Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
L'opposizione democratica destabilizza il Libano così i due quotidiani commentano le autobombe nei quartieri cristiani
Testata:La Stampa - Il Manifesto Autore: Giuseppe Zaccaria - Michele Giorgio Titolo: «Beirut, si riaffaccia lo spettro della guerra civile - Beirut, bombe a catena gelano la «transizione»»
LA STAMPA di giovedì 24 marzo pubblica un reportage da Beirut di Giuseppe Zaccaria. Per il quale il ritiro delle truppe siriane dal Libano è un fattore di destabilizzazione ("L'esercito di Damasco non ha ancora lasciato il Paese, restano attive strutture di controllo e organizzazioni di spionaggio eppure già sembra aprirsi un drammatico vuoto nel quale tenta di inserirsi ogni genere di gruppo"), mentre l'opposizione e i filo-siriani condividono la responsabilità nel riportare il paese a una situazione di pre-guerra civile ("ogni parte predispone contributi allo sfascio lasciando che un terrorismo sempre più aggressivo si faccia strada").
Non è, dunque, la volontà di Damasco e dei suoi alleati Hezbollah di mantenere il controllo del Libano a destabilizzare quel paese, ma la cecità di entrambe le parti politiche in causa.
Ecco l'articolo: Dietro la grande bandiera libanese distesa ieri mattina a ricoprire i guasti della facciata, intorno al centro commerciale «Altavista» il futuro del nuovo Libano scricchiola come i passi del personale di sicurezza sul tappeto di vetri infranti. L'attentato dell'altra notte ha devastato la passeggiata a mare di Kaslik, ricco sobborgo cristiano a venti chilometri dal centro, un'autobomba con almeno cento chili di esplosivo era stata piazzata al secondo livello del parcheggio attiguo allo «shopping center» e ha ucciso tre sorveglianti indiani ferendo altre persone. Dopo l'autobomba nel quartiere di Jeidé questo è il secondo attacco ad una zona cristiana nell'arco di tre giorni, poche ore più tardi un altro allarme bomba ha fatto svuotare l'università maronita del medesimo quartiere mentre all'ateneo statale di Beirut tre studenti sono stati feriti a coltellate durante una rissa scoppiata nella caffetteria. Da giorni nelle università libanesi assemblee e dibattiti si trasformano in occasioni di scontro, ieri il confronto tra anti e filo siriani è degenerato in rissa, e dunque si è reso necessario un intervento della polizia, con un cordone di agenti che tentava di frenare il crescere dell'intolleranza. Le cose virano sempre più verso il peggio, da tutto il Libano giungono notizie di alterchi, bandiere bruciate, piccoli scontri fra bande di cristiani che partono nottetempo alla ricerca dei filo-siriani e gruppi di islamici che ribattono colpo su colpo. L'esercito di Damasco non ha ancora lasciato il Paese, restano attive strutture di controllo e organizzazioni di spionaggio eppure già sembra aprirsi un drammatico vuoto nel quale tenta di inserirsi ogni genere di gruppo. Il patriarca maronita Sfeir appena rientrato dagli Stati Uniti propone un governo di unità nazionale, il partito Hezbollah potrebbe starci però le opposizioni respingono «qualsiasi partecipazione ad un esecutivo che sorga all'ombra del regime» ed in questo addensarsi di miasmi nelle prossime ore la consegna alle Nazioni Unite dal rapporto sull'assassinio di Rafik Hariri rischia di agire da detonatore. Il Libano di questi giorni si sta ponendo sempre più come un Paese senza memoria nel quale ogni parte predispone contributi allo sfascio lasciando che un terrorismo sempre più aggressivo si faccia strada. L'altra notte dinanzi al centro commerciale devastato Mansuer Ghanem al Bone, un giovane deputato dell'opposizione, gridava contro «le provocazioni dei filo siriani e i tentativi di intimidire il movimento di piazza dei Martiri», ma il gioco sembra già molto più complesso di quanto si riesca a immaginare e i giornali sono specchio fedele dell'angoscia che attanaglia la nazione. Ambasciatori e inviati speciali continuano a rilasciare interviste nelle quali ritengono, auspicano, postulano; l'annuale riunione della Lega Araba si è conclusa con molte parole e nessuna decisione concreta: insomma, non solo il mondo ma il Libano stesso paiono guardare a quanto accade con una sorta di rassegnata impotenza, quasi conoscendo già le prossime scene del copione. In una sceneggiatura rispolverata a distanza di vent'anni, forze straniere paiono destinate ancora a scontrarsi sul territorio del Libano per influenzare le sorti di altri Paesi ancora, i prossimi attentati non avverranno più di notte, ma colpiranno luoghi affollati, le prossime reazioni non si limiteranno alle coltellate o ai colpi di bastone, ma saranno più sanguinose. In uno Stato che esiste solo virtualmente anche chi dispone di un brandello di potere vi rinuncia temendo il peggio: ieri il quotidiano di Hariri che si chiama «Al Mostaqbal» (Il futuro) ha annunciato che il giudice incaricato di indagare sull'attentato di San Valentino si è dimesso. Il magistrato si chiama Michel Abou Arraj, fino ad oggi non è riuscito a stabilire neppure se la strage sua stata compiuta attraverso un kamikaze o una carica esplosiva piazzata sotto la sede stradale, a giudizio del quotidiano «ha un dossier vuoto e non è stato in grado di ordinare neppure un arresto». In un clima simile non può stupire il fatto che la violenza si indirizzi anzitutto verso i «pariah»: oltre ai soldati e alle spie, sono decine di migliaia i siriani che erano venuti in Libano soltanto per lavorare e si sono adattati alle attività più umili. Per esempio, sui 1200 addetti all'azienda di nettezza urbana di Beirut mille vengono da Damasco, vivono ammassati in povere baracche per un salario da fame, ruotano ogni tre mesi perché i visti di espatrio siriano scadono e da qualche tempo sono questi poveracci a subire per strada insulti, sputi e aggressioni. Negli ultimi giorni i siriani rifiutano di recarsi in zone particolarmente ostili, la pulizia della città comincia a soffrirne, interi quartieri a maggioranza cristiana come quelli di Acrafieh vivono ormai in un tanfo perenne coi cassonetti che traboccano. Ci sono famiglie che cominciano a dare asilo al portinaio o all'artigiano siriani, minacciati da estremisti e considerati spie. Più esplicito e più chiaro nell'indicare il suo obiettivo il tentativo di intorbidare le acque messo in atto da Michele Giorgio sul MANIFESTO. Nell'articolo "Beirut, bombe a catena gelano la «transizione»" rimprovera l'opposizione perchè "a testa bassa, esclude a priori che potenze straniere possano avere interesse a destabilizzare il Libano e ad isolare la Siria ". Per potenze straniere si intendono ovviamente Israele e Stati Uniti, secondo le infondate accuse del governo libanese e della Siria. Per mostrare equità, Giorgio ha qualcosa da rimproverare anche al governo e al capo dello Stato libanesi: "le incomprensibili reticenze sul caso Hariri". Reticenze che evidentemente possono essere considerate "incomprensibili" solo se si "esclude a priori" una responsabilità della Siria e del governo nel "caso".
L'opposizione ha in realtà seri motivi per puntare il dito contro la Siria, come il fatto che già in passato oppositori all'occupazione di Damasco erano stati uccisi e come la convinzione riferita dallo stesso Hariri a Jumblatt di essere nel mirino del regime. La rivista Time sostiene poi che il coinvolgimento di Damasco sarebbe confermato da prove e indizi molto consistenti. La stessa Onu sembra orientare i suoi sospetti in tal senso.
Quali sarebbero invece gli elementi per credere a un coinvolgimento di Israele e Stati Uniti? Soltanto un debole "cui prodest". Debole, perché, se ha dato il via alle manifestazioni per l'indipendenza del Libano, l'attenttato ad Hariri non ha affatto chiuso la partita, giocata da Damasco mobilitando Hezbollah nelle piazze, ribaltando le sue reponsabilità sul "nemico sionista" e sull'"imperialismo americano" e cercando di accreditarsi come indispensabile garante della stabilità del paese che destabilizza.
Ecco l'articolo: Un vento freddo ieri sera soffiava nelle strade di Beirut. In esso molti libanesi hanno visto un segno del gelo che comincia a calare sulle relazioni tra cristiani e musulmani. Due attentati nel giro di pochi giorni, entrambi in quartieri cristiani della capitale, non potevano non lasciare il segno e se tutti ripetono che non ci sarà una nuova guerra civile, nessuno può escludere l'inizio di un ciclo di violenze e rappresaglie. Pesano i tre morti (tutti stranieri) di martedì notte nell'esplosione all'Altavista Tower di Kislik, a nord di Beirut, ma anche la decisione di farsi da parte presa dal magistrato Michel Abu Arraj che ha indagato per oltre un mese sull'assassinio dell'ex premier Rafik Hariri, attribuito dall'opposizione ai servizi segreti siriani e dalle forze filo-governative a Israele o agli Stati uniti. Un passo fatto 48 ore prima che l'irlandese Peter Fitzgerald, capo degli investigatori Onu incaricati di accertare le circostanze dell'uccisione di Hariri, renda noto il suo rapporto.
Abu Arraj sino ad oggi non ha ordinato alcun fermo e, secondo il quotidiano al-Mustaqbal, il fascicolo delle sue indagini sarebbe «vuoto». Secondo qualcuno avrebbe scelto di farsi da parte prima di essere sconfessato dagli investigatori internazionali. Le versioni sull'esplosione che ha colpito il convoglio di auto di Hariri, blindate e dotate di sofisticati apparati elettronici di protezione, sono state finora contrastanti: si è parlato di un attentato suicida da parte di un gruppo islamico estremista oppure di un ordigno nascosto nel sistema fognario sotterraneo. Gli abitanti di Kaslik hanno issato ieri mattina sull'Altavista Tower una grande bandiera bianca e rossa e con il cedro verde al centro. «Vogliamo dimostrare che non verremo trascinati nella violenza e che i libanesi sono uniti e più forti della distruzione» ha spiegato ai giornalisti uno promotori.
Ma al Libano serve qualcosa in più di qualche affermazioni di principio fatta dalla popolazione che vuole evitare un nuovo bagno di sangue. Le incomprensibili reticenze sul caso Hariri del governo e del capo dello stato da un lato e l'aggressiva campagna dell'opposizione che, a testa bassa, esclude a priori che potenze straniere possano avere interesse a destabilizzare il Libano e ad isolare la Siria dall'altro, stanno spingendo il paese vicino al baratro. Se, come si dice, tra qualche ora gli investigatori dell'Onu punteranno l'indice contro Damasco e i suoi alleati libanesi, il paese dei Cedri potrebbe vivere giorni molto difficili. Già ieri tre studenti sono stati ricoverati in ospedale dopo i tafferugli violenti esplosi all'università di Beirut tra filo-governativi e anti-siriani.
Un invito alla calma è giunto dal leader religioso sciita, l'ayatollah Mohammad Hussein Fadlallah, che ha detto di essere sicuro «che le divergenze politiche tra libanesi non provocheranno una nuova guerra civile». L'opposizione per tutto il giorno ha continuato ad attribuire l'attentato di Kislik al governo filosiriano, che nelle scorse settimane aveva implicitamente ammonito del rischio del caos dopo che Damasco aveva cominciato a ritirare le sue truppe dal Libano. E' sceso in campo anche il Partito comunista. «E' un tentativo di trasformare in un funerale la gioia della pacifica rivolta per l'indipendenza», ha affermato il segretario generale del Pcl George Hawi, che ha esortato il presidente Emile Lahoud a «dimettersi oggi».
I leader europei intanto sollecitano la formazione «a breve» di un nuovo governo libanese che, affermano, sia in grado di organizzare «elezioni libere, eque e trasparenti nei tempi stabiliti, in base alla Costituzione, senza interferenze o intrusioni dall'esterno». Lo hanno dichiarato ieri al termine del vertice europeo sulla situazione in Libano. Il testo è stato adottato su proposta francese - Chirac ieri ha attaccato le autorità libanesi e la Siria - e ricalca le conclusioni già adottate dai ministri degli esteri dei 25 la scorsa settimana. I capi di stato e di governo dell'Ue hanno anche ribadito che il ritiro siriano «deve essere completo e in base ad un preciso calendario».
Intanto il segretario generale dell'Onu Kofi Annan, presente ieri al vertice arabo di Algeri, ha avvertito che un'inchiesta più completa sull'assassinio di Hariri potrebbe «essere necessaria». Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla redazione de La Stampa. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.