Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Intervista a Elie Wiesel sull'antisemitismo e sui suoi legami con antisionismo e antiamericanismo
Testata:Il Foglio Autore: Marina Valensise Titolo: «Per Wiesel dall'opposizione a Israele all'antisemitismo il passo è breve»
A pagina 2 IL FOGLIO di giovedì 15-12-04 publica un'intervista di Marina Valensise a Elie Wiesel, sul breve tratto che separa l'opposizione a Israele dall'antisemitismo. Ecco l'articolo: New York. Elie Wiesel è un uomo minuto, mingherlino, dà però certe strette di mano vigorose, con quel palmo largo, liscio, energico. Quando gli dici che è una leggenda vivente – sopravvissuto ad Auschwitz e alla Shoah, presidente del Consiglio degli Stati Uniti per il Memoriale dell’Olocausto, Nobel per la pace nel 1986, fondatore della Foundation for Humanity, testimone degli orrori del XX secolo e difensore infaticabile delle vittime di violenze e persecuzioni politiche – si schernisce guardandoti dal fondo dei suoi occhi tristi da rabbino della Transilvania, e risponde di no, che non è vero, lui per sé non è affatto una leggenda. Eccoci qui nel suo studiolo traboccante di libri, al 14° piano della Carlton Tower, nella 64a Strada, Upper East Side. Wiesel, in maniche di camicia con cravatta allentata, indica perentorio il divano su cui sedersi, mentre lui per sé sceglie una sedia, in postazione dominante. Se gli domandi di spiegarti come fa un sopravvissuto all’Olocausto a reggere l’odio nuovo che corre per il mondo e affligge l’occidente, ti guarda fisso. Comincia a scegliere le parole mettendo fra l’una e l’altra lunghe pause, e le scandisce lentamente nel suo americano da rumeno emigrato: "No, l’odio non è nuovo. E’ vecchio quanto il mondo, a volte però raggiunge livelli di guardia per la sua crudeltà, per la brutalità, per gli effetti omicidi che raggiungono certi eventi apocalittici". Ma quando insisti per capire come risponde all’onda nuova di odio venuto dall’islam, Wiesel ammette: "La nuova ondata ha provocato in me più stupore di altre. Perché? Perché dopo la guerra ero convinto che antisemitismo e razzismo, odio etnico e religioso fossero morti ad Auschwitz. E invece mi sbagliavo. Solo le vittime erano morte. L’odio che le ha uccise è ancora vivo". E aggiunge: "Dico stupore, perché allora ingenuamente pensavo che non avrei mai dovuto combattere in questo mondo. Ma dall’11 settembre dobbiamo combattere tutti". Wiesel viene da una famiglia di Hassidim della Transilvania. E’ cresciuto leggendo i libri del Pentateuco e studiando il Talmud. Quando i nazisti arrivarono a Sighet e lo deportarono ad Auschwitz con la sua famiglia era un ragazzo di 15 anni. La madre e la sorella più piccola morirono subito. Le due sorelle maggiori sopravvissero. Elie e il padre furono portati a Buchenwald, dove il padre morì nell’aprile 1945 pochi giorni prima della liberazione, e il figlio riuscì a sopravvivere ai lavori forzati, alle marce nel gelo, alle fame, alle botte, alle torture. Dal 1945 al 1956 Elie Wiesel ha vissuto in Francia, e della giovinezza francese ha conservato la lingua che coltiva a distanza di anni come un tesoro, leggendo i romanzi americani solo in traduzione francese, e pubblicando i suoi libri in Francia prima che in America. Ha appena pubblicato un nuovo romanzo "Les temps de déracinés", mentre sta per finire il terzo volume dell’autobiografia, "Mes maîtres et mes amis". Non si fa illusioni: "La letteratura da qualche decennio attraversa un periodo meno privilegiato di altri. Chi è il nuovo Dostoevskij?Il nuovo Dante? Il nuovo Vittorini? Il nuovo Thomas Mann? Mancano oggi grandi scrittori che affrontino grandi temi per descrivere il presente. Peccato. Io penso che la storia abbia scelto di investire il suo genio e il suo talento altrove, non nella letteratura o nella filosofia, ma nella scienza e nella tecnologia". Pure se la tecnologia porta all’autodistruzione? "E’ la spada biblica all’ingresso del paradiso. Noi creiamo gli strumenti per guarire dalla malattia, e giustificare la vita, e se non facciamo attenzione li trasformiamo in strumenti di morte. Ma alla fine la scelta è solo nostra". Parla di scelta Wiesel come un americano nato, mentre lo è diventato solo da adulto, e da allora conserva intatta la devozione al civismo. "Sono arrivato in America come apolide, da Parigi. Il primo passaporto che ho avuto è stato americano, per questo motivo nutro sentimenti particolari verso tutti gli emigrati accolti da questa terra. Ricordo ancora il tempo in cui le porte d’ingresso erano chiuse per le migliaia di persone, donne, bambini, la maggior parte ebrei, che non riuscivano ad avere un futuro. Ricordo ancora la Saint Louis, la nave sulla quale nel 1939 s’imbarcarano più di mille profughi dalla Germania, che vennero rispediti indietro senza poter attraccare alle coste americane. E nonostante tutto, oggi che commemoriamo il 350° anniversario del primo sbarco di ebrei, sono convinto che il rifugio americano sia molto più ospitale". Un profugo illustre come Wiesel dunque non può che trovare assurdo l’antiamericanismo dilagante. "Chi odia l’America odia anche Israele. E’ strano che un grande paese e un piccolo paese nutrano la stessa avversione. Il perché lei dovrebbe conoscerlo meglio di me, visto che vive in Europa. A volte è un problema politico. Altre volte è un problema di orgoglio nazionale. In certi circoli intellettuali di sinistra fa bene opporsi all’America e denunciare Israele. Ma tutto questo pone un problema di formazione. L’antisemitismo è una piaga che se non si ferma in tempo può invadere pericolosamente altre aree, colpire i sogni di altra gente E se l’opposizione a Israele si fa estrema, si ricade nell’antisemitismo". Per essere uno che porta scritte in faccia le ferite del passato, Wiesel troverà scandaloso il paragone tra lo Stato ebraico e lo Stato nazista, che corre fra gli estremisti d’Europa. "Non hanno idea di cosa fossero Hitler e il nazismo. Quel paragone hanno iniziato a farlo i comunisti sovietici, alla fine degli anni 50, quando l’Izvestija paragonava Moshe Dayan a Eichmann. Ma se Dayan era Eichmann, Eichmann non poteva essere Dayan. Tra i due c’era la differenza di sei milioni di morti. Quando leggo oggi che Israele sarebbe uno Stato nazista, e Sharon un nuovo Hitler, a colpirmi personalmente e profondamente è non solo l’ingiustizia, ma l’ignoranza che il paragone contiene". Wiesel non vuole polemizzare con chi vi indulge, ma lancia un giudizio severo. "Gli intellettuali, anche quando mostrano cosa li oppone ad altri, dovrebbero continuare a creare ponti, siano essi dialoghi o monologhi, il che significa usare le parole, non la guerra. Gli intellettuali della sinistra europea invece mettono un tale zelo nella denuncia di Israele, che a volte mi domando se si rendano conto di avere di fronte un popolo dalla memoria ferita e mutilata". Si sarebbe mai aspettato di dover combattere contro l’islam? "No. Islam e giudaismo hanno convissuto per secoli in armonia. A volte certo ci sono stati pogrom e catastrofi, ma l’islam nel Medioevo era solito proteggere gli ebrei dalle persecuzioni cristiane. Ora, invece, è diventata una minaccia sia per Israele, sia per le democrazie nel mondo, e non solo in America. Il terrorismo suicida trascende i confini geografici delle affinità religiose. E in realtà minaccia lo stesso mondo islamico, come dimostrano gli attentati in Marocco, in Indonesia, in Spagna e in altri paesi". Quanto all’angoscia di un nemico invisibile, contro il quale non può valere alcun deterrente, Wiesel cerca di aggirarla con una proposta: "Il suicidio per molti musulmani è l’arma assoluta. Il culto della morte è un fenomeno pericoloso. Ma un terrorista suicida vuole morire per uccidere il maggior numero di persone. E’ per questo che ho proposto di considerare il terrorismo un crimine contro l’umanità. Non che questo fermi la mano dei terroristi suicidi. Ma può servire a fermare i loro complici. Perché su chi compie un crimine contro l’umanità non c’è limitazione statale, e c’è l’obbligo da parte di tutti i paesi membri dell’Onu di estradarli e di portarli davanti a un tribunale internazionale". Congedandoci Wiesel mostra grande saggezza talmudica: "Quando sono pessimista divento ottimista e viceversa. Ma resto un insegnante, e non ho il diritto di dare ai miei studenti ragione di disperare, perciò devo invocare la speranza, che non è un arma, ma un’arte di ispirare alla gente l’idea di futuro, di una vita comune, di un sogno condiviso dall’intera umanità". Marina Valensise Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.