Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
L'Unità capisce, Il Manifesto no: due quotidiani di fronte alla democrazia israeliana uno sceglie la cronaca, l'altro l'ideologia
Testata:Informazione Corretta Autore: la redazione Titolo: «L'Unità capisce, Il Manifesto no: due quotidiani di fronte alla democrazia israeliana»
A pagina 5 del MANIFESTO di oggi Michele Giorgio firma l'articolo "Sotto accusa il Terminator israeliano" nel quale la vicenda dell'inchiesta sulla morte della tredicenne palestinese Ayman Al-Hams viene strumentalizzata per sostenere esplicitamente che i soldati israeliani uccidono abitualmente e intenzionalmente bambini palestinesi. Tesi calunniosa, non solo non suffragata da nessuna prova, ma contraddetta dallo stesso sdegno con il quale i soldati israeliani hanno denunciato il loro superiore. Ecco l'articolo: L'ufficiale israeliano della Brigata Ghivati che la scorsa settimana a Rafah ha crivellato di colpi a distanza ravvicinata la tredicenne palestinese Ayman Al-Hams, è una «mela marcia» o la punta dell'iceberg? Visto ciò che sta accadendo a Gaza - 115 palestinesi uccisi (tra cui una trentina di minorenni) in 12 giorni di offensiva militare israeliana nel zona nord-est della Striscia - la risposta sembrerebbe scontata. Ma ormai nulla è ovvio, palese, quando si parla di palestinesi che, anche se muoiono da innocenti, finiscono ugualmente per essere chiamati in causa come colpevoli. Di fronte alle proteste di alcuni soldati contro il comportamento dell'ufficiale «Terminator» e allo sdegno suscitato dalla vicenda di Ayman anche in Israele, il capo di stato maggiore, generale Moshe Yaalon, ha prontamente affermato che la bambina, la mattina in cui venne uccisa con ben venti colpi di mitra, si trovava molto distante dal tragitto che avrebbe dovuto percorrere per andare da casa a scuola, forse era stata indotta da militanti dell'Intifada ad avvicinarsi al fortino per distrarre i soldati ed esporli al tiro di cecchini palestinesi. Nel timore di un «attentato incombente», da tre postazioni diverse venne fatto fuoco sulla «figura sospetta», distante ben 70 metri. L'esercito ora sta svolgendo un'inchiesta sull'ufficiale che ha svuotato un intero caricatore sul corpo, già esanime, di Ayman. Ai microfoni della radio delle forze armate, alcuni militari hanno riferito che dopo i primi spari, la bambina giaceva immobile a terra. Il comandante della compagnia si è avvicinato al corpo e «ha sparato altri due colpi» per accertarsi che fosse morta. «È tornato verso la nostra unità, quindi si è voltato di nuovo verso di lei, ha messo il fucile in posizione automatica e ha svuotato il caricatore. L'ha sforacchiata». «Eravamo sotto shock - ha aggiunto un soldato - ci tenevamo la testa nelle mani. Provavamo grande dolore per lei.
Era solo una bambina di 13 anni. Come si fa a crivellarla, a bruciapelo? Lui moriva dalla voglia di abbattere qualche terrorista, ha sparato alla bambina per liberare la grande pressione». L'ufficiale sotto inchiesta, da parte sua sostiene che la maggior parte dei proiettili sono stati sparati nella prima fase dell'incidente e non da lui. Intanto mentre tutti puntano l'indice contro «la pecora nera» di turno, nessuno appare turbato dal fatto che tra i 115 morti palestinesi dell'operazione israeliana «Giorni di Pentimento» in corso a Gaza, ci siano numerosi bambini e ragazzini. Ieri peraltro un palestinese è stato ucciso nel corso di una nuova incursione di reparti corazzati israeliani. Altri due, feriti domenica, sono deceduti in ospedale. Un dirigente del Jihad islami, Mohammed Sheikh Khalil, ha riferito di essere sfuggito ad un tentativo di assassinio mirato (un razzo ha colpito la sua abitazione nel campo profughi di Rafah). Israele ha negato ogni coinvolgimento nell'accaduto. Sempre ieri è divampata la protesta di migliaia di dipendenti palestinesi dell'Unrwa, l'Agenzia dell'Onu che assiste i profughi, che ricevono stipendi almeno dieci volte inferiori rispetto a quelli del personale internazionale. L'Unrwa, che svolge una attività di grande valore per i profughi palestinesi, tuttavia non ha mai curato la sua cronica malattia: i mega salari dei dipendenti stranieri (quasi sempre anglosassoni), peraltro in una situazione di cronica mancanza di fondi per lo svolgimento delle operazioni.
Ad accrescere il disagio dei palestinesi - che non ricevono aumenti salariali da alcuni anni - è stata anche la decisione dei vertici della agenzia di spostare in zone più tranquille - Gerusalemme e Amman - decine di funzionari internazionali, a causa della situazione a Gaza. Intanto ieri, all'apertura dei lavori della Knesset, il premier israeliano Ariel Sharon ha comunicato che il voto del parlamento sul progetto di ritiro da Gaza avrà luogo il 25 ottobre. Sharon ha ribadito di essere determinato a realizzare il ritiro da Gaza nei tempi previsti (2005). Il primo ministro ha anche confermato che l'operazione «Giorni di Pentimento» andrà avanti (nonostante i forti dubbi dei comandi militari). Sempre a pagina 5 Manlio Dinucci, sotto l'occhiello "Terrorismo" firma l'articolo "I droni cacciatori, morte silenziosa che volteggia su Gaza", nel quale l'uso degli aerei telecomandati per colpire organizzatori di attentati suicidi e lanciatori di razzi Qassam viene appunto qualificato come "terrorismo". Ecco l'articolo: «Ho visto un piccolo aereo e quindi un bagliore, poi ho udito un' enorme esplosione e un'auto ha preso fuoco»: questa testimonianza di un abitante di Jenin, riportata da Al-Jazeera, conferma che le forze armate israeliane usano «droni» (piccoli aerei telecomandati) non solo per acquisire immagini, ma per colpire obiettivi palestinesi con i missili di cui sono armati. La cosa non stupisce. Il Pentagono e la Cia usano da circa tre anni droni armati, i «Predatori», che, controllati a distanza da un pilota e tre addetti ai sensori, possono volare per 40 ore fino a 750 km di distanza, scrutando il terreno con una videocamera di giorno, una a raggi infrarossi di notte e un radar per vedere attraverso la nebbia. Individuato l'obiettivo, il «Predatore» lo colpisce con due missili a guida laser Hellfire. Usato prima in Afghanistan, questo drone è stato impiegato nel novembre 2002 anche nello Yemen, per distruggere un'auto con a bordo «sei sospetti terroristi di Al Qaeda». A disintegrare l'auto su cui a Jenin viaggiavano «tre sospetti terroristi palestinesi» e a ferire tre passanti non è stato un «Predatore» ma, con tutta probabilità, un «Cacciatore», un drone sviluppato congiuntamente dalla statunitense Northrop Grumman e dalle Industrie aeronautiche israeliane. Secondo la Northrop Grumman, il «Cacciatore», armato di munizioni anticarro Viper Strike, «ha dimostrato la sua capacità letale contro obiettivi in movimento». In Iraq, ha effettuato in un anno circa 600 «missioni di combattimento». Inoltre, per particolari missioni, questo drone viene armato con «missili alati completamente silenziosi, che non usano un sistema a propulsione ma si dirigono planando sugli obiettivi». La loro presenza si rivela, quindi, solo quando esplodono.
Lo confermano le testimonianze di abitanti di Gaza, riportate venerdì dal Washington Post. «Quando l'aereo pilotato a distanza lancia un missile - racconta Khaled Abu Habel - non c'è rumore, non c'è luce, solo un leggero sibilo. Un secondo dopo, colpisce». Uno di questi missili ha ucciso due suoi cugini, presunti membri di Hamas. Sul campo di Jabalya dove vivono oltre 100mila palestinesi - racconta l'inviato del Washington Post - volteggiano, di giorno e di notte, droni di colore bianco brillante. Quando il ronzio dei loro motori si fa più forte, gli abitanti guardano verso il cielo seguendo il volo. «Abbiamo paura quando usciamo, abbiamo paura quando siamo a casa», racconta Khalid Kahlot, padre di sei bambini. A chilometri di distanza, seduto a una console, l'operatore guida il drone con monitor e joystick. Basta che prema un pulsante e il missile si dirige verso l'obiettivo. Chi vede o sente i droni volteggiare sulla propria testa vive così nel terrore di essere, in qualsiasi momento, colpito. Questo non è però considerato terrorismo, ma una legittima azione militare nella «guerra globale al terrorismo». A differenza di Michele Giorgio, Umberto De Giovannangeli, a pagina 9 de L'UNITA' mostra di capire la denuncia e la'pertura dell'inchiesta dimostrano che Israele è una "democrazia esemplare" e che Tsahal è un esercito dotato di un "onore" che consiste nel non colpire deliberatamente i civili. Le parole del fratello di Ayman meritavano però, è la nostra unica critica, un commento, perchè riferendosi a "questi crimini" e non a "questo crimine" potrebbero lasciar falsamente intendere che esista una sistematica politica criminale dell'esercito israeliano. Ecco l'articolo: "La rivolta dei soldati israeliani in nome della piccola Ayman" La voce è rotta dall’emozione. Il racconto s’interrompe più volte, i silenzi si fanno pesanti, le parole fanno fatica a dare conto di uno shock che il tempo non lenisce. Alla radio militare israeliana va in onda una rivolta in diretta. La rivolta delle coscienze. A esserne protagonisti sono alcuni soldati del fortino «Ghirit», fra il territorio egiziano e la città palestinese di Rafaf (a sud di Gaza), una delle roccaforti dell’Intifada. Dopo giorni di tormenti interiori, i soldati hanno deciso di rompere il silenzio e hanno chiamato la loro radio: «Quell’ufficiale - hanno detto - non può restare fra di noi, deve volare via. È una vergogna che sia ancora in carica. O va via lui, o noi». L’ufficiale della brigata Ghivati in questione è indicato dai soldati come colui il quale giorni fa ha svuotato un intero caricatore nel corpo, probabilmente già esamine, di Ayman al Hams: una palestinese di 13 anni che sembrava una bambina molto più piccola e che di certo, al momento dei suoi spari, non rappresentava un pericolo per alcuno. L’Unità ha dato conto della storia della piccola Ayman, parlando con i genitori, con le amiche di scuola. Dalle testimonianze raccolte emerge il ritratto di una bambina fragile, terrorizzata dalla violenza che segna la quotidianità nella Striscia. Sul caso, il capo della magistratura militare generale Avi Mendelblitt, ha aperto una indagine penale che viene adesso condotta dalla polizia militare. L’ufficiale - di cui non è stato reso noto il nome - è il principale sospettato. L’altro ieri la vicenda è stata esaminata dal governo israeliano. Il capo di stato maggiore, generale Moshe Yaalon, ha riferito che la bambina si trovava molto distante dal tragitto che avrebbe dovuto normalmente percorrere per andare da casa a scuola. Il generale ha accreditato l’ipotesi che sia stata indotta da militanti dell’Intifada ad avvicinarsi al fortino per distrarre i soldati ed esporli al tiro dei cecchini. Quella mattina, un cecchino palestinese era stato colpito a morte e la bambina aveva destato sospetto entrando in una zona vietata, non obbedendo agli ordini di fermarsi e infine lanciando il proprio zainetto verso il cancello d’ingresso. Nel timore di un attentato incombente, da tre postazioni diverse è stato aperto il fuoco sulla «figura sospetta», distante 70 metri. La «figura» è allora stramazzata a terra. Questa è la versione ufficiale fornita dal generale Yaalon. Una ricostruzione subito contestata dai familiari della piccola Ayman. «Noi sappiamo che la zona dove si trova il fortino è vietata. Ma nessuno può controllare i bambini, tutto il tempo», afferma deciso il fratello della bambina, Ihab al-Hams. «Ayman - aggiunge - si è alzata di prima mattina, ha fatto colazione con cinque dei nove fratelli. alle sette meno un quarto ha lasciato la casa per andare a scuola». «Anche se qualcuno ha cercata di utilizzarla, e io non lo penso, in ogni caso non rappresentava un pericolo per nessuno, non c’era motivo di spararle. Addosso - denuncia il fratello - le hanno trovato 20 proiettili. La sua testa era rimasta troncata dal resto del corpo». Sin qui poteva sembrare la solita guerra delle «ricostruzioni»: l’esercito israeliano dà la sua versione «giustificazionista», i palestinesi ribattono con la loro tesi «accusatoria». Questo fino a ieri. Fino alle telefonate dei soldati del fortino «Ghirit» alla radio militare. Che, esempio di vera democrazia, non censura quelle sconvolgenti testimonianze ma le manda in onda. Ridando onore a Tsahal e alla memoria della piccola Ayman. Dopo i primi spari, raccontano i soldati, la bambina giaceva immobile a terra. Il comandante della compagnia si è allora avvicinato al corpo e «vi ha conficcato due colpi». In gergo militare: «Vidu hariga», ossia accertamento di morte. «È tornato verso la nostra unità, quindi si è voltato di nuovo verso di lei, ha messo il fucile in posizione "automatica" e ha svuotato il caricatore. L’ha sforacchiata». Nelle loro postazioni, i soldati seguono sgomenti lo scempio di quel piccolo corpo esanime. «Eravamo sotto shock. Ci tenevamo la testa nelle mani. Provavamo grande dolore per lei. Dolore e vergogna. Era solo una bambina di 13 anni. Come si fa a crivellarla, a bruciapelo? Lui moriva dalla voglia di abbattere qualche terrorista, ha sparato alla bambina per liberare la grande pressione». Ma Ayman non era una terrorista né una kamikaze in miniatura. Era una bimba fragile, impaurita. Secondo la stampa israeliana, l’ufficiale sostiene che la maggior parte dei proiettili sono stati sparati nella prima fase dell’incidente dai soldati nelle postazioni, e non da lui. I soldati che lo accusano si dicono certi che l’esame dei bossoli non lascerà dubbi sulle gravi responsabilità del loro comandante. «Quello là ci ha infangato, ci ha trascinato al livello di belve umane. Deve andarsene». La denuncia dei soldati del fortino «Ghirit» non è sfuggita ai familiari di Ayman: «Ringraziamo quei soldati per il coraggio che hanno dimostrato denunciano la barbara esecuzione di Ayman. Il nostro dolore è insanabile, ma almeno sappiamo che in Israele c’è chi non intende chiudere gli occhi di fronte a questi crimini», dice a l’Unità Ihab al-Hams, il fratello di Ayman. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione del Manifesto. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.