Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Credere alle dittature, non alle democrazie anche contro ogni logica
Testata:La Repubblica - L' Unità Autore: Giuseppe D'Avanzo - Umberto De Giovannangeli Titolo: «Terrorismo se il colpevole è solo Al Qaeda - Taba, dopo la solidarietà sospetti tra egitto e Israele»
In prima pagina LA REPUBBLICA di oggi, 13-10-04, pubblica l'editoriale di Giuseppe D'Avanzo "Terrorismo se il colpevole è solo Al Qaeda". D'Avanzo muove da una ricostruzione incompleta delle dichiarzioni del presidente egiziano Mubarak, che nel colloquio con Ciampi ha sì detto che allo stato delle evidenze «non si può accusare nessuno» della strage di Taba, dichiarazione che sembrerebbe ragionovele, ma ha poi aggiunto "nemmeno Israele", ponendo la calunnia dei gruppi islamisti egiziani sullo stesso piano delle ipotesi probabili (Al Qaeda, Hamas, altri gruppi palestinesi, terroristi egiziani) sulla strage. Così rivedute e corrette le dichiarazioni di Mubarak possono servire a screditare l'ipotesi israeliana che a compiere l'attentato sia stata Al Qaeda. Non importa che la stampa israeliana, che è libera, abbia fornito elementi di credibiltà all'ipotesi Al Qaeda. Nè che in Egitto,al contrario, l'unica libertà dei media é quella di attaccare furiosamente Israele, e Mubarak, da un lato è libero di mentire senza venir smentito da giornalisti fuori dal suo controllo, dall'altro deve assecondare un opinione pubblica abituata a vedere negli israeliani e negli ebrei la radice di ogni male. Per D'Avanzo è Gerusalemme a formulare ipotesi per calcolo politico, quello di fare di ogni terrorrismo un battaglione dell' "jihad globale", e il Cairo a riportaci ai "fatti". Un bell'esempio di quello che lui chiama, riferendosi alla visione della lotta al terrorrismo dell'amministrazione Bush "mondo defattualizzato", ovvero, per tradurre, di una "percezione ideologica del tutto sganciata dalla realtà". Ecco il pezzo: Hosni Mubarak non crede che dietro l´assalto di Taba ci sia la mano di Al Qaeda. Il leader egiziano, nel colloquio con Ciampi, si è detto convinto che quella mano possa essere di qualche gruppo non identificato ostile a ogni processo di pace in Medio Oriente e, nell´incontro con Berlusconi, ha aggiunto che allo stato delle evidenze «non si può accusare nessuno». Il giudizio sospeso del capo di Stato egiziano ripropone interrogativi che da tre anni non sappiamo sciogliere: che cosa è Al Qaeda e che cosa davvero sappiamo di essa? Qual è la sua struttura e organizzazione e leadership? Quali sono oggi le forme di reclutamento? Esiste davvero un´organizzazione chiamata Al Qaeda dopo la distruzione dell´Afghanistan talebano? Se esiste, come agisce, come comunica, chi la indirizza e chi sul campo la guida? Come si sfugge alla tentazione di evocarne la presenza a ogni strage con il risultato di renderla più evanescente e inafferrabile e, al tempo stesso, invasiva e multiforme, impedendocene di fatto la comprensione e pregiudicando ogni efficace politica di contrasto e aggressione? Gli Stati Uniti, in questo sforzo, appaiono confusi, frustrati dagli errori del passato, desiderosi di riscatto e vendetta fino all´avventura. Hanno commesso catastrofici errori di sottovalutazione. Ancora agli inizi degli anni Novanta, per dire, Ayman al Zawahiri, il braccio destro di Osama bin Laden, poteva visitare indisturbato la Silicon Valley anche se i manuali di antiterrorismo definivano Al Qaeda «una pericolosa organizzazione radicata a livello mondiale con attività collegate ai ceceni, al Kashmir, all´Algeria, all´Indonesia, alle Filippine e persino al Kosovo». E nonostante questo patrimonio di informazioni e il pressing dell´intelligence, quando la notte del 12 settembre 2001 George W. Bush entra nella Situation Room della Casa Bianca non chiede di Al Qaeda, non chiede di Osama. Quel che chiede ai suoi uomini, lo ha raccontato Richard A. Clarke, allora capo dell´Antiterrorismo. Il presidente dice: «Vedete se è stato Saddam!». Bush ripropone nel modo più crudo la «teoria» già diffusa da consiglieri come Paul Wolfowitz: «Gli attacchi dell´11 settembre sono un´operazione troppo sofisticata e complicata perché un gruppo terrorista la porti a termine senza uno Stato sponsor: l´Iraq deve averli aiutati». Il fatto è che - per ingenuità politica o maligna strategia: qui non importa - gli americani non sanno rinunciare al convincimento che dietro ogni terrorismo, dietro ogni cartello del terrore ci sia uno Stato. Si lasciano così sfuggire, secondo molti osservatori, il dato più significativo di Al Qaeda, la sovranazionalità. Lo ha, e in abbondanza, confermato la guerra in Afghanistan. Erano i talebani che avevano bisogno di bin Laden. Non bin Laden dei talebani. Il regime di Kabul è stato distrutto, non è stata distrutta Al Qaeda. Come dimostra ancora oggi il caso iracheno. Saddam Hussein è caduto, il terrorismo si è rafforzato e diffuso come le schegge di una bomba. Sembrano tenere dunque le analisi che indicano nelle comunità locali, e non negli Stati, l´appoggio più sicuro per le cellule terroristiche e nelle aree urbane delle grandi città - dove sono disponibili infrastrutture, anonimato, approvvigionamenti, comunicazione e risorse - «la dimensione di riferimento». «La persistenza delle filiere del terrorismo islamista pone a Washington un problema fondamentale di intelligence nel doppio senso di comprensione e servizio segreto di informazioni. Quel che sembra mancare oggi agli Stati Uniti è l´interpretazione stessa del fenomeno» scrive Gilles Kepel nel suo ultimo libro (Fitna, guerra nel cuore dell´Islam). Il politologo francese ha ragione. L´America è «ancora debitrice di una visione del mondo riconducibile essenzialmente alla categoria del pensiero strategico della Guerra Fredda». Nella riflessione dei Neocon più radicali, come David Frum e Richard Perle, teste d´uovo dell´amministrazione, questa sovrapposizione è addirittura esplicita, dichiarata. «La guerra contro l´Islam estremista è altrettanto ideologica della Guerra Fredda» (Estirpare il Male). Dopo tre anni, bisogna chiederci quanto l´incomprensione del fenomeno e l´eccesso di ideologia ci rendano arduo conoscere il nemico, problematico anticiparne le mosse, complesso individuarlo e annientarlo. Se non sai chi è il tuo nemico, come potrai sconfiggerlo? E´ già un problema, ma diventa un problema rovinoso se se ne valutano, anche soltanto per sommi capi, gli effetti. Se vediamo Al Qaeda ovunque, dietro ogni strage o attentato a Bali, a Madrid, a Mosca, a Beslan, a Karachi, a Casablanca, a Riad, a Falluja gli effetti negativi sono doppi. Da un lato, si rafforza l´onnipotenza dell´organizzazione, si potenzia l´impatto di ogni azione (chiunque, anche isolato, l´abbia progettata ed eseguita). Lo splendore e l´appetibilità del suo marchio diventeranno, dilatandone la dimensione metaforica, attrattivi e irresistibili per le masse islamiche di Oriente e, peggio, per quei giovani arabi nati e vissuti in Occidente dove hanno studiato, si sono integrati, dove hanno ottenuto una nuova nazionalità e un altro passaporto e che ora - a quanto avvertono gli analisti più attenti - scelgono di riconvertirsi, di essere «born again, nati un´altra volta». Dall´altro, conferma agli ideologi che, sì, loro hanno ragione. L´islam radicale deve essere affrontato e accerchiato e annientato come lo fu il comunismo, come se bin Laden fosse Lenin o Stalin. Per trovare una via d´uscita a questa tenaglia, che può rendere soltanto orribile il male di oggi, bisogna far largo nei nostri pensieri alla realtà e al buon senso. Dobbiamo forse impedirci di vivere e credere nel «mondo defattualizzato» che ci viene proposto dalle leadership politiche, dalla corte degli spin doctors, dalle minacce diffuse via internet, dalle intelligence varie, dai manipolatori delle opinioni pubbliche occidentali o islamici che siano. «Mondo defattualizzato» è il mondo che, secondo Hannah Arendt (La menzogna in politica, riflessioni sui Pentagon Papers, 1971), ha reso possibile l´inganno della guerra del Vietnam. È un mondo dove non c´è alcun rapporto tra i fatti e le decisioni, dove «la divergenza tra i fatti - accertati dai servizi segreti, a volte dagli stessi responsabili dotati di poteri decisionali e spesso alla portata della gente ben informata - e le premesse, le teorie e le ipotesi, in base alle quali le decisioni venivano finalmente prese, è totale». Potrà essere utile allora riportare i fatti nella nostra vita e a fondamento delle nostre opinioni, chiedere che siano i fatti e non le "teorie" o il furore ideologico a orientare le decisioni pubbliche. Se avessimo chiesto più fatti forse avremmo saputo prima che non c´era alcuna complicità terroristica tra Saddam Hussein e Osama o che non c´era nessuna arma di distruzione di massa in Iraq. Seguendo i fatti forse sarebbe stato possibile scoprire che Al Qaeda, quel che appare essere Al Qaeda, è soprattutto opportunista, caotica, non sistemica. Colpisce quando può, come può, dove può per tenere alto il clima di terrore e dimostrare l´impotenza degli interventi militari. Afferrando i fatti, non avremmo visto dietro la strage di Beslan la mano di Osama bin Laden perché non c´erano «arabi» tra i massacratori di Basaev, come ci ha assicurato Vladimir Putin che si è guadagnato così l´ingresso d´onore nel club dell´antiterrorismo. Sapremmo invece che quel conflitto impegna soltanto russi e ceceni. Sapremmo quanto sia avventuroso sostenere oggi, come fa Washington, che le tragiche azioni di Abu Mussa al Zarqawi nel "triangolo sunnita" sono affare di Al Qaeda. Sapremmo che non abbiamo di fronte il terrorismo, ma i terrorismi. E che ognuna di queste malattie va aggredita e curata con una sua medicina e con un suo medico e non con una pioggia indiscriminata di fuoco e di sangue. Eviteremmo di scoprire, il giorno in cui Osama dovesse essere preso (ammesso che sia ancora vivo), che questa guerra è davvero infinita. Su L'UNITA' Umberto de Giovannangeli scrive l'articolo "Taba, dopo la solidarietà sospetti tra Egitto e Israele". Il titolo non rende conto della natura irrealistica, cinicamente strumentale e calunniosa dei "sospetti" egiziani verso Israele. Neppure l'articolo prende chiaramente le distanze dai deliri anti-israeliani promossi da fondamentalisti e media egiziani, e avvallati da Mubarak. Fornisce tuttavia informazioni interessanti sulla credibilità della pista al-qaedista, riprendendole dalla stampa israeliana. La redazione del quotidiano diretto da Furio Colombo ritiene però, probabilmente, più attendibile, la stampa egiziana, noto esempio di obiettività, libertà e indipendenza dal potere, di quella israeliana. Recita infatti il sottotilo: "Sull'attentato la stampa del Cairo s'interroga sul ruolo dei servizi segreti israeliani. A Gaza fallito attacco al cugino di Arafat". La stampa egiziana, se è per questo, non "s'interroga": condanna, senza alcuna prova e contro ogni logica e decenza. L'attacco al "cugino" di Arafat", capo dei servizi segreti militari palestinesi a Gaza, poi, è stato, scrive u.d.g. nel suo articolo, una "resa dei conti all’interno del campo palestinese", non come il sottotitolo autorizza a pensare un operazione degli israeliani contro un parente del raìs palestinese. Ecco il pezzo: «È stato un attentato molto diverso dagli altri e non possiamo accusare nessuno». Tra l’infastidito e l’imbarazzato, Hosni Mubarak risponde così alla domanda del giornalista israeliano che, nel mezzo della conferenza stampa conclusiva a Palazzo Chigi dell’incontro tra il presidente egiziano e il premier italiano, chiede a Mubarak se condivide le ipotesi avanzate dalla stampa del suo Paese, di un possibile coinvolgimento di Israele nell’attentato di Taba. Il raìs egiziano non conferma né smentisce. «Non possiamo accusare né Israele né altri», osserva Mubarak, aggiungendo che l’attentato «non ha avuto effetti sulla presenza dei turisti israeliani». Ma la risposta del presidente egiziano non placa l’ira d’Israele. «Ciniche e vergognose»: così David Saranga, portavoce del ministero degli Esteri di Gerusalemme definisce le teorie sviluppate da esponenti islamici in Egitto, secondo i quali i servizi israeliani potrebbero essere coinvolti nella strage all’Hotel Hilton di Taba, costata la vita ad almeno 12 cittadini dello Stato ebraico. «Condanniamo queste dichiarazioni ciniche e vergognose», insorge Saranga. «Cittadini israeliani hanno pagato un alto prezzo di sangue, con vittime di altre nazionalità, in questo orrendo attacco terroristico», sottolinea il portavoce del ministero degli Esteri. «Allo stadio attuale delle indagini - aggiunge - riteniamo che ne siano responsabili terroristi islamici integralisti che vogliono distruggere la civiltà occidentale e i Paesi legati ai valori occidentali che vogliono vivere in pace». Alle teorie formulate da ambienti islamici egiziani, replica seccamente anche una fonte della presidenza del governo israeliano: «Sono teorie stupide», taglia corto la fonte. Allo scetticismo del Cairo sulla pista Al Qaeda, Gerusalemme ribatte con nuovi elementi spingono sempre più in direzione della rete terroristica di Osama Bin Laden. Ieri il principale quotidiano israeliano, Yediot Ahronot, ha ha rivelato, basandosi su fonti dell’inchiesta egiziana, che un dirigente di Al Qaeda ha effettuato un sopralluogo due mesi fa a Taba e dintorni, dormendo perfino nell’Hotel Hilton, teatro della strage di giovedì sera. Il giornale ha scritto che il responsabile di Al Qaeda, di cui non si conosce la identità, sarebbe presumibilmente atterrato nella località turistica di Sharm el-Sheikh (Sinai). Lì avrebbe noleggiato un automobile per esplorare con calma la costa del mar Rosso, prendere nota delle spiagge più affollate dagli israeliani e forse arruolare fiancheggiatori per i futuri attentati. Da fonti della sicurezza egiziane Yediot Ahronot ha anche appreso che l’uomo avrebbe contattato una «cellula dormente» di Al Qaeda in Egitto, composta da otto persone. Al termine della missione l’emissario di Al Qaeda ha lasciato l’Egitto decollando da Sharm el-Sheikh, secondo il quotidiano israeliano. Con il passare dei giorni si rafforza la convinzione degli inquirenti israeliani circa la responsabilità del network terrorista di Osama Bin Laden, che ora sarebbe determinato ad attaccare direttamente gli interessi israeliani. Il capo di stato maggiore di Tsahal, generale Moshe Yaalon, che ieri ha riferito sugli attentati davanti alla Commissione esteri e difesa della Knesset, ha detto di considerare come ipotesi più probabile che l’attacco di Taba sia stato attuato da una cellula locale della «Jihad internazionale» collocata nella nebulosa di Al Qaeda. Non tutto è filtrato dall’audizione a porte chiuse di Yaalon davanti ai parlamentari. Si è appreso però che il generale ha rivelato che Al Qaeda ha cercato di infiltrarsi nei territori palestinesi e che l’intelligence israeliano ha sventato il tentativo. «Al Qaeda ha cercato di creare una base nei Territori ma noi glielo abbiamo impedito», ha affermato Yaalon, senza fornire altri dettagli. Ma nei Territori, con o senza Al Qaeda, a dominare è sempre e solo la logica di morte. Una logica che segna anche la resa dei conti all’interno del campo palestinese. In serata, una forte esplosione rimbomba a Gaza, vicino al convoglio del capo dei servizi segreti militari palestinesi a Gaza City, il contestatissimo Musa Arafat, cugino del presidente dell’Anp. Era lui l’obiettivo dell’attentato. Gli uomini della scorta di Musa Arafat sono usciti dalle vetture sparando in tutte le direzioni. Poi il convoglio è ripartito. La morte ha sfiorato il cugino del raìs. L’auto di Musa Arafat - secondo fonti dei servizi segreti militari - era infatti passata da poco quando è esploso un ordigno collocato in un auto parcheggiata vicino al suo ufficio. Quella bomba è anche una sfida all’anziano raìs palestinese, sempre più isolato nel suo semidistrutto quartier generale a Ramallah. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla direzione de La Repubblica e L'Unità. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.