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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
17.03.2005 Libano: la sinistra preferisce i tiranni agli Stati Uniti?
lo chiede Ernesto Galli della Loggia, mentre si inizia a fare luce sui crimini del regime di occupazione siriano

Testata:Corriere della Sera
Autore: Ernesto Galli della Loggia - Elisabetta Rosaspina
Titolo: «Libano, i silenzi democratici - Nel palazzo delle spie siriane « Qui torturavano ogni notte »»
Il CORRIERE DELLA SERA di giovedì 17 marzo 2005 pubblica in prima pagina un editoriale di Ernesto Galli della Loggia sulla mancata mobilitazione, in particolare della sinistra, a sostegno della "primavera" democratica libanese.
Negli ultimi anni la politica estera spesso ha rappresentato per lo schieramento di sinistra un terreno minato che ne ha messo ripetutamente in crisi l'unità. In questi giorni, però, e proprio sullo scacchiere cruciale del Medio Oriente, si sta presentando l'occasione perché le cose cambino, perché il centrosinistra possa dare finalmente un'immagine non solo unitaria, ma anche coerente e forte delle sue posizioni e dei suoi principi.
E' noto su quale punto in particolare, a partire dall' 11 settembre ( ma anche prima), nella sinistra si manifestano tensioni e contrasti, ogni volta a malapena ricomposti: sull'uso della forza, sulla guerra. C'è una sinistra che non li esclude a priori, e c'è invece una sinistra radicale che dice no, senza se e senza ma, a qualunque impegno militare.
Sul giudizio negativo circa la spedizione americana in Iraq l'accordo è stato ed è comunque generale: no alla guerra, e invece sì all'Onu, sì alla propaganda, sì alla mobilitazione pacifica dell'opinione pubblica, sì alle pressioni della comunità internazionale.
E' con questi strumenti, sostiene la sinistra, che bisogna cercare sempre di promuovere la causa della democrazia là dove la democrazia è assente: non con le armi.
Si può discutere a lungo se sia davvero questa, di volta in volta, la strada migliore per raggiungere lo scopo e anche quella effettivamente agibile. Ciò che non mi pare che si possa proprio fare, all'opposto, è, dopo aver predicato a squarciagola la necessità di prendere una tale strada, nel momento in cui in un qualunque posto del mondo essa è realmente imboccata, voltare la testa dall'altra parte e fare finta di nulla. Se non sbaglio è precisamente questo, invece, il modo in cui si sta comportando la sinistra di fronte a quanto accade oggi in Libano. Da settimane le strade e le piazze di Beirut sono percorse da cortei imponenti di gente indignata per l'assassinio di Hariri ad opera dei servizi segreti siriani, da gente che reclama la fine del duro protettorato di Damasco, che ormai data da circa un ventennio, che esprime il suo desiderio di « verità » , di vivere finalmente libera dalla paura e dal ricatto esercitato in permanenza anche dalle milizie hezbollah, di cui è tra l'altro noto il ruolo terroristico svolto entro i confini israeliani.
Ma di fronte a tutto ciò: di fronte ad un Paese del mondo arabo dove per la prima volta da tanto tempo si registra una grande mobilitazione pacifica e di massa a favore della democrazia; di fronte ad un movimento siffatto i cui obiettivi, come se non bastasse, coincidono con i deliberati delle Nazioni Unite; di fronte ad un regime dittatoriale torturatore come è quello di Damasco guidato da Assad figlio che è visibilmente messo alle corde da quanto sta accadendo e forse ne potrebbe essere fiaccato fino alla morte; insomma, di fronte ad un insieme di fatti che sembrano la rappresentazione quasi perfetta di ciò che da due tre anni la sinistra italiana va dicendo essere la strategia su cui puntare, cosa fa questa stessa sinistra per appoggiarla? In pratica, mi pare, assolutamente nulla.
I suoi esponenti tacciono, i suoi giornali informano sussurrando, il suo popolo non organizza cortei, non picchetta ambasciate, non sottoscrive manifesti. La sinistra dei buoni sentimenti democratici e pacifici non fa nulla, così come non fa nulla, neppure qualche blanda manifestazione di pubblica simpatia, per appoggiare il fermento democratico che percorre tutto il mondo arabo. Bisogna forse maliziosamente dedurne che l'antiamericanismo può arrivare al punto di far preferire i tiranni agli Stati Uniti?
A pagina 15 un artcolo di Elisabetta Rosaspina inizia a gettare luce sul vero volto del regime di occupazione siriano in Libano, che ha imposto il suo dominio attraverso la repressione del dissenso, le sparizioni, il terrore e la tortura.
Ecco il testo:

Partiti. Con tutti i loro segreti: per esempio, chi ha ordinato la morte di Rafik Hariri, l'ex premier libanese saltato su una carica di esplosivo con tutta la sua scorta, 31 giorni fa. Se non lo sanno loro, i servizi di sicurezza siriani, significa che in trent'anni di attività in Libano hanno concluso poco.
Ma non si direbbe, dalla mole del trasloco, che ha richiesto due settimane e decine di camion. Ieri notte hanno caricato le ultime masserizie, armadi, casse di documenti, mobili, perfino le porte di ferro, i lavandini e le piastrelle dei bagni. Hanno bruciato quel che non riuscivano a trasportare. Sono riusciti a impedire che anche i muri potessero parlare. E raccontare quel che avevano visto e sentito per 18 anni dentro le segrete di un palazzo di undici piani sul lungomare di Beirut. Per metà abitato da spie, per metà da famiglie per bene.
Dall'ultimo piano si vede il sole tramontare dietro il mare di una delle più belle spiagge della città, Ramlet Al Baida, letteralmente: sabbia bianca. Dodici piani più sotto, per quasi vent'anni, è stato l'inferno.
Prima di sgomberare, le barbe finte hanno trascorso la domenica pomeriggio a ridipingere le pareti della cantina. Come inquilini esemplari. Hanno passato una mano di azzurro cielo da terra fino a due metri d'altezza in tutti i dieci locali senza finestre dell'interrato di questo bel condominio di undici, immensi appartamenti.
Cinque abitati da professionisti, impiegati, funzionari della buona borghesia libanese. Tre vuoti. E tre, più le cantine, requisiti dagli agenti segreti dell'esercito siriano nel 1987.
La pittura celeste è già asciutta, ma il lavoro è stato frettoloso e imperfetto. Sotto, s'intravedono strane strisciate nere. E la vicina di casa, scesa a visitare le cantine non più bloccate da un'inferriata, rabbrividisce: « Hanno cancellato le tracce lasciate dai prigionieri. Nomi, date, messaggi.
Dio solo sa che cos'è successo qua sotto in tutti questi anni » . Dio e i superstiti delle galere siriane. I sopravvissuti agli interrogatori brutali che, ogni notte, lì sotto, straziavano corpi e menti, mentre ai piani alti famiglie non ignare, ma impotenti, guardavano la tivù e poi andavano a dormire. I muri di cemento armato, costruiti per ripararle dalle bombe israeliane dell' 82 e da eventuali terremoti, proteggevano il loro sonno dalle urla nel sotterraneo dei detenuti, che qualche inquilino aveva incrociato rientrando a notte fonda dal cinema o da una cena con amici: « Li vedevamo scendere le scale, con le mani legate dietro la schiena e gli occhi bendati » racconta uno degli abitanti.
L'intelligence siriana si era presa il primo, il secondo e il quarto piano. L'inquilina del terzo è fuggita definitivamente quando ha visto defenestrare un uomo arrestato. « I siriani non hanno occupato però anche il suo appartamento. Erano perfino cortesi.
Quando ci incrociavano, ci facevano il saluto militare » testimonia un'altra residente, che si propone ora di avvertire i proprietari degli appartamenti requisiti della partenza degli intoccabili squatter. « Ma la società elettrica ha tagliato i fili — informano i vicini — chiedono arretrati per 135 milioni di lire libanesi » . Più o meno 70 mila euro, il conto lasciato da Damasco.
Di fronte, un altro palazzo delle stesse dimensioni aveva subito analoga sorte. Il parcheggio era diventato il deposito delle auto di proprietà dei fermati: si capiva presto se non erano stati più rilasciati. Le loro macchine restavano ad arrugginire fino a diventare scheletri spolpati di ogni utile pezzo di ricambio.
I rottami sono stati rimossi soltanto poco tempo fa, e ora sei soldati libanesi sorvegliano la spianata e i residui degli ultimi falò dei segreti siriani.
Ma sono davvero partiti? A Beirut non ci credono nemmeno i loro ex coinquilini: si dice che almeno cinquemila agenti siriani abbiano fatto in tempo a prendere la nazionalità libanese e possano ora continuare a vivere e lavorare indisturbati nel paese d'adozione. Si dice anche che un dossier stia per essere inviato al Tribunale Penale Internazionale dell'Aja sui crimini commessi dai servizi segreti in Libano, coi nomi dei responsabili e l'elenco delle persone scomparse in segrete come quelle di Ramlet Al Baida, sparse a Beirut e nella valle della Bekaa, anticamera di Mezzeh, una delle più temute prigioni siriane. Ci vorranno anni perché si sappia tutta la verità, ma probabilmente occorrerà molto meno tempo per conoscere le conclusioni della commissione internazionale che ha indagato sull'assassinio di Hariri e di altre diciotto persone. Il capo del team investigativo presenterà il suo rapporto alle Nazioni Unite nei prossimi giorni; e troveranno conferma o smentita le molte illazioni che circolano sull'organizzazione dell'attentato, le modalità, le complicità e, soprattutto, i tentativi di depistaggio delle indagini.
Si parlerà del misterioso kamikaze palestinese, di cui non è stata ancora trovata traccia, ma che secondo il padre, morto poi sotto interrogatorio, non sapeva neppure guidare: « Un caso di autobomba con autista? » ha chiesto ironico un deputato dell'opposizione.
Si chiarirà, magari, il caso della diciannovesima vittima, scoperta due settimane dopo sotto appena dieci centimetri di polvere e calcinacci, ma con gli abiti quasi intatti, sul luogo dell'esplosione.
E della diciottesima, trovata con otto giorni di ritardo sotto una macchina sulla stessa scena del delitto, tuttora presidiata dall' esercito. Distrazione, negligenza nelle ricerche o corpi aggiunti in un secondo tempo? Se verrà stabilita con esattezza la composizione della miscela esplosiva, forse si potrà capirne anche la provenienza e individuare la mano del chimico. Ma se la bomba era sotto il manto stradale, come mai le tubature vicine non si sono fuse? Eppure il calore sprigionato dall' esplosione è riuscito a liquefare perfino il fondo della Mercedes blindata, su cui viaggiava Hariri.
Gli esperti della casa automobilistica tedesca ancora non riescono a spiegarselo.
Molti altri perché restano per ora senza risposte. Partite forse anche loro, in tutta fretta, nelle ultime notti di Beirut.
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