Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Rischi e opportunità del dopo Arafat e inoltre: i progetti nucleari iraniani e i pericolosi compromessi europei
Testata:Il Foglio Autore: Emanuele Ottolenghi - Claudio Pagliara - un giornalista Titolo: «Lo scontro tra Suha Arafat e l'Anp rischia di essere soltanto l'inizio - Senza rais e con Netanyahu, la Sharon Map può ripartire da Gaza - L'Iran nucleare vuole prendere tempo, l'Europa glielo concede»
Da pagina 4 del supplemento del FOGLIO di oggi, 09-11-04, riportiamo un articolo di Emanuele Ottolenghi sul rischio del caos e le opportunità nel dopo-Arafat: "Lo scontro tra Suha Arafat e l'anp rischia di essere soltanto l'inizio." Lo scenario che si apre con l’uscita di scena di Yasser Arafat si presenta caotico, ma accanto ai rischi offre opportunità. Fino in fondo fedele alla sua eredità politica, la morte di Arafat riflette quello che Arafat ha fatto ed è stato in vita. Le caratteristiche del leader palestinese sono sempre state l’ambiguità, l’evasione dalla responsabilità e la doppiezza negli impegni presi, ma anche la mancanza di una strategia di lungo periodo. La grande qualità di Arafat è sempre stata quella di eccellere nei momenti di crisi, riuscendo a ribaltare situazioni disastrose, spesso da lui stesso create, in vittorie ai punti o in pareggi o impasse che lui soltanto avrebbe saputo poi risolvere. Ma la più grande colpa di Arafat forse sta nel giudizio politico: nei momenti critici, ha sempre sbagliato, complicando le cose per la sua causa e per i paesi arabi che la sostengono. Tutto ciò, con la sua tendenza accentratrice nella gestione del potere, ha sempre fatto di lui una figura indispensabile, nel bene e nel male, per la causa palestinese. Timoroso di qualsiasi possibile sfida alla sua autorità, Arafat ha tenuto l’esclusivo controllo di forze di sicurezza e finanze, i due strumenti di potere che garantiscono la sopravvivenza alle dittature arabe. Nulla ha fatto per garantire una transizione indolore, per investire del potere una nuova leadership, per evitare la lotta intestina che quasi sicuramente seguirà la sua scomparsa. Muore lasciando un vuoto di potere. La questione più urgente ora è creare meccanismi atti a prevenire il più possibile lo scontro tra leader e fazioni nei territori. Arafat, nella sua foga accentratrice e nel suo potente ruolo di padre della nazione e simbolo unificatore delle forze politiche e delle istanze tribali palestinesi, era riuscito, con la sua presenza e la generosa distribuzione di fondi, a mantenere un fragile equilibrio. Con la sua dipartita, l’equilibrio rischia d’incrinarsi. Arafat non ha predisposto un meccanismo per una transizione ordinata. Lo scontro in corso a Parigi tra la moglie Suha e i vertici dell’Autorità palestinese verte innanzitutto sui fondi ma anche su chi comanderà nel dopo Arafat. La leadership attuale proietta moderazione e ha le carte in regola per riaprire un negoziato con Israele, ma non ha il sostegno popolare e il controllo dei centri nevralgici del potere – finanze e sicurezza – per imporre la propria autorità e far prevalere l’ordine. L’epicentro della possibile crisi sarà quasi sicuramente Gaza, non solo per le conseguenze dovute al futuro ritiro israeliano che apriranno un ulteriore vuoto e uno scontro tra fazioni nella Striscia, ma anche per il fatto che la fine dell’influenza del rais porterà in superficie le tensioni tra i vari capi dei servizi di sicurezza. Tutti i movimenti e gli incontri avvenuti nei giorni scorsi hanno Gaza come comune denominatore: la visita di Abu Ala e l’incontro tra Mussa Arafat e Rashid Abu Shbak, tra gli altri, mirano a ridurre il più possibile il rischio di scontri e caos. Il tentativo di imporre un’autorità unica e centrale a Gaza costerà molto a chi controlla i traffici di armi e merci, gli aiuti economici da distribuire e le altre attività ora gestite a Gaza da molti personaggi locali. Un’occasione per l’Egitto e per la Giordania Gli scontri che si potrebbero verificare a Gaza non sono limitati a un possibile showdown tra Hamas e Autorità palestinese, ma possono anche riflettere divisioni di carattere locale e famigliare, non ideologico, tra leader che temono una perdita di potere oltre che un eccessivo peso assegnato a clan e capi con base nella Cisgiordania. La sfida immediata è dunque quella di evitare il peggio, puntando a misure conciliatorie tra i vari potenziali pretendenti al potere. Tutto questo suggerisce un possibile scenario di breve periodo, già parzialmente delineatosi: una leadership collettiva transitoria gestirà l’Autorità palestinese, cercando di ridurre al minimo il rischio di anarchia. In ossequio alla Carta nazionale palestinese, la leadership cercherà forse di organizzare nuove elezioni, anche senza entusiasmo, visto che su tale strumento punta la nuova generazione locale di leader formatisi durante le due Intifade che potrebbe spodestare la vecchia guardia dell’Olp ormai priva di una base popolare di sostegno. Il caos sembra essere la maggior preoccupazione anche di egiziani e giordani, oltre che degli altri paesi arabi. A parte la Siria, la cui militanza ideologica e allineamento con i gruppi più oltranzisti sembra indicare un ruolo destabilizzante, Giordania ed Egitto mirano a ridurre il più possibile le tensioni nei territori, a partire dal rischio di degenerazione violenta del funerale di Arafat, le cui dinamiche sono probabilmente parte dei correnti negoziati tra Israele e palestinesi, attraverso canali diplomatici francesi e americani. Il funerale anzi potrebbe avere un ruolo positivo, se come sembra Arafat sarà sepolto a Gaza e se al funerale potranno partecipare leader arabi. La necessità di imporre la calma e di garantire la sicurezza dei dignitari in visita richiederà, oltre a un coordinamento con e a un ruolo costruttivo giocato da Israele, un contributo attivo di Egitto (e Giordania, che vuole evitare una sepoltura di Arafat a Gerusalemme per non danneggiare il ruolo giordano sulle moschee), aumentandone la capacità mediatoria e l’influenza. Di fronte alla fragilità della leadership palestinese nel dopo Arafat si può presumere un aumento del ruolo egiziano a Gaza in funzione positiva. L’Egitto ha interesse a rafforzare una leadership palestinese moderata, spingendola a puntare su un coordinamento con Israele per il ritiro da Gaza. L’Egitto potrebbe anche esercitare pressioni su Hamas per dichiarare un cessate il fuoco, forse in cambio di una promessa di elezioni da parte dell’Autorità palestinese. Per Egitto e Giordania la crisi offre la possibilità di aumentare il proprio peso nella regione, anche per arginare la penetrazione iraniana e siriana sulla scena palestinese Sempre a pagina 3 un informasto articolo di Claudio Pagliara: "Senza rais e con Netanyahu, la Sharon Map può ripartire da Gaza" Gerusalemme. Alla fine si sono incontrati, dopo 15 giorni di gelo. Il premier Ariel Sharon e il suo rivale Benjamin Netanyahu si sono ritrovati, uno accanto all’altro, alla riunione del gruppo parlamentare del Likud. L’ultima foto che li ritraeva insieme era nell’aula del Parlamento, trasformata in arena, il giorno del voto a favore del piano di disimpegno unilaterale da Gaza e dal nord della Cisgiordania. Sono passate due settimane, ma la storia ha voltato pagina proprio in questo piccolo lasso di tempo. Il voto della Knesset, la riconferma del presidente americano George W. Bush e l’uscita di scena di Yasser Arafat. Difficile immaginare concatenazione di eventi più favorevole per il premier. Una congiunzione che ha messo nell’angolo i suoi oppositori. E ieri ha costretto Netanyahu a una poco gloriosa retromarcia. Ha ritirato la sua minaccia di dimissioni. Si è accontentato che il gruppo parlamentare del Likud facesse proprio il progetto di legge per indire un referendum sul piano di Sharon. Un atto puramente formale. Il premier ha ribadito la sua contrarietà al voto e senza il suo sostegno non c’è alcuna matematica possibilità di trasformare in legge il testo. Resta il problema di come applicare un piano che lacera il paese senza una maggioranza precostituita. Il Partito nazionale religioso, che si era già spaccato in due, ha deciso ieri di lasciare il governo. Ora il premier conta solo 55 voti su 120. Prima o poi il problema dell’allargamento della maggioranza si porrà. E l’unico modo per risolverlo è quello di coinvolgere il Partito laburista. Che potrebbe anche dare un sostegno esterno, con la promessa di elezioni anticipate il prossimo autunno quando Israele sarà uscito da Gaza. Sharon intanto non si stanca di ripetere che le cose stanno rapidamente cambiando. Il medio oriente senza Arafat non è più lo stesso. E il presidente Bush, che dopo il deragliamento della road map è rimasto sostanzialmente alla finestra, ora che ha ottenuto la seconda investitura cercherà sia a Gerusalemme sia a Baghdad un risultato che inscriva il suo nome nei libri di storia. Paradossalmente proprio il disimpegno da Gaza, la più unilaterale delle mosse israeliane, è destinato a diventare il banco di prova per la nuova leadership che cerca d’affermarsi a Ramallah. Abu Mazen, in passato, ha fatto conoscere tutta la sua disapprovazione per quella che impropriamente viene chiamata seconda Intifada, e che per dirla con le parole di Shimon Peres è stata espressione dello scippo della politica palestinese da parte dei gruppi terroristici. Già quando assunse, con la benedizione americana, l’incarico di primo ministro, Abu Mazen dimostrò di avere un canale efficace in Hamas, convincendo l’organizzazione islamica a un tregua, sia pure temporanea e rotta pochi mesi dopo. Allora, lavorò contro di lui, incessantemente, proprio il rais Yasser Arafat. Ora la road map potrebbe ripartire proprio da Gaza. Dall’Amministrazione americana sono già arrivati segnali in questo senso. Israele è sostanzialmente d’accordo. "Coordinare il disimpegno con l’Autorità nazionale palestinese – dice al Foglio Jonatan Bassi, capo del Sela, l’organismo governativo incaricato di convincere gli abitanti degli insediamenti a fare le valigie – aumenterà le chance di successo. Sarà meglio per noi e anche per loro". Se la nuova leadership avrà il volto pragmatico di Abu Mazen il tavolo dei negoziati verrà immediatamente riaperto. Un ritiro coordinato da Gaza sarà l’obiettivo immediato, inserendo quello che è nato come un passo unilaterale, in assenza di una leadership palestinese, dentro il percorso della pace, che prevede la proclamazione di una Stato palestinese con confini provvisori prima di affrontare i grandi nodi della discordia: la questione dei rifugiati, le compensazioni territoriali per gli insediamenti più grandi che è irrealistico che Israele possa mai smantellare, e in ultimo, Gerusalemme. Nei prossima passi, essenziale sarà anche capire cosa avviene sull’altro fronte, quello dell’opposizione laburista, che è disposta ad appoggiare Ariel Sharon in cambio di elezioni anticipate il prossimo autunno. In questi quindici giorni che promettono di cambiare il volto del medio oriente molto si è mosso anche da questa parte. L’ex premier Ehud Barak, l’uomo di Camp David, è sceso ufficialmente in campo, annunciando che concorrerà per la leadership del partito contro Shimon Peres. Ma per avere una chance di vincere contro uno Sharon in questo momento senza rivali ha bisogno di alleati popolari. Il gran corteggiato è un uomo che non ha mai avuto la tessera del Partito laburista: l’ex capo di Stato maggiore Ami Ayalon, promotore di una raccolta di firme da parte israeliana e palestinese attorno a un’ipotesi di soluzione del conflitto che raccoglie estesi consensi a sinistra, ma ciò che è più importante, anche al centro, che come sempre deciderà la prossima partita elettorale Infine "L'Iran nucleare vuole prendere tempo, l'Europa glielo concede", sui programmi nucleari sel regime degli ayatollah e sui pericoli della strategia di compromesso adottata dall'Europa. Roma. L’accordo raggiunto sul nucleare domenica tra tre potenze europee, Francia, Germania, Regno Unito, e l’Iran racconta due politiche estere che hanno difficoltà a incontrarsi. Le grandi distanze che separano l’America dalla vecchia Europa, ormai comunemente identificate con l’espressione "crisi delle relazioni transatlantiche", prendono la forma, anche, di due modi completamente diversi di fare diplomazia. Così, mentre Bruxelles conclude i negoziati per la firma di un accordo di associazione economica con la Siria, scordandosi però dei diktat dell’Unione europea che vorrebbero intese soltanto con paesi con la fedina dei diritti umani immacolata, gli Stati Uniti impongono invece sanzioni al governo di Damasco con l’intento di fermare l’infiltrazione di terroristi e miliziani attraverso i porosi confini con l’Iraq e di scoraggiare l’appoggio del regime a movimenti quali Hezbollah e Hamas, che hanno sedi in terra siriana. La stessa diversità caratterizza l’approccio con l’Iran nucleare. Teheran sostiene di non aver alcuna intenzione di costruire un arsenale atomico e di volere soltanto portare a termine un programma nucleare civile. Argomento che non convince molti, che si chiedono perché mai l’Iran smani per una difficilmente raggiungibile energia atomica, quando è ricco di gas e petrolio. Secondo gli esperti israeliani, il regime degli ayatollah, estremo di quell’asse del male che rimane tra i principali obiettivi della nuova Amministrazione Bush, se il suo programma nucleare non vedesse presto la fine, potrebbe sviluppare in pochi anni armi atomiche. Con l’accordo di domenica, raggiunto a Parigi dopo due giorni di discussioni, Teheran s’impegna ad arrestare la produzione di uranio arricchito fino al raggiungimento di un’intesa con l’Unione europea che garantisca al paese, in cambio dell’abbandono del programma nucleare, incentivi economici e cooperazione tecnologica, premi cui Teheran avrà diritto una volta abbandonato per sempre il cammino atomico. Ma si tratta di un congelamento, di un accordo a metà, perché le quattro capitali devono ancora dare il proprio pieno assenso e perché, appunto, si tratta di un’intesa temporanea. L’Iran ha rifiutato una sospensione totale del suo programma, chiedendo che una commissione formata da esperti francesi, inglesi, tedeschi e iraniani s’incontri un’altra volta tra sei mesi per tornare sul problema. Fino ad allora però s’impegna ad arrestare le sue attività. Eppure, poche ore prima del vertice di Parigi, l’ayatollah Ali Khamenei, leader supremo iraniano, ha dichiarato che Teheran non ne vuole sapere di un arresto prolungato della produzione d’uranio arricchito. Le trattative che hanno coinvolto le cancellerie dell’Europa e gli ayatollah sono in realtà il tentativo di evitare che gli Stati Uniti, la cui diplomazia è meno dilatoria di quella europea e muscolarmente più interventista, trasferiscano la questione al Consiglio di sicurezza dell’Onu, come hanno più volte minacciato di voler fare. L’importante per Teheran è passare indenne la data del 25 novembre, giorno in cui si riunirà l’Agenzia atomica internazionale, che potrebbe rimandare la questione Iran al Consiglio di sicurezza. Washington insiste sulla necessità di una sospensione totale della produzione d’uranio arricchito e desidera portare il caso davanti alle Nazioni Unite il prima possibile, anche se ha accettato di con- cedere un’ultima possibilità di trattativa, consegnata alle cure dell’Unione europea. C’è una componente di delega da parte dell’Amministrazione Bush, che un po’ frastornata dopo il frenetico periodo elettorale, non ha probabilmente ancora elaborato nel dettaglio una politica definitiva nei riguardi dell’Iran. E rimane a guardare se l’Europa riesce in qualche modo a trovare una soluzione, confidando soprattutto nelle capacità dell’alleato per eccellenza, quello britannico. Washington, che si riserva d’intervenire portando la questione al Palazzo di vetro in caso di fallimento, sembra temere il non felice precedente. Nell’ottobre del 2003, infatti, Bruxelles e Teheran avevano già siglato un accordo sulla proliferazione nucleare, simile a questo. L’intesa si sfaldò nel giro di sei mesi e gli incentivi europei non arrivarono mai in terra persiana. Mohammed El Baradei, capo dell’Aiea, si è rivolto alla comunità internazionale, allarmato per le minacce di terrore atomico. Dice che programmi nucleari mai dichiarati, come quelli in Iran, Libia e Corea del nord sono la prova dell’esistenza di un mercato illecito di materiale pericoloso. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.