Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Israele e la Nato, la strategia di Al Qaeda, la possibile gara atomica tra Riad e Teheran, i militari garanzia della democrazia turca analisi e scenari
Testata:Il Foglio Autore: un giornalista - Carlo Panella - Emanuele Ottolenghi Titolo: «Israele si avvicina alla Nato, e viceversa. Blair in missione - Dai messaggi di al Qaida alle stragi di sciiti in Iraq, l'ombra della crisi saudita - Risiko nucleare - Così il "quarto potere" militare ha sconfitto il terrore e creato l'islam moderato»
A pagina 3 IL FOGLIO di martedì 21-12-04 pubblica un articolo intitolato "Israele sia avvicina alla Nato, e viceversa. Blair in missione": Bruxelles. Il premier inglese, Tony Blair, atterra oggi – primo leader occidentale a recarsi in visita in medio oriente dopo la morte di Yasser Arafat – in un Israele già diverso rispetto a qualche settimana fa. Una serie di segnali fa infatti credere che, dopo anni di conflitto "freddo" e intermittente, ma senza tangibili prospettive d’inversione di tendenza, la situazione stia girando. C’è appena stato il rilascio unilaterale, da parte delle autorità israeliane, di 170 progionieri palestinesi, scelti fra quelli che non si sono "sporcati le mani di sangue". Il gesto è stato presentato come una manifestazione di buona volontà e come una risposta indiretta al rilascio anticipato, da parte dell’Egitto, di un agente israeliano da tempo detenuto nelle carceri del Cairo. Sul piano più strettamente politico, c’è il passo in avanti fatto nelle trattative fra il Likud del premier Ariel Sharon e il Labor Party di Shimon Peres, che dovrebbero formare una "grande coalizione". Non tutti gli aspetti dell’accordo sono definiti: Peres non può ancora diventare vicepremier perché ce n’è già uno (Ehud Olmert, del Likud) e la Costituzione non ne prevede due, anche se si può sempre cambiare. Anche la spartizione dei portafogli non è ancora stata finalizzata. Ma gli osservatori sono convinti che l’alternativa a un eventuale fallimento, le elezioni anticipate per il rinnovo della Knesset, sia sgradita tanto al Likud quanto ai laburisti. Il punto centrale dell’intesa è rappresentato dall’esecuzione del piano di ritiro da Gaza già entro l’estate del 2005, e domenica Sharon ha parlato dell’anno che verrà come di "una chance storica per un salto" in avanti in tutta la regione, un’espressione echeggiata dal presidente americano George W. Bush in una conversazione con i giornalisti. Anche la visita di Blair potrebbe portare qualche speranza: Londra è già attiva in entrambi i campi (specialisti britannici stanno addestrando le forze di sicurezza palestinesi) e vorrebbe veder realizzato il progetto di una mini conferenza di pace da tenere a Londra all’inizio del 2005, una volta eletto il nuovo presidente dell’Autorità palestinese. Si parla anche di speciali stanziamenti dell’Unione europea e della Banca mondiale (anche James Wolfensohn sarà nella regione a giorni) per sostenerlo. E’ in questo contesto che si fa strada – per ora solo nel dibattito fra addetti ai lavori – l’ipotesi di un avvicinamento progressivo fra Israele e la Nato. Tsahal, l’esercito, parteciperà presto come osservatore a una serie di esercitazioni dell’Alleanza e la prospettiva che aderisca al programma Nato di Partnership per la Pace – cui sono associati anche paesi come la Georgia o l’Azerbaigian – non appare così remota. Aderire al programma non significa aderire all’Alleanza, anche se la Partnership offre accesso allo scambio di informazioni e a una certa integrazione politico-militare. Andare oltre questo livello di cooperazione solleverebbe problemi tanto in alcuni degli attuali paesi alleati (soprattutto in assenza di pace in medio oriente) quanto in Israele, dove si tende a privilegiare l’alleanza con gli Stati Uniti, a diffidare dei quadri multilaterali e a perseguire intese bilaterali ad hoc, come quella con la Turchia. Ma secondo alcuni, anche a Gerusalemme, servirebbe a rompere un tabù e ad aprire una discussione sul futuro strategico del paese in una prospettiva di pace con i palestinesi, ma anche di ingresso dell’Iran nel "club" nucleare, di collasso saudita. Da questo punto di vista, le garanzie di sicurezza e protezione offerte dalla Nato potrebbero diventare interessanti. Ma l’Alleanza atlantica potrebbe assumere un ruolo per la sicurezza di Israele anche prima, come garante di un accordo di pace con i palestinesi, con forze Nato (americane e europee) schierate in Cisgiordania e impiegate in funzioni di addestramento, cioè quello che i britannici (e la Cia) stanno già facendo. A pagina 3 dell'inserto un articolo di Carlo Panella, "Dai messaggi di al Qaida alle stragi di sciiti in Iraq, l'ombra della crisi saudita": Tra minacce e inviti alla ribellione dei vari Osama bin Laden contro il principe reggente Abdullah, proteste in piazza e arresti, la crisi saudita si evolve. Non c’è più soltanto lo stillicidio di iniziative terroristiche, ma ci sono anche le manifestazioni di protesta, con incidenti di piazza, a Riad, Gedda, Tabuk e nella regione di Hael. Intanto, con un tempismo che molti osservatori arabi hanno giudicato per nulla casuale, il leader di al Qaida, o chi per lui, si è fatto vivo con un messaggio di oltre un’ora, preso da Internet e trasmesso da al Arabiya, e poi sono arrivati altri messaggi contro la corte di Riad sempre via web, sempre firmati al Qaida. Nelle stesse ore, i siti del terrorismo di matrice islamica sono stati intasati da messaggi di gioia per gli attentati in Iraq, a Kerbala e a Najaf, seguiti all’attacco della scorsa settimana che aveva l’obiettivo di uccidere lo sheikh Abdel Mehdi Kerbalai (sopravvissuto), rappresentante dell’ayatollah Ali al Sistani. Le manifestazioni nella capitale, a Gedda e in città periferiche non erano spontanee, ma preparate e annunciate da giorni da Londra, via al Jazeera, da Sadh Faqih, leader del movimento al Islah, che ha dichiarato: "Il regime saudita ha dimostrato di non essere in grado di fare le riforme. L’unica soluzione è dunque la sua caduta e l’instaurazione di una monarchia costituzionale, affiancata da un Parlamento democraticamente eletto". Come preannunciato, giovedì scorso a Riad gli oppositori sono usciti dalla moschea adiacente a via al Tahlya e a via Re Fahad e hanno iniziato a manifestare. Le forze antisommossa sono intervenute così velocemente che l’inviato di al Jazeera ha fatto in tempo a dire, in diretta, che sentiva degli spari: poi il collegamento si è interrotto. A Gedda si è ripetuta la stessa scena presso la moschea al Jafali. Al Islah afferma che i fermati non sono meno di mille, i testimoni oculari dicono che i feriti dai colpi di fuoco sparati dalla polizia a Gedda, sono molti, il portavoce del ministero dell’Interno, Mansour al Turki, ammette soltanto l’arresto di due persone "che avevano sparato da una vettura" a Gedda. Dal punto di vista politico, ha avuto successo la sfida lanciata dai manifestanti, che hanno preannunciato tempi e modi delle proteste e che hanno dimostrato di riuscire ad avere un qualche seguito. E’ questo un altro sintomo dell’aggravarsi della crisi politica saudita, su cui si inseriscono i molti appelli della rete di al Qaida e di bin Laden, che rilancia il suo jihad contro la corte saudita: "Nella penisola arabica non possono coesistere due religioni. E’ quindi necessario espellere crociati ed ebrei. I dirigenti sauditi devono affrettarsi a restituire alla umma i suoi diritti, ogni ritardo spingerà i giovani a impugnare le armi per un jihad che è soltanto agli inizi. Il popolo si sta svegliando e nessun organo di sicurezza potrà mai fermarlo". La rete di Osama bin Laden prende dunque di mira anche gli ulema sauditi che nel giugno scorso avevano chiesto di risparmiare la vita dell’ostaggio americano Paul Johnson (rapito a Riad e decapitato da Abdelaziz al Muqrin) definiti "ulema pagati di giorno e di notte". Larga parte dell’intervento di bin Laden è stato dedicato all’Iraq, definito "un’occasione d’oro per logorare gli Stati Uniti dal punto di vista militare, politico ed economico". La recente drammatica serie di attacchi contro gli sciiti iracheni, con 66 morti e più di 200 feriti, ultima di una lunga offensiva iniziata nell’agosto 2003 che ha fatto più di trecento vittime, dimostra come il terrorismo islamico sia endogeno – non una reazione all’intervento americano – ed esportato in tutta la regione dalla crisi del regime wahabita saudita. La caratteristica peculiare della setta wahabita è l’odio nei confronti degli sciiti "apostati e idolatri". Questa convinzione porta il regime saudita a reprimere la minoranza sciita che vive in Arabia Saudita e, partendo da questa base condivisa, l’estremismo terrorista di al Qaida e dei gruppi iracheni legati ad al Zarqawi compiono passo successivo, passando dall’emarginazione sociale e politica alla pratica delle stragi, anche per impedire l’affermazione degli sciiti alle prossime elezioni. E uno di Emanuele Ottolenghi, "Risiko nucleare": Mohammed El Baradei, direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, auspica che presto si giunga alla pace tra Israele e palestinesi, insinuando come essa sia il fondamento per un medio oriente "libero da armi di distruzione di massa". ElBaradei esprime una visione miope del problema, illudendosi che il programma nucleare iraniano sia in funzione difensiva contro Israele. Ma la minaccia iraniana in realtà va oltre. Il programma di Teheran, combinato con lo sviluppo di un potenziale missilistico balistico intercontinentale, mostra come gli intenti iraniani siano espansionisti ed egemonici e non mirino solo a Israele, ma anche ai rivali regionali e ai loro alleati occidentali, Europa in prima fila. L’Iran non può aspirare a una parità strategica convenzionale con i suoi avversari: i principati del Golfo e l’Arabia Saudita sono dotati di forze aeree più moderne e sofisticate. La Turchia, membro Nato, ha l’esercito più forte della regione. La presenza americana in Iraq, Afghanistan e Golfo aumenta il senso di accerchiamento, acuendo le rivalità preesistenti tra l’Iran sciita e i paesi limitrofi, sunniti e di differente etnia. Da qui la ricerca di un’opzione non convenzionale, che da sempre serve il progetto iraniano di egemonia nell’area: il sogno nucleare risale agli anni 70, prima della rivoluzione islamica, quando lo shah costruì un reattore nucleare con l’aiuto americano per scopi pacifici per poi perseguire illegalmente un programma militare parallelo, complice il Sudafrica. Abbandonato inizialmente dai mullah, il programma ripartì a metà degli anni 80 e ha accelerato i tempi da quando l’Iran è riuscito a trovare più facile accesso alla tecnologia necessaria, complici Russia, Corea del Nord e Cina, nonché la tecnologia pachistana. L’Iran cerca l’atomica per ergersi a potenza regionale, nella speranza che un contemporaneo indebolimento americano porti i paesi limitrofi nell’orbita iraniana, stabilendone l’incontrastata supremazia nell’area. Inevitabile che i vicini minacciati contemplino risposte simili a scopo di deterrenza. L’atomica iraniana minaccia di scatenare una corsa agli armamenti non convenzionali in chiave deterrente anti Iran, non anti Israele. In testa alla lista dei paesi minacciati dalle mire di Teheran e con mezzi per il lancio di testate non convenzionali c’è l’Arabia Saudita. Non sorprendono quindi le prese di posizione iraniane riportate dall’agenzia UPI. L’Arabia Saudita, accusano gli iraniani, starebbe sviluppando un programma nucleare, non lasciando agli iraniani altra alternativa che svilupparne uno a loro volta per scopi difensivi. L’accusa è fatta per giustificare la probabile decisione iraniana di violare nuovamente gli impegni presi con l’Europa riavviando presto il programma di arricchimento dell’uranio per giungere al punto di non ritorno nel ciclo nucleare. Ma non è del tutto balzana. Periodicamente infatti circolano rapporti su attività sospette che coinvolgono i sauditi. Né la dotazione di missili cinesi – ora da sostituire – con capacità di lancio di testate non convenzionali, data la loro scarsa precisione d’impatto sul bersaglio, aiuta i sauditi a dissipare i sospetti. La Guerra fredda in medio oriente L’Arabia ha tre motivi per sviluppare un’opzione nucleare. Primo: compete con l’Iran per l’egemonia regionale. Secondo: vede nella rivoluzione islamica di Teheran un pericoloso elemento d’instabilità per se stessa e per il resto della penisola, dove monarchie sunnite governano minoranze sciite spesso estromesse ed emarginate. Infine l’Arabia Saudita non può più ritenere che l’ombrello nucleare americano sia dato per scontato dopo l’11 settembre a fronte di un deterioramento nei rapporti con Washington. Esiste dunque un incentivo in più a sviluppare un sistema autonomo di deterrenza. Gli stretti rapporti tra Riad e Pakistan, il ruolo saudita nel finanziare la bomba pakistana, la recente visita ai centri nucleari pakistani di alti esponenti sauditi, tutto fa pensare a un’opzione nucleare, acquistata all’estero se non sviluppata localmente. Un equilibrio del terrore nucleare tra Iran e sauditi non è nell’interesse di nessuno. L’Amministrazione Bush è in ritardo rispetto all’atomica iraniana, su cui solo a parole ha una linea politica chiara. Nel caso saudita l’ambiguità dell’Amministrazione nei confronti di Riad rischia di far peggio. Il rischio di una corsa agli armamenti, con Teheran a un passo dall’atomica, è alto. Gli americani farebbero bene ad attivarsi per impedire che il medio oriente diventi in un decennio quel che fu l’Europa nella Guerra fredda. A pagina 5 dell'inserto ancora Carlo Panella spiega: "Così il "quarto potere" militare ha sconfitto il terrore e creato l'islam moderato ad Ankara" Il processo che ha finalmente portato alla definizione di una data per le trattative tra Unione europea e Turchia ha dello sbalorditivo. Si è infatti svolto senza minimamente comprendere quale sia in realtà il meccanismo che determina il quadro democratico turco. Senza comprendere che cosa la Turchia può dare o può togliere all’Europa, al di là delle banalità generiche, trite e insensate sull’islam. Senza neanche accorgersi che la forza – o la debolezza – della Turchia consiste in un sistema politico originalissimo di democrazia che vìola i fondamenti di Montesquieu, che è estraneo alla tradizione politica europea, che nulla ha a che fare con i parametri delle democrazie occidentali. Nessuno nell’Ue si è accorto che la Turchia costituisce un unicum eccezionale sul terreno della dottrina e della prassi politica. Nessuno si è accorto che questa sua eccezionalità costituisce proprio la ragione principale per farla entrare nell’Ue. Nessuno, quindi, si è accorto che le condizioni che l’Ue ha posto alla Turchia snaturano in pieno la dinamica democratica turca e che rischiano di fiaccarla a tal punto da permettere al fondamentalismo islamico di farvi breccia e di conquistare il controllo del governo. Tutto questo accade a causa della paralisi dell’elaborazione politica europea che non si è neanche posta il problema dell’utilità di applicare "criteri" elaborati per definire il passaggio dal socialismo reale alla democrazia (quali sono quelli di Copenaghen, calibrati esplicitamente sull’ingresso nell’Ue dei paesi del Patto di Varsavia) a uno Stato permeato dal totalitarismo califfale e poi kemalista. Per comprendere che cosa questo significhi, basta pensare che il centro delle riforme che l’Ue impone alla Turchia è condensato nella estromissione dei militari dal controllo sovraordinato sul governo e sul Parlamento. Questo "quarto potere" e il suo saggio esercizio costituiscono però proprio il segreto della democratizzazione della Turchia. Il controllo sul governo e sulla legislazione da parte delle Forze armate è infatti il segreto della democratizzazione del più grande Stato musulmano del Mediterraneo. Non basta però ricordare che questa "tutela militare" ha salvato la democrazia turca tre volte. L’Europa dovrebbe ricordarsi anche come e perché questo è avvenuto, perché tutto riporta al senso più profondo dei problemi che oggi pone la lotta al terrorismo islamico. Nel 1960 l’intervento militare è ancora legato a una dimensione passata: il premier Menderes (poi giustiziato) aveva tentato una svolta autoritaria che le Forze armate stoppano, per imporre subito la continuazione dell’evoluzione dall’autoritarismo kemalista verso l’assetto democratico. Il "golpe democratico" dell’11 settembre 1980, attuato dal capo di Stato maggiore Kenan Evren, risponde invece a un’ondata di terrorismo di dimensione irachena che si distingue più che per l’elevatissimo numero dei morti (1.000-1.500 l’anno) per l’estrema selettività degli obiettivi e soprattutto per le spinte che lo producono. L’Europa, se non fosse a encefalogramma piatto, dovrebbe oggi ricordare che il terrorismo che i militari sconfiggono nel 1980 in Turchia è quello che produce l’attentato a Giovanni Paolo II. Dovrebbe ricordare che in quegli anni in Turchia si crea una miscela infernale che si diffonde a metastasi in una situazione di crisi economica caotica e intreccia estremismo islamico (trionfante nel confinante Iran), nazionalismo Grande turco, estremismo gauchista e trame dei servizi segreti sovietici, impegnati nella destabilizzazione del bastione Nato in Asia in contemporanea con l’invasione dell’Afghanistan. Il tutto impastato da un colossale traffico di droga. Ali Agca deve dunque uccidere il "papa polacco" perché questo è il passaggio strategico che unifica alcune, fondamentali, forze terroristiche interne ed esterne alla Turchia, pronte ad aggredire l’Europa. Questa è la lettura politica di quella tragedia che spiega peraltro perché il pontefice, per primo, si sia sempre disinteressato a una lettura giudiziaria.
Nel 1980, dunque, preso atto che le forze politiche tradizionali, rappresentate dal binomio Bulent Ecevit (socialdemocratico, poi arrestato) e Suleyman Demirel (conservatore), sono impelagate nel piccolo cabotaggio parlamentare, in una melmosa corruzione che porta il paese verso la bancarotta (l’inflazione al 107 per cento), i militari attivano la Costituzione materiale – e formale – e cancellano i partiti politici, impongono il coprifuoco, sospendono il gioco democratico e assumono pieni poteri. Durissima, feroce è la repressione: 44 mila arresti, un migliaio le pene di morte richieste, un centinaio quelle eseguite. Ma non è il Cile di Pinochet, né l’Algeria dell’Fnl (appoggiato da François Mitterrand e Jacques Chirac); i militari turchi tengono fede al loro ruolo costituzionale e non soltanto mantengono l’impegno preso il giorno del colpo di Stato e convocano libere elezioni il 6 novembre 1983, ma fanno soprattutto sì che siano effettivamente tali, tanto che il loro candidato, l’ex generale Turgut Subalp, perde clamorosamente e vince invece il liberale Turgut Ozal del partito della Madrepatria. Il pieno ritorno alla logica democratica è sancito dal referendum del 7 settembre 1987, in cui il 50,75 per cento degli elettori impone che i partiti disciolti nel 1980 possano ripresentarsi alle elezioni (Ecevit ridiventerà premier, Demirel presidente della Repubblica). Ma c’è poi ancora un terzo, pesante, intervento delle Forze armate che interrompe la democrazia parlamentare turca. Di nuovo un episodio ignorato dai soloni dell’Ue, che pure avrebbero dovuto considerarlo centrale per rispondere alle ansie e alle paure che il "pericolo islamico" suscita in parte dell’opinione pubblica europea. Il "semi golpe" attuato dalle Forze armate turche nel 1997 contro il governo islamico di Necmettin Erbakan è infatti strategico perché impone – a suon di metaforici ceffoni – al partito islamico di abbandonare i suoi fondamentalismi e di assumere quell’assetto di piena rispettabilità democratica che tutti, oggi, giustamente gli riconoscono.
La successione dei fatti è lineare: il 28 giugno 1996 Erbakan forma un governo con il Partito della Giusta via di Tansu Ciller, dopo che il 24 dicembre 1995 il suo Refah ha vinto le elezioni politiche con il 21,38 per cento dei voti e 158 seggi sui 550 dell’Assemblea nazionale. Ma il programma di Erbakan è di smantellare la laicità dello Stato; è un programma di radicalismo islamico che non a caso sul piano internazionale si concretizza in una crisi dell’alleanza militare e politica con Israele che i generali turchi hanno stretto dopo il golpe del 1980, in dichiarata funzione anti fondamentalista e antiterrorista. Dopo innumerevoli episodi (compresa la destituzione di una parlamentare islamica soltanto perché si era presentata con un foulard in testa in Parlamento), il 28 aprile 1997 il presidente della Repubblica Suleyman Demirel invia un ultimatum al governo Erbakan: o applica le misure di garanzia della laicità richieste dai generali del Consiglio della sicurezza nazionale (Mgk) o si deve dimettere. Le caserme sono messe in preallarme, Erbakan viene dimesso, il Refah viene sciolto e soltanto dopo una profonda rigenerazione moderata interna, due scioglimenti e cambiamenti di nome, lo schieramento islamico riesce a ritornare alla ribalta vincendo le elezioni del 2001 con Tayyip Erdogan. Ma anche Erdogan riceve dai generali alcuni metaforici ceffoni, compreso il divieto di presentarsi alle ultime elezioni politiche per il solo ed esclusivo fatto di aver detto: "I nostri minareti saranno le nostre lance". Per questa strada, la Turchia è dunque diventata l’unico paese islamico a democrazia matura del globo. Così il "quarto potere" militare ha garantito la sconfitta del terrorismo e favorito la nascita di un esecutivo islamico moderato. Oggi, però, l’Unione europea impone ai generali turchi la perdita di tutti i poteri "sovraordinati" e l’islamico Erdogan, naturalmente, obbedisce di buona lena. Oggi un’Europa miope s’interroga su quanto pericolo vi sia che l’islamismo fondamentalista possa vincere le elezioni ad Ankara e non sa neanche di essere stata proprio lei a ordinare di distruggere l’unica diga contro questa iattura. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.