nostra società. Non la conoscono, non capiscono la forza della democrazia, e quindi prendono iniziative che spesso portano al risultato opposto di quello auspicato. Nel caso dell’11 settembre, così come in quello di Madrid e degli altri attentati più sanguinosi, l’obiettivo era impaurire il pubblico e provocare un cambiamento nella politica dei governi. Forse gli attacchi di Londra hanno lo stesso scopo, ma non lo raggiungeranno. Quando gli Stati Uniti furono colpiti a New York e Washington, reagirono lanciando una guerra globale al terrorismo. Gli inglesi faranno lo stesso, rendendo impossibile all’estremismo islamico di operare sul loro territorio». Eppure gli attentati di Madrid ebbero un effetto sulle elezioni, e il governo socialista di Zapatero decise il ritiro dall’Iraq. «Io penso che anche quegli attacchi si sono ritorti contro chi li ha condotti. È vero che un migliaio di soldati spagnoli ha lasciato Baghdad, ma da quel momento in poi l’impegno di Madrid contro l’islam radicale si è moltiplicato. I terroristi, in sostanza, hanno guadagnato molto meno di quanto hanno perso. Lo stesso succederà nel caso di Londra». Chi ha organizzato gli attentati di ieri? «La teoria investigativa principale punta su una cellula locale. Al Qaeda si è decentralizzata, ormai ci sono estremisti in ogni paese occidentale pronti a colpire. Sono ispirati dall’ideologia di Osama bin Laden, ma non ricevono necessariamente ordini e aiuti da lui o dagli altri leader dell’organizzazione originaria. Questi gruppi colpiscono dove e quando possono». Lei non crede che ci sia un collegamento col vertice dei G8? «È molto probabile, ma non sicuro. L’attenzione del mondo era puntata su Gleneagles, e quindi aveva senso colpire in Gran Bretagna a scopi pubblicitari. Londra, però, era nel mirino da anni, e quindi i terroristi possono aver deciso di attaccare solo perché avevano la disponibilità per farlo. Di certo hanno riportato il focus sul problema, se questo era nel loro interesse». Gli investigatori dicono che non c’erano segnali sulla preparazione di questi attacchi, e il modo in cui sono stati organizzati li preoccupa, perché potrebbero aver coinvolto kamikaze. Quanto è alta la possibilità che si ripetano negli Stati Uniti? «I terroristi non hanno ancora attaccato il sistema dei trasporti in qualche grande città americana per due motivi: al momento non hanno la capacità di farlo, oppure non la considerano una buona idea. La prima tesi si basa sul fatto che dopo l’11 settembre le nostre difese sono migliorate, e quindi i nemici hanno più difficoltà a penetrarle. La seconda, invece, sottolinea che un simile attentato non sarebbe abbastanza clamoroso, rispetto all’11 settembre, e non raggiungerebbe gli effetti desiderati. Invece di piegare gli americani, infatti, li rafforzerebbe ancora di più nella loro reazione». Il presidente Bush dice che bisogna combattere i terroristi in Iraq, per non affrontarli sul territorio americano. Gli attentati di Londra, principale alleato di Washington, smentiscono questa teoria? «Io, in realtà, non l’ho mai condivisa. Noi siamo impegnati in una guerra globale, che riguarda tanto gli uomini di al Qaeda presenti a Baghdad, quanto quelli nel resto del mondo. In varie occasioni i terroristi hanno dimostrato di avere già abbastanza personale in Occidente, per colpire dove vogliono. Anzi, molti militanti stanno andando dall’Europa all’Iraq per aggredirci, invece del contrario. No, i terroristi sono già ovunque, e combatterli a Baghdad non ci garantirà dal fatto di doverli combattere ancora anche a New York». Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio e La Stampa. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.