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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Repubblica - L'Unità Rassegna Stampa
26.04.2005 Siria e Libano: come riscrivere la cronaca e la storia
così gli Hezbollah diventano "miliziani" e la dittatura baathista filoamericana

Testata:La Repubblica - L'Unità
Autore: Alberto Stabile - Umberto De Giovannangeli
Titolo: «Nella Siria laica riemerge la fede liberatti molti dissidenti islamici - Libano, si dimette il capo dei servizi di sicurezza»
LA REPUBBLICA di martedì 26 aprile 2005 pubblica a pagina 17 un interessante articolo di Alberto Stabile sulla Siria.

Stupiscono le parole finali del dissidente siriano e il silenzio di Stabile in proposito .
Ecco l'articolo:

DAMASCO - Il chierico di guardia all´ingresso della grande moschea al Amawi, il più antico sito religioso di questa antichissima capitale, già basilica e prima ancora tempio pagano, giura che non s´erano mai viste tante donne alla preghiera del venerdì, come in questi ultimi mesi. «A migliaia vengono, tanto che il Consiglio ha deciso di riservare alle donne tutta la navata centrale», spiega il guardiano, vagamente infastidito dalle nostre domande. «Perché, lo sapete, no, che se un uomo sfiora una donna dentro la moschea, la sua preghiera non è valida!».
Per la propaganda di stato, impegnata da sempre a proiettare l´immagine della donna siriana come una donna non velata, né discriminata e, rispetto agli altri paese arabi, relativamente emancipata, questo fluttuare di chador neri che si gonfiano alla brezza primaverile nei vicoli della città vecchia quando sta per cominciare il rito del venerdì, è un colpo difficile da assorbire.
Che nella Siria laica e baathista si stia manifestando da qualche anno a questa parte un riflusso religioso lo dimostra anche un raro sondaggio d´opinione eseguito dal Centro di Studi Strategici dell´Università di Damasco, secondo cui per il 51,4 per cento degli intervistati le «forti convinzioni religiose» figurano al primo posto nella scala dei valori collettivi, prima della famiglia (34,9 %) e della tolleranza (17,6 %). La libertà individuale essendo importante soltanto per 1,9 per cento.
Questo riemergere della fede, fenomeno certamente non nuovo nei paesi arabi, acquista in Siria un significato particolare, perché i rapporti tra il regime baathista e l´Islam tradizionalmente conflittuali, degenerarono all´inizio degli anni ‘80 in una fulminea e sanguinosa guerra civile, conclusa con una feroce repressione - che nella sola città di Hama costò la vita a oltre diecimila insorti (spingendone altri 16 mila alla fuga) - e con la messa al bando dei Fratelli Musulmani, contro i quali vige tutt´ora l´ordine di sparare a vista.
Oggi che il regime siriano sembra alla vigilia di importanti cambiamenti, molti si chiedono quale ruolo avrebbero gli islamisti in questa stagione politica dagli esiti imprevedibili.
Il dottor Mohammed al Habash, direttore e animatore del Centro di Studi islamici, deputato indipendente al parlamento siriano, è l´immagine del musulmano progressista, tollerante e proteso verso il dialogo con le altre religioni monoteiste.
La radiografia della società religiosa siriana, secondo la descrizione di al Habash, è molto semplice: «Direi che c´è un ottanta per cento di conservatori, un venti percento di innovatori e meno dell´uno per cento di radicali. La differenza tra conservatori e innovatori sta nell´interpretazione del Corano, ma non significa che i conservatori siano pronti ad usare la forza».
Contrario ad ogni tipo di violenza che non sia legittimata dal diritto a difendersi, lo studioso ammette, per esempio, che i palestinesi hanno il diritto a resistere all´occupazione israeliana, ma in nessun modo un militante ha il diritto di colpire donne, bambini, o persone che non hanno responsabilità diretta nell´occupazione. «Se vogliamo la pace - conclude al Habash - bisogna cercare un altro tipo di resistenza. E questo vale anche per l´Iraq». Così come, «raggiunto lo scopo di mettere fine alla guerra civile, la Siria non ha più motivo di restare in Libano e i libanesi hanno tutto il diritto di decidere il loro futuro».
«Hama è una pagina nera della nostra storia - dice al Habash - , ma appartiene al passato. Per questo ho chiesto al governo un passo verso la riconciliazione, e lo stesso ho fatto con i Fratelli musulmani. Ho trovato resistenze. Bisognerà lavorare di più».
A metà febbraio, 55 oppositori sono stati scarcerati e fra questi la maggior parte erano Fratelli musulmani. Liberazione, con l´impegno di rinunciare alla politica. Qualcosa come 1600 fuoriusciti, assicura una fonte, hanno chiesto di poter tornare in patria. Il negoziato è in corso.
I Fratelli musulmani rappresentano solo un aspetto dell´opposizione interna al regime siriano, una delle «forze centrifughe» che in teoria potrebbe imprimere un´accelerazione alla crisi. Un altro aspetto è rappresentato dai dissidenti laici che, in nome della difesa dei diritti umani, come l´avvocato Hitham Maleh, rinchiuso in galera per sette anni, sono stati presi negli ingranaggi della repressione e più tardi liberati.
Nel suo centro-studi nel cuore di Damasco, Hitham Maleh, un signore sui 70 anni, dotato di straordinaria vitalità, può incontrare chi vuole, ma non può lasciare il paese. «All´inizio di dicembre - racconta - dovevo andare a Parigi per ricevere un´onorificenza in quanto difensore dei diritti umani, ma all´aeroporto di Damasco hanno decretato che dovevo essere rispedito a casa».
Chiediamo al legale, che nella sua lunga carriera ha anche un passato di magistrato, se dal suo osservatorio segnato da anni di sofferenza non scorga anche lui segnali di cambiamento nel regime siriano. Rispende deciso: «Non parlerei di cambiamenti reali, ma cosmetici, di facciata. Se il regime vuole fare, infatti, qualche vero cambiamento deve partire dalle leggi».
L´elenco di norme liberticide non è lungo ma è molto efficace. «Si parte dalla legge d´emergenza pubblicata l´8 marzo del 63, in base alla quale qualunque altra legge può essere sospesa per motivi di sicurezza. Segue, poi, la famigerata legge n. 14 (del 14 febbraio ‘69) che concede ai servizi di sicurezza il diritto illimitato di applicare la tortura, e di commettere altri delitti, senza doverne rispondere», continua Hitha al Maleh.
La legge speciale del novembre 1980 conferisce ai tribunali militari il diritto di processare civili. «In queste corti non viene concessa alcuna garanzia all´imputato cui non viene neanche letto il capo d´imputazione».
Segue la legge n.49 che sancisce la pena di morte senza processo a chiunque appartenga ai fratelli musulmani. «Per dirla in parole povere - conclude il legale - qualsiasi decisione può essere presa contro di me o contro qualsiasi cittadino senza che questi abbia alcun mezzo legale per opporvisi. Di recente siamo riusciti ad ottenere un piccolo successo. Di solito, durante le perquisizioni gli agenti sequestravano libri, carte e computer senza rilasciare ricevuta. Oggi lo fanno». E tuttavia neanche l´avvocato al Maleh è disposto a dare fiducia alla campagna lanciata da Bush contro la Siria. «Non ho fiducia negli Stati Uniti perché sono stati loro a creare la dittatura nel nostro paese».
Gli Stati Uniti avrebbero dunque secondo, Maleh e Stabile, persino la responsabilità dell'insediamento del regime baathista, che fu per altro stretto alleato dell'Unione Sovietica finchè essa esistette...


L'UNITA' pubblica a pagina 8 un articolo di Umberto De Giovannangeli "Libano, si dimette il capo dei servizi di sicurezza".
Gli Hezbollah vi sono definiti "movimento sciita" e i gruppi terroristici palestinesi insediati nei campi profughi " milizie".

Ecco l'articolo:

La fine di un’epoca è in quella lettera di dimissioni. Il «Nuovo Inizio» è nella bandiera libanese che sventala sull’edificio che per 29 anni ha ospitato il quartier generale dell’intelligence siriana nella Valle della Bekaa. Il Libano volta pagina. E investe su un futuro di (piena) libertà e di (totale) indipendenza. La lettera di dimissioni è quella consegnata al premier libanese Najib Miqati dal capo della Sicurezza generale, Jamil Sayyed. «Ho l’onore di richiedere la cessazione dei miei servizi e l’accettazione delle mie dimissioni», afferma il generale Sayyed nella missiva a Miqati. Nella lettera, il capo della Sicurezza generale - il più importante dei servizi di sicurezza libanesi - lascia intendere chiaramente di essersi dimesso a causa del mutato clima politico in Libano, sull’onda del movimento di protesta suscitato dall’uccisione dell’ex premier Rafik Hariri nell’attentato del 14 febbraio. «I capi dei servizi di sicurezza - scrive Sayyed, uno dei "fedelissimi" di Damasco - vengono di solito nominati per ragioni politiche e cambiano quando cambia politica». Positiva è la reazione dei leader dell’opposizione: «Le dimissioni di Sayyed rappresentano una vittoria del movimento democratico che ha chiesto verità e giustizia per l’assassinio di Rafik Hariri», dichiara a l’Unità Ahmed Fat-Fat, parlamentare sunnita e stretto collaboratore dell’ex premier ucciso nella strage di San Valentino.
Il «Nuovo Inizio» coincide con una «Fine» impensabile fino a qualche mese fa. Dopo 29 anni di soffocante tutela. la Siria ha posto fine alla presenza militare in Libano: abbandonato il quartier generale di Anjar e ultimato nella notte il ritiro delle ultime unità, il capo dell’intelligence Rostum Ghazali e gli altri generali del contingente siriano prenderanno congedo stamattina dai colleghi libanesi in una cerimonia nella base di Rayak, nella Valle della Bekaa. Per certificare l’avvenuto ritiro dei 14mila soldati che - ancora un mese fa - la Siria manteneva in Libano, una missione di esperti Onu è attesa per oggi a Damasco, a poche ore dalla prevista trasmissione al Consiglio di sicurezza del rapporto del segretario generale dell’Onu Kofi Annan sull’attuazione della risoluzione 1559. Dalla capitale siriana, la missione Onu si trasferirà quindi in quella libanese, dove è ugualmente atteso un secondo gruppo di esperti del Palazzo di Vetro, incaricati di preparare il terreno alla commissione d’inchiesta internazionale decisa il 7 aprile per fare piena luce sull’uccisione di Hariri. Secondo indiscrezioni della stampa di Beirut. il segretario generale dell’Onu (sulla scorta delle informazioni del suo inviato speciale in Libano, il norvegese Terje Roed-Larsen) riconoscerebbe nel rapporto le «misure positive» adottate per quanto riguarda il ritiro delle truppe, ma lamenterebbe che la Siria non ha attuato «pienamente» la 1559. In particolare, Annan sottolineerebbe il mancato disarmo del movimento sciita Hezbollah e delle milizie palestinesi nei campi profughi in Libano, ugualmente previsto dalla risoluzione.
La questione del disarmo di Hezbollah è stata anche al centro del colloquio che il leader druso dell’opposizione libanese Walid Jumblatt ha avuto a Teheran con il presidente iraniano Mohammad Khatami. Principale sostenitore assieme alla Siria del movimento sciita, l’Iran - per bocca di Khatami - si è nettamente pronunciato contro il disarmo di Hezbollah e ha evocato il rischio di una nuova guerra civile in Libano. Immediata la reazione del quotidiano d’opposizione libanese L’Orient-Le Jour, a detta del quale le affermazioni di Khatami sono state un «grossolano errore». Ormai ultimato il ritiro siriano, a Beirut l’attenzione dei «lealisti» finora fedeli a Damasco e dell’opposizione schierata contro la tutela della Siria è però concentrata sul dibattito che si aprirà oggi in Parlamento per la presentazione del programma del nuovo governo del premier Najib Miqati. Alla vigilia del dibattito, tutto lascia prevedere che, domani, anche l’opposizione voti la fiducia, consentendo a Miqati di concentrarsi sul compito principale del suo governo-ponte: la messa a punto di una proposta di compromesso su una nuova legge elettorale per chiamare i libanesi alle urne entro maggio. Dopo più di un trentennio e la sanguinosa parentesi della guerra civile, sarebbero per il Libano le prime elezioni senza tutela siriana.
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