Un filmato recuperato dall’esercito israeliano durante le operazioni nella Striscia di Gaza mostra sei ostaggi israeliani mentre cercano di accendere le candele della festa di Hanukkah in un tunnel con scarso ossigeno. I sei ostaggi sono Hersh Goldberg-Polin, 23 anni, Eden Yerushalmi, 24 anni, Ori Danino, 25 anni, Alex Lobanov, 32 anni, Carmel Gat, 40 anni, e Almog Sarusi, 27 anni. Il filmato risale al dicembre 2023. Otto mesi dopo, il 29 agosto 2024, all’approssimarsi delle Forze di Difesa israeliane al tunnel sotto il quartiere di Tel Sultan, a Rafah (Striscia di Gaza meridionale), tutti e sei gli ostaggi furono assassinati con un colpo alla testa dai terroristi palestinesi.
Condoleezza Rice parla di riforme in Arabia Saudita, l'Iran piomba in un clima di paura dopo le elezioni farsa la contrastata evoluzione democratica del Medio Oriente
Testata:Il Foglio Autore: un giornalista Titolo: «Il ciclone Condi irrompe negli affari interni dell’Arabia Saudita - Dopo il successo strategico di Khamenei, clima di paura in Iran»
IL FOGLIO di mercoledì 22 giugno pubblica una cronaca della visita di Condoleezza Rice in Arabia Saudita.
Eccone il testo: Roma. Armata del suo solido sorriso, a capo scoperto (nel paese in cui 15 ragazzine in fuga da una scuola in fiamme sono state fatte morire dalla polizia perché non esponessero i capelli), vestita del suo tailleur charmant, Condoleezza Rice, all’aeroporto di Riad, non ha risparmiato nessuna umiliazione al principe Abdullah. Il reggente dell’Arabia Saudita è stato così costretto a stringere la mano che lei gli ha porto, ingoffandosi in strane manovre col suo corpo non esile per nascondere l’onta alle telecamere, per celare ai sudditi il gesto proibito, tanto più con una donna di colore, una di quelle che nel suo regno vengono trattate da schiave. Ma la forma spregiudicata con cui la titolare del Dipartimento di Stato si è presentata a Riad non è nulla a confronto della sostanza: Condoleezza Rice infatti ha voluto farsi precedere in questa visita dall’enunciazione di una dottrina breve ed efficace che punta, apertamente, a una rivendicata "ingerenza" negli affari interni del paese alleato. Il discorso da lei pronunciato il giorno prima al Cairo è infatti ben più di uno slogan, di un’indicazione di fase, è l’enunciazione di una "dottrina" che rivoluziona la politica estera americana: "Per sessant’anni gli Stati Uniti hanno perseguito la stabilità nella regione a scapito della democrazia, non ottenendo né l’una né l’altra; ora stiamo sostenendo le aspirazioni democratiche di tutti". Una franca autocritica per l’aiuto dato ai regimi più autoritari e polizieschi del globo, un impietoso giudizio sul governo saudita giudicato assieme non democratico e non stabile (come infatti non è, in preda alle convulsioni di una faida dinastica che ingrossa il consenso per al Qaida). Là dove George W. Bush delinea strategie riformiste ad alto respiro, il suo più importante ministro le articola nel concreto con vigore (come ha già fatto, a muso duro, in Egitto con Mubarak). Impietosa, Rice ha detto: "Gli ottimi cittadini sauditi reclamano un governo che renda loro conto; primi passi sono stati intrapresi con le elezioni municipali, tuttavia molte persone continuano a pagare un prezzo ingiusto per l’esercizio dei loro diritti di base. Tre persone sono oggi imprigionate per aver presentato pacificamente una petizione al loro governo. Questo non deve accadere in nessun paese". Ben più di un auspicio, di una denuncia. Una analisi secca, sintetica, sul fallimento storico dell’alleanza degli Stati Uniti con i paesi arabi, uno schieramento netto (come già in Libano, in Ucraina, in Afghanistan, in Iraq) dalla parte delle aspettative dei cittadini e contro quelle dei regimi. Infine il caso concreto, i nomi dei tre "dissidenti" ingiustamente condannati il 15 maggio scorso, durante un processo a porte chiuse scorso per "reati" d’opinione, di cui Rice chiede la liberazione: Ali al-Demaïni, condannato a 9 anni, Abdallah al-Hamed a 7 anni e Matrouk al-Faleh a 6 anni. Il ministro dell’Interno, Najaf bin Abdulaziz, ha subito affermato che i tre sono stati giudicati secondo le leggi e il ministro saudita degli Esteri, Saud al Faysal, ha rigettato "l’ingerenza sulle riforme", sostenendo che quella sollevata da Rice è una querelle assolutamente futile perché "l’unico giudizio che conta per ogni paese che procede a riforme politiche è quello del proprio popolo, e questo è il nostro criterio". Ma il colpo è stato forte ed è stato incassato senza possibilità di reazione. L’Arabia Saudita deve oggi la sua sopravvivenza e il suo residuo di prestigio soltanto ai 9,5 milioni di barili al giorno che immette sul mercato mondiale del petrolio (su 27 totali); ma non ha più una politica estera, non conta nulla nel Golfo, non conta nulla in Iraq (dove i suoi cittadini, indisturbati alla frontiera, vanno ad allenarsi al Jihad terrorista, per poi tornare a combatterlo in casa), nulla in Palestina, ha soltanto un peso residuale in Libano. Condoleezza Rice, questa è la novità, sa che questo assetto non può durare, che un regime che non riesce neanche a permettere che le donne guidino da sole non può governare la modernità e spiega francamente al suo alleato che la condizione per contare ancora su Washington è una: riformarsi. Se no, sarà abbandonato al suo destino, o peggio. Sempre a pagina tre un'analisi sull'Iran dopo le elezioni farsa che hanno visto la vittoria del candidato ultrafondamentalista Ahmadinejad.
Ecco il testo: Roma. Ancora più sorprendente dell’ascesa del sindaco di Teheran, Mahmoud Ahmadinejad, è la facilità con cui alcuni commentatori hanno prestato fede alle cifre rilasciate dalla Repubblica islamica. Questo Iran – dicono – vuole l’atomica, il terrorismo, la distruzione d’Israele e le ragazze pon pon di Rafsanjani non rappresentano il paese reale. I vecchi clichés del ’79, però, convincono soltanto i nostalgici esegeti di passioni rivoluzionarie, non la nomenklatura di regime che si è rifatta il trucco. L’Iran non ha scelto né il kuseh Rafsanjani, né il torvo Ahmadinejad. Non è un mistero che quelle iraniane più che elezioni siano selezioni. Per tutti, ha scelto l’ayatollah Khamenei. La sorpresa del 17 giugno è stato lo schema vincente del leader supremo, che non aveva mai dato prova di simili talenti da stratega. Durante la campagna elettorale, i candidati hanno bussato alla sua porta e, a tutti, il successore di Khomeini ha prestato un occhio di riguardo. Ha ascoltato le ragioni dei pragmatici, che vogliono aprire i mercati e condurre la Repubblica islamica fin dentro i salotti buoni delle diplomazie occidentali, ha dato il suo imprimatur alla corsa dei militari e, al momento opportuno, non ha lesinato il suo aiuto ai riformisti umiliati dal Consiglio dei guardiani. La massima carica istituzionale iraniana ha tenuto la porta aperta a tutti, ma la sua "benevolenza" si è posata soltanto su Ahmadinejad. Khamenei ha nascosto le sue mosse all’eterno rivale Rafsanjani, facendogli intendere che non avrebbe posto veti contro di lui. Accortosi che il fedele Ali Larijani non scatenava l’entusiasmo dei falchi, ha dirottato la sua approvazione su un candidato meno carismatico, ma altrettanto malleabile con l’atout di godere del sostegno del partito dei generali. Venerdì scorso, il segreto di Khamenei ha rovinato la festa annunciata di Rafsanjani, improvvisamente alleato dei riformisti. Khamenei è uscito allo scoperto, ha ordinato che i seggi rimanessero aperti fino alle 23, rompendo il sodalizio con l’ex presidente del Parlamento Mehdi Karrubi e rinunciando a qualsiasi parvenza di imparzialità. Non è però certo che per liberarsi di un rivale dimezzato, Rafsanjani, il rahbar, la Guida suprema, rischi di scatenare la sete di potere dei generali, che da anni sognano la stanza dei bottoni. La coabitazione per Khamenei potrebbe rivelarsi amara e gli insider che tifano per il kuseh premono su questo tasto. L’attesa del ballottaggio di venerdì 24 è costellata dai racconti di minacce e brogli. Del proselitismo armato dei sepah pasdaran hanno fatto le spese alcuni supporter di Rafsanjani, lunedì al parco Mellat. Sorpresi ad attaccare manifesti agli alberi, i ragazzi sono stati picchiati. C’è chi ritiene che questi episodi siano un’indicazione della linea Ahmadinejad. L’Iran, indifferente ai giochi di potere tra i soliti noti di regime, teme il revival della prima stagione rivoluzionaria. Rafsanjani cavalca l’onda come salvatore della patria mentre cresce la psicosi da colpo di Stato. I blogger, i riformisti decimati di Mustafa Moin, i luogotenenti di Rafsanjani e il riformista dal cuore conservatore Karrubi sono concordi nel denunciare le manovre dei generali. "Chiedo il vostro aiuto e che partecipiate al secondo turno. Insieme possiamo combattere l’estremismo", ha chiesto il kuseh ai riformisti. I leader della coalizione hanno già acconsentito e invitano gli iraniani a turarsi il naso e a votare contro "i fondamentalisti fascisti". Mohammed Khatami è sceso in campo per sostenerlo con l’"Organizzazione della Repubblica islamica dei mujahiddin", che ha denunciato la deriva verso la tirannia. I regolamenti di conti tra i potenti si consumano in pubblico e il livello di reciproca delegittimazione inizia a irritare Khamenei. Lo spazio per una ricomposizione con Rafsanjani non è scomparso, ma i militari, invisibili durante la campagna elettorale, si fanno sempre più tronfi. Gli iraniani in bilico tra purgatorio e inferno sono spaesati e sperano per la prima volta nella rimonta del kuseh. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.