sabato 17 maggio 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



Clicca qui






Il Riformista Rassegna Stampa
07.10.2004 Roth immagina un America alleata con Hitler, oggi qualcuno vorrebbe un Occidente alleato di Osama Bin Laden
un romanzo contro le teorie del complotto

Testata:Il Riformista
Autore: Luca Mastrantonio
Titolo: «Nel Lindbergh di Roth il folle sogno dei vinti»
Il Riformista di oggi, 07-10-04, in prima pagina candida Philip Roth al premio Nobel per la letteratura e a pagina 4 pubblica, firmata da Luca Mastrantonio, la recensione del suo ultimo romanzo, "The Plot against America", nel quale, descrivendo un'America in cui il nazista Lindbergh sconfigge alle elezioni presidenziali Franklin Delano Roosvelt, Roth traccia anche un ritratto dell'Occidente di oggi, diviso al suo interno dalla sfida del terrorrismo islamista, e in cui qualcuno coltiva verso Osama Bin Laden le stesse affinità di sentimenti e di idee che gli antisemiti americani degli anni 30 avevano verso Hitler.
Ecco il pezzo:

The Plot against America, di Philip Roth, è il miglior rimedio in circolazione contro il logorio complottardo dell’età postmoderna. Un paradosso, dato che il romanzo di Roth (da ieri nelle librerie americane e da novembre in quelle italiane), tratta proprio di una congiura, ordita, secondo i nazisti americani, dalla lobby ebraica per portare gli Usa in guerra contro Hitler. Lo fa capovolgendo il rapporto tra realtà e finzione, con il risultato, tra l’altro, di riaffermare l’autenticità dello specifico letterario, che è il verosimile, cioè il simil vero, non il presunto o meglio presuntuoso vero di tante ricostruzioni didascaliche di tanti scrittori e registi prodotte in questi ultimi anni. In perfetto pendant con Operazione Shylock, dove Roth immaginava la de-sionizzazione di Israele, il ritiro degli ebrei dalla Terra santa, come unica alternativa per evitare un nuovo Olocausto. L’ennesimo Esodo coatto, in forma di auto-progrom. The Plot against America non spiega «come sono realmente andate le cose», e cioè che l’undici settembre se lo sono architettato gli americani, come Pearl Harbour d’altronde (leggi Gore Vidal) portando come prova inconfutabile i link documentabili che collegano la famiglia Bush a quella Bin Laden (vedi Michael Moore). Roth ricorda, piuttosto, agli americani e al mondo, come «potevano andare le cose» negli Stati Uniti se avessero vinto i gruppi para-nazisti.
Ma non lo fa per un esercizio di stile, per pura accademia, niente che abbia a che fare con certa fantascienza retrospettiva - dimensione in cui si è cimentato Philip Dick, per esempio - né però si limita a sottolineare il «pericolo scampato», compiacendosi per il corso magnifico e progressivo della Storia. Vuole bensì mettere una lente impietosamente chiara sul lato oscuro dell’America, quello che covava il nazismo nel suo seno, come una serpe, che voleva la pace non per spirito irenico ma per convergenze parallele con Hitler. Il quale era «un grand’uomo», sosteneva Charles Lindbergh, l’eroe della prima trans-volata oceanica, notorio antisemita, che dopo un viaggio in Germania, dove ricevette un’onorificenza da Goering, tornò in America con il sogno di «gentilizzarla» tanto da mettersi alla guida del gruppo parafascista e razzista, l’American First.
Roth incentra il suo romanzo su questa inquietante affinità elettiva tra l’eroe americano e il nazismo, arrivando a una conclusione sconcertante ma non implausibile: un’America in cui Lindbergh batte Franklin Delano Roosevelt e diventa capo dalla Casa Bianca; firma poi un patto di non belligeranza con Hitler, sul modello Von Ribbentrop, e avvia una politica di rieducazione degli ebrei d’America - tra cui la famiglia di Roth, che viene progressivamente ghettizzata - che consiste nel deportarli dalle città nelle campagne., estromettendoli dai luoghi di potere. Roth realizza con l’immaginazione l’America sognata da Lindbergh - i sogni non li fa solo Martin Luther King - nel discorso tenuto a Des Moines, in cui predicava contro il complotto degli ebrei che volevano trascinare gli Usa nella «sanguinosa guerra senza senso» contro la Germania per tutelare i loro sporchi interessi.
Il discorso fu pronunciato l’undici settembre 1941, a dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, che la realtà, con la sua cabala di numeri e giudiose corrispondenze, non ha nulla da invidiare alla finzione. Anzi, per uno scrittore, questa deve essere la vera ancella di quella. Così, raccontando la fantomatica madre (semita) di tutte le congiure, Roth spazza via in un sol colpo le ricostruzioni complottiste che troppe volte, non sempre, obnubilano le menti del ceto occidentale riflessivo. Il plottismo di Roth - plot è «congiura» ma anche «trama», «intreccio», l’irrinunciabile funzione creativa cui la narrativa non dovrebbe mai rinunciare - non è pura fiction, ma verosimiglianza, ossia realtà impiantata su un tronco di plausibilità storica. Senza pretese di verità, punta all’autenticità dell’invenzione per garantire l’efficacia del suo messaggio, del suo senso. Là dove il complottismo di tanti autori contemporanei pretende di raccontare il «sacro vero» che si celerebbe dietro al velo di Maya della realtà contemporanea, architettata dai poteri forti come fosse Matrix, attraverso complotti interplanetari che hanno sempre al centro la pulsante lobby ebraica.
A scanso di equivoci e accuse di didascalismo simil-manzoniano - nei Promessi sposi si parlava di dominazione spagnola perché gli austriaci intendessero - ovvero che nel romanzo di Roth si possa semplicemente vedere un complottismo apologetico per gli ebrei corrispondente e opposto alla dietrologia antisemita sull’undici settembre, c’è un autobiografia di Arthur Schlesinger, uscita nel 2000, dove si racconta del tentativo repubblicano di candidare Lindbergh contro Roosevelt. Roth ha sviluppato questa «possibilità del reale» per rappresentare lo scontro di civiltà, di valori politici, interni alla stessa America.
Con questo romanzo, Roth tronca di netto l’accusa di ombelichismo che molti gli muovevano - tra l’altro, ricorda Sandro Veronesi, l’ombelico di uno scrittore americano è maledettamente più interessante dell’ombelico di qualsiasi altro scrittore - giudicando, come faceva Pietro Citati un anno fa, i suoi romanzi «sovente pessimi, talora mediocri, rarissimamente buoni». Ma soprattutto pone una questione cruciale e persino imbarazzante per gli scrittori italiani che hanno vissuto gli anni 40 e 50 e non hanno prodotto che rappresentazioni monche - ora cronachistiche ora mitopoietiche - di quei tragici avvenimenti: una storia asimmetrica, che illude ancora gli uomini dell’esistenza di una linea progressista della storia. Roth è riuscito a rievocare le forze dello scontro di civiltà interno all’America (persino una forza minoritaria e sconveniente come quella nazista di Lindbergh), là dove nessuno scrittore italiano ha rappresentato con la stessa completezza ed efficacia quella guerra civile che ha realmente (non in maniera immaginaria, come nel caso di Roth) travagliato l’Italia, il cui sangue dei vinti è raccolto da pochi zelanti intellettuali, come Giampaolo Pansa. «Ogni guerra è una guerra civile», ricordava Pavese, cioè una guerra di valori, civiltà, ideologie. Ma fa troppa paura dare voce a chi credeva ai valori degli sconfitti, bisogna guardarsi troppo dentro, avere coraggio e voglia di investire la propria memoria in un compito che appare ingrato.
Invitiamo i lettori di Informazione Corretta di inviare il proprio parere alla redazione de Il Riformista. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.

cipiace@ilriformista.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT