Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Antisemitismo in Ambasciata e all' Università. Cristiani perseguitati nell' "Islam moderato" cronache dell'intolleranza e dell'odio
Testata:Il Foglio Autore: un giornalista - Giulio Meotti - Carlo Panella Titolo: «Le carte segrete della storica gaffe dell'ambasciatore Roberts - Pisa antiebraica -»
Il FOGLIO di oggi, 28-10-04, pubblica l'articolo a pagina 2 dell'inserto, "Le carte segrete della storica gaffe dell'ambasciatore Roberts", che di seguito riproduciamo: Roma. Non ce ne voglia Jack Straw, ministro degli Esteri di sua maestà britannica, se ritorniamo sull’argomento. Ma a nostro avviso Sir Ivor Roberts, ambasciatore della stessa maestà qui nella nostra beneamata città eterna che fu di imperatori, papi e gerarchi (certo non una tradizione solidamente democratica e sempre rispettosa delle minoranze), dovrebbe essere con grazia e discrezione quantomeno interrogato per avere qualche spiegazione in più su un evento spiacevole e inusuale soprattutto per un rappresentante di una potenza atlantica, europea, alleata di Washington e di Roma nella guerra al terrorismo e nell’opera di pacificazione e ricostruzione dell’Iraq. Antefatto. Dal 17 al 19 settembre Sir Ivor Roberts, in compagnia di tante eccelse e illuminate menti del centrosinistra europeista inglese e italiano, stava assiso in quel di Pontignano, in similmente nominata Certosa, vicino a Siena. Tra gli ulivi, le vigne e i gentili declivi toscani, all’ombra del sobrio chiostro e certamente ispirati da buona cucina e generose mescite di Chianti, gli illuminati hanno proceduto – come ricorda lo stesso Straw in una lettera scritta e inviata la settimana scorsa a Neville Nagler, direttore del Board of Deputies of British Jews, l’organizzazione che rappresenta le comunità ebraiche inglesi – a discutere animatamente per due giorni di "Età dell’Europa", tema dell’annuale raduno organizzato dal British Council, braccio culturale di sua maestà nei cinque continenti. Ricorda Straw al Board che al convegno vigevano le regole di Chatham House, edificio situato nella Piazza di St. James, a due passi da Piccadilly Circus e dai più eleganti sarti londinesi di Vermyn Street e Savile Row, dove il governativo Royal Institute of International Affairs discute da generazioni ormai di politica estera, nella speranza d’illuminare i ministri con saggezza e acume. Regola cardine del vetusto istituto è che, come ricorda Straw nella suddetta lettera, "quando un incontro o parte di un incontro avviene secondo le regole di Chatham House, i partecipanti sono liberi di usare le informazioni ricevute, ma l’identità o l’affiliazione istituzionale dell’oratore non possono essere rivelate". Traduzione: si dice il peccato, ma non il peccatore. Perché Straw ricorda al Board le regole di Chatham House? Perché secondo un articolo del Corriere della Sera del 20 settembre, ripreso da centinaia di quotidiani in più di cinquanta paesi, tra cui il Times di Londra, all’ambasciatore veniva attribuito, al condizionale viste le suddette regole, un eccelso commento. L’ambasciatore avrebbe detto che "se qualcuno è pronto a celebrare l’eventuale rielezione di Bush, quello è al Qaida", aggiungendo che Bush era "il miglior sergente reclutatore di al Qaida" e che invece John Kerry "sarà molto più ragionevole e arrendevole coi palestinesi, e terrà testa alle pressioni della lobby ebraica a Washington". Di quest’ultima frase il direttore del Board chiedeva a Straw di render conto in una lettera del 21 settembre, nel quale notava come, se i commenti fossero effettivamente stati pronunciati dall’ambasciatore britannico, "essi rivelano un grado di pregiudizio e antisemitismo che in un esperto diplomatico è assolutamente inaccettabile". Sir Ivor, nel frattempo, aveva lasciato il consiglio di saggi riuniti all’ombra dei cipressi di Pontignano ed era ritornato nell’urbe, limitandosi a rilevare come quei commenti non riflettessero le sue opinioni personali, ma non facendo nulla per smentirne l’origine. Nemmeno Straw, rispondendo in una lettera del 18 ottobre ora integralmente pervenuta al Foglio, smentisce l’avvenuto. Si limita a rispondere alle educate e discrete proteste del Board citando la regola di Chatham House e chiudendo, a suo avviso, il discorso con la laconica e diplomatica frase: "Non sarebbe appropriato per me fare commenti su un articolo scritto da qualcuno che non era alla conferenza e fondato su una selettiva citazione di presunti commenti". Traduzione: o avete le prove oppure smettetela di rompere scatole. Carteggio alla mano e in tutta umiltà, verrebbe da far notare al ministro degli Esteri di sua maestà le seguenti cose: a più d’un mese dall’accaduto, né l’ambasciatore né il ministro hanno smentito nulla o negato che i commenti siano stati espressi nel corso dell’incontro di Pontignano. Né alcuno dei partecipanti ha dichiarato che tali commenti non siano stati fatti e che il giornalista del Corriere della Sera se li sia inventati. Possiamo quindi notare come le frasi riportate dall’autorevole giornale italiano e successivamente dalla stampa internazionale siano innegabilmente state dette da qualcuno, non siano state citate in maniera faziosa o selettiva, ma fedelmente, e che chi le ha pronunciate – chiunque esso sia – appartenga a buon merito alla categoria delle persone che coltivano pregiudizi antisemiti e non sia proprio l’esempio perfetto di diplomatico (sempre se lo fosse, ovviamente) di un paese alleato degli Stati Uniti in Iraq e non solo. Ora, lungi da noi il voler additare Sir Ivor per aver detto cose la cui paternità non è dato attribuirgli, e lungi da noi il voler additare il suo datore di lavoro in questo suo ripararsi dietro le regole di Chatham House per non fare l’atto dovuto, cioè o smentire seccamente oppure chiudere l’argomento diplomaticamente invitando Roberts a spiegare, smentire o magari traslocare, senza troppo rumore, tra qualche mese. Ci permettiamo invece di notare, sempre lettere in pugno, che la risposta del ministro di un governo che, senza dubbio, è "impegnato contro la discriminazione razziale e l’incitamento all’odio razziale, a livello nazionale e internazionale", non dà spiegazioni, pare inoltre "riservata", troppo riservata, per far considerare dimenticato un incidente che, nel bene e nel male, è comunque diventato di pubblico dominio. A pagina 4 del FOGLIO di ieri, 27-10-04, Giulio Meotti presenta, sotto il titolo "Pisa antiebraica" una panoramica inquietante di atti di antisemitismo nel mondo. Ecco l'articolo: Roma. "Bisogna guardarsi da un nemico silenzioso", recita un proverbio yiddish. Sui muri di via Festa del Perdono, sede dell’Università Statale di Milano, dopo molti anni è comparsa la scritta "Boicotta Israele". Negli anni Ottanta, parlando di una docente ebrea, capitava che una studentessa dicesse: "Guarda com’è benvoluta e circondata. E pensare che pochi anni fa sarebbe diventata una saponetta". O che due studentesse discutessero così di regali natalizi: "Ho comprato un’agenda di pelle. Di ebreo naturalmente". O che un docente invitato a una conferenza esternasse: "Assumete dei prof. ebrei? Una volta non potevano insegnare". Mentre negli Stati Uniti il Congresso ha approvato il Global Anti-Semitism Awareness Act, un monitoraggio annuale sul fenomeno, in una piazza di Oslo è stata eretta una statua con una stella di David inzuppata nel sangue, nelle parole "morte" e "Sabra e Chatila". Stando a ciò che è emerso ieri dal Senato accademico di Pisa, il Rettore reinviterà il consigliere Shai Cohen. Mai come oggi però le parole di Martin Luther King furono più vere: "Dichiari di non odiare gli ebrei, di essere semplicemente antisionista. Quando qualcuno attacca il sionismo intende gli ebrei". Anche dopo la vicenda, a Pisa circola un volantino: "Israele è la testimonianza di come lo stato e il capitale possono mostrare il loro volto più feroce". Però c’è un’altra Pisa, senza olezzo antagonista, la Pisa a volto scoperto, che studia, viaggia, stringe mani e accordi. Il 9 dicembre 2003 l’Università ha firmato una convenzione con l’International Institute for Holocaust research dello Yad Vashem. Nei giorni dell’agguato a Cohen, tra il 10 e il 15 ottobre, a Gerusalemme c’è stato un seminario congiunto e l’11 novembre inizierà un ciclo di incontri. Pisa è la prima università italiana, purtroppo l’unica, ad aver attivato un centro di studi ebraici, presieduto da Michele Luzzati. Si sta lavorando a una ricognizione di tutte le epigrafi del cimitero ebraico della città e d’accordo con le università israeliane si terrà il nono convegno internazionale "Italia Judaica". E’ in progetto il catalogo dei libri ebraici delle biblioteche pisane. A Roma invece all’Università La Sapienza, insegnano docenti come Rita di Leo, che chiama Colin Powell "il giamaicano" e si compiace che i terroristi "tengono sulla graticola degli attentati quotidiani i generali latinos che vengono da West Point". L’Unione delle Università del Mediterraneo, presieduta dal rettore della Sapienza, Giuseppe D’Ascenzo, ha sedi al Cairo e Algeri, e nel suo board uno sciame di docenti di Tunisi e Nablus, ma nemmeno un israeliano. Affiliate a Unimed sono le università di "Palestina", tra cui quella di Nablus, An Najah. Najah è la roccaforte di Hamas in Cisgiordania. Sari Nusseibeh ci rischia la pelle quando va a parlare di accordo con Israele. E’ l’università da cui sono usciti moltissimi kamikaze, dove nel luglio scorso Hamas progettava una serie di attentati. E’ l’università di Samaa Atta Bader, una studentessa fermata prima di farsi esplodere, che ha detto: "Ho deciso di sacrificarmi uccidendo più soldati che potevo". Unimed organizza conferenze sugli Hezbollah, ha il benestare della Lega araba e nella sua rassegna stampa fa bella mostra di articoli di El Watan, Al Ahram, Al Arabi sui "bambini vittime dell’aggressione israeliana", analisi dell’Unicef sul "mondo pieno di tante Beslan dimenticate" e dell’Unrwa che "cerca l’appoggio mondiale per porre termine alle sofferenze del popolo palestinese". "L’odio rende produttivi", scriveva Karl Kraus. La Sapienza ha organizzato un convegno sull’antisemitismo, poi fallito, invitando Tariq Ramadan, e un altro sull’acqua in medio oriente, millantandolo come scientifico. Si è concluso con un video sul "Muro sionista". Ma non ci si meraviglia più di niente, nemmeno che il giornale Maariv riferisca che il Brasile ha proibito ai coloni israeliani di adottare bambini brasiliani. Ci mancava però la notizia che un dipartimento di un’università italiana è affiliato col bacino di utenza di Hamas. Tutto questo si fa, ovviamente, in nome della pace, la stessa per cui l’avvocato Robert Jancu si era presentato a una manifestazione di New York con il cartello "Sionisti per la Pace". Uno degli organizzatori lo ha aggredito: "Chi ti ha detto che si trattava di una dimostrazione per la pace? A pagina 2 dell'inserto di oggi, IL FOGLIO pubblica anche l'articolo di Carlo Panella "Non solo Baghdad, contro i cristiani pure gli Stati arabi "moderati" ", che fa il punto sull'intolleranza e le persecuzioni religiose anticristiane nell'Islam. Ecco l'articolo: Gli attentati che il 16 ottobre hanno profanato a Baghdad la chiesa caldea di San Joseph, nel quartiere Nafaq al Shurta, quella ortodossa di San Jacob e San George nel quartiere di Doura, la chiesa cattolica di rito latino a Karrada, e quella siro-antiochena di S. Thomas a Mansour, sono diversi dagli altri. Questi attentati dimostrano infatti che i cristiani iracheni – che già fuggono in massa dal paese – rischiano di vivere come i cristiani di tutti i paesi arabi e islamici moderati: perseguitati, impossibilitati a fare proselitismo, ammazzati, come risulta dalla lista degli 88 uccisi negli ultimi mesi pubblicata dalla Fides. All’agenzia Fides il laico Elias, siriaco-cattolico iracheno, affida la sua richiesta d’aiuto alla Chiesa: "Le famiglie cristiane hanno paura per questo molte fuggono dal paese". E’ finito il privilegio garantito dal cristiano Tareq Aziz, numero due del regime di Saddam Hussein, che aveva cooptato le comunità cristiane (800 mila iracheni, il 3 per cento della popolazione) all’interno del blocco sociale ristretto che godeva della protezione del regime baathista. Con le stragi del primo agosto, che hanno fatto una decina di morti nelle chiese di Baghdad e Mosul, i cristiani iracheni hanno iniziato lo stesso calvario di persecuzione che da vent’anni sopportano i loro confratelli pachistani, molucchesi, egiziani, yemeniti, algerini, sudanesi, nigeriani. E’ dagli anni 80, infatti, che in tutto il mondo musulmano è iniziata una persecuzione di cristiani, con decine di migliaia di martiri (quelli veri, che subiscono innocenti la morte, non quelli islamici, che si uccidono per sterminare innocenti), con apice di crudeltà nei paesi musulmani "moderati". Il fenomeno si è sommato alla proibizione di praticare la fede cristiana in vigore dal 1930 nella "moderata" Arabia Saudita, in cui la pena per l’esibizione di un crocefisso è la morte. E’ un fenomeno radicale e diffuso, denunciato raramente e sottovoce dalla Chiesa cattolica e dallo stesso Giovanni Paolo II, con una scelta tra le più misteriose del suo pontificato. Le grandi organizzazioni religiose impegnate nel "dialogo interreligioso" occultano il fenomeno con testardaggine mentre quelle laiche, come le Acli, ne parlano soltanto per sostenere che "questi cristiani morti pagano con la loro vita il prezzo di guerra illecita e sbagliata che gli Stati Uniti hanno condotto imbrogliando la comunità internazionale", accusando dunque Washington d’esserne la causa con un trucco temporale che ignora migliaia di martiri cristiani innocenti uccisi prima del marzo 2003 nei paesi musulmani. Il culmine della tragedia delle persecuzioni di cristiani e della decisione della Chiesa cattolica di "porgere l’altra guancia" in silenzio, si ebbe in Pakistan il 7 maggio 1998, quando John Joseph, 62 anni, vescovo di Faisalabad, la terza città del paese, dopo aver pronunciato un appello all’unità di cristiani e musulmani, si suicidò con un colpo di pistola alla tempia, dopo essere andato, alla testa di un gruppo di fedeli, davanti a un tribunale in cui era stato condannato a morte il 28 aprile precedente un suo fedele cristiano, Ayub Masih, accusato in base alla "legge contro la blasfemia", promulgata dal dittatore Zia-ul-Haq. Il Vaticano non commentò il gesto; attenzione e condoglianze arrivarono soltanto dalla Fides e da Radio Vaticana. Quella terribile scelta del vescovo di dare scandalo, racchiudeva in sé tutta la drammaticità del contesto, delle motivazioni. Esprimeva la chiara volontà di immolarsi platealmente per sfidare la persecuzione pachistana e insieme per chiamare con il proprio sangue innocente l’attenzione delle gerarchie della Chiesa di Roma, del pontefice. Non ebbe soddisfazione. Roma tacque, il pontefice tacque. Eppure, la persecuzione dei cristiani in Pakistan, la condanna a morte di Ayub Masih e di tanti altri, sono di una gravità eccezionale, proprio perché sono espressione di quella cultura islamica che viene definita "moderata", perché sono attuate dallo Stato con nuovi codici che la sanciscono. E’ una "persecuzione islamica di Stato" non inquinata, come troppo spesso si dice per quelle in atto in Nigeria, Sudan (due milioni di morti in vent’anni), Egitto e Molucche, per relativizzarle, da conflitti etnici. La condanna a morte di Ayub Masih, comminata da un tribunale di Stato, era una delle tante condanne a morte, sempre accolte nel quasi silenzio dal Vaticano, o ad altre pene emesse sulla base di un’"islamizzazione" dello Stato che il "laico" generale Zia-ul-Haq, dittatore pachistano, peraltro totalmente appoggiato dagli Stati Uniti, ha introdotto dal 1977 in poi. Dopo aver portato a termine un colpo di Stato e avere impiccato il leader laico Alì Bhutto, dando piena soddisfazione alla piattaforma dell’ideologo fondamentalista Sayyd al Mawdudi e del suo movimento Jama’ e Islami, Zia-ul-Haq ha modificato leggi e Costituzione abbandonando i codici ispirati alla Common Law. La Repubblica islamica che in Iran è nata con la rivoluzione dell’ayatollah Khomeini, in Pakistan si è imposta dall’alto, avendo come elemento trainante le élite militari (che poi sceglieranno Osama bin Laden e i talebani per fare dell’Afghanistan un protettorato del Pakistan). E’ stata così introdotta la più rigida versione della Legge coranica, la sharia, che vieta ogni forma di proselitismo religioso cristiano, equiparata all’apostasia e permette il culto solo dei già convertiti. Questo processo si è sviluppato, in forme più contorte, anche in Egitto, dove, nei fatti, lo Stato si fa carico di perseguitare il proselitismo cristiano: 12 musulmani che si sono convertiti al cristianesimo copto sono in prigione nel basso Egitto, con l’accusa di "apostasia". Quello che è più grave e che ha conseguenze ancora più funeste, è che questa messa al bando del proselitismo cristiano e quindi la legittimazione della persecuzione dei cristiani è teorizzata in quel vero e proprio manifesto dell’islam "moderato" che è la Dichiarazione islamica dei Diritti dell’Uomo. Approvata all’unanimità 1l 5 agosto 1990 al Cairo da tutti e 54 gli Stati musulmani, teorizza nel suo articolo 10 che l’islam "è una religione intrinsecamente connaturata all’essere umano" e quindi proibisce il proselitismo di altre religioni verso i musulmani. La persecuzione dei cristiani sviluppata dall’islam "moderato" e dagli Stati musulmani "moderati" fa dunque da fondamenta, da sfondo, da giustificazione delle persecuzioni dei cristiani da parte degli islamici fondamentalisti e terroristi. I quattro religiosi dei Padri Bianchi uccisi in Algeria il 28 dicembre ’92; i sette monaci trappisti sgozzati in Algeria nel maggio ’96; il vescovo cattolico di Orano, Pierre Clavarie, trucidato il 2 agosto ’96; le tre suore missionarie della carità, la famiglia religiosa fondata da Madre Teresa di Calcutta, uccise ad Hodeida, in Yemen il 27 luglio ’98; i 18 cristiani pachistani massacrati in un attentato a Bahawalpur, nella provincia del Punjab il 28 ottobre 2001, i tre missionari massacrati in Yemen il 30 dicembre 2002 sono frutto d’iniziative "private" di musulmani che si arrogano il diritto di supplire a una prescrizione di legge in vigore anche negli Stati musulmani moderati. Questo tema rivela i legami profondi, biunivoci, tra il terrorismo islamico e un contesto musulmano "moderato" che ne supporta e motiva gesti e stragi. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. 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