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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio Rassegna Stampa
07.10.2004 Le dichiarazioni del consigliere di Sharon, l'Onu e il terrorismo palestinese, l'ipotesi di un'Europa islamica
un quotidiano che si distingue per l'accuratezza ed equilibrio delle cronache e delle analisi

Testata:Il Foglio
Autore: un giornalista - Christopher Caldwell
Titolo: «Destra di Israele e Anp i destinatari della gaffe del consigliere di Sharon - Così l'Onu aiuta i rifugiati palestinesi a diventare terrorristi - Un Europa islamizzata rischia la fine dell'impero austroungarico»
Su Il Foglio di oggi, 07-10-04, in prima pagina l'articolo "Destra di Israele e Anp i destinatari della gaffe del consigliere di Sharon", che spiega il significato e la portata reali delle dichiarazioni rilasciate da Dov Weisglass ad Haaretz, strumentalizzate da parte della stampa italiana.
Gerusalemme. Più che un passo avanti nel processo di pace, il piano di disimpegno da Gaza è una punizione per i palestinesi. L’intervista rilasciata al quotidiano israeliano Haaretz da Dov Weisglass, consigliere del premier Ariel Sharon, ha causato un piccolo terremoto: la smentita di Weisglass e Sharon non cambia sostanzialmente i contenuti del messaggio. Semmai reitera il significato del progetto di ritiro mentre parte della destra israeliana resta contraria e i palestinesi, nonostante il piano sia stato approvato a giugno, non demordono con l’Intifada, cercando l’escalation a Gaza. Il messaggio per la destra è: "Non temete, non ci saranno ulteriori concessioni"; quello per Ramallah è: "Preoccupatevi: non ci saranno ulteriori concessioni". L’approvazione del piano israeliano di disimpegno da Gaza significa una cosa: l’intifada è fallita. A quattro anni dall’inizio della guerra scatenata da
Arafat nel settembre 2000, i palestinesi non hanno raggiunto
alcun significativo risultato. Come in passato, la solidarietà panaraba non
si è spinta oltre la retorica e gli aiuti finanziari. Nonostante
le azioni israeliane, né Egitto né Giordania hanno interrotto le relazioni con
Israele. Nonostante il ritiro degli ambasciatori e la retorica anti Gerusalemme,
giordani ed egiziani continuano a dialogare e a cooperare con Israele. Gli sviluppi recenti, con Giordania ed Egitto coinvolte nel piano di disimpegno,
mostrano come entrambi i governi cooperino più con Sharon che con Arafat e intendano assumere un ruolo costruttivo. Nonostante i tentativi di internazionalizzare il conflitto e di raggiungere l’isolamento diplomatico di Israele, l’unico isolamento di rilievo negli ultimi quattro anni è quello di Arafat, e l’unica iniziativa diplomatica rimane il piano di Sharon. I palestinesi speravano che la rivolta portasse loro risultati migliori di quanto non offrissero i negoziati. Dopo quattro anni, invece che negoziare con Ehud Barak e la sinistra, i palestinesi fronteggiano uno Sharon popolare in Israele, una sinistra dissolta, e una prospettiva di ritiro israeliano solo da Gaza (e da una parte della Samaria). Dopo il ritiro, soltanto l’adempimento degli obblighi palestinesi secondo la road map, potrebbe lasciar spazio a ulteriori concessioni israeliane. Del ritiro i palestinesi non hanno negoziato né i tempi né le modalitá né i contenuti. Qualsiasi loro conquista futura dipende ora dalla buona volontà israeliana e da come Israele definisce i propri interessi nazionali: ai palestinesi non rimane che sperare nella magnanimità di Sharon, non una posizione ideale dal loro punto di vista e a giudicare da quanto detto da Weisglass. Quel che riceveranno da Israele – se saranno loro a ricevere qualcosa e non un patrono egiziano o una forza internazionale – sarà molto meno di quanto avrebbero ottenuto quattro anni fa e meno, certamente, di quanto sperassero di ottenere con la forza. Un magro risultato visti i costi pagati dalla loro società. Il ridispiegamento di forze Weisglass non ha fatto altro che ribadire quanto da tempo si sa: il ritiro permette di mantenere sotto sovranità israeliana la maggior parte degli insediamenti e rimanda i negoziati sui confini (visto che solo un cambio di leadership palestinese potrebbe smuovere la situazione) col beneplacito americano dell’incorporazione d’insediamenti a ovest della barriera (oggetto di negoziati recenti tra Usa e Israele), Gerusalemme compresa. Il nuovo dispiegamento di forze, sostiene Weisglass, permette a Israele di guadagnare tempo e consolidare confini difendibili anche di fronte al perdurare del conflitto con i palestinesi per
un’altra generazione. Una minaccia, ma anche una constatazione. E la constatazione che il processo di pace è morto, candidamente e forse improvvidamente fatta da Weisglass, permette a Israele di chiudere anche un altro capitolo, quello dei rifugiati palestinesi, che del resto è già sostanzialmente congelato da aprile, dalla lettera statunitense di garanzie nei confronti d’Israele offerta in cambio del piano di disimpegno. Nulla di nuovo dunque: Israele sta negoziando con gli Stati Uniti, non con i palestinesi, un nuovo confine e ha ottenuto garanzie (su Gerusalemme, insediamenti e rifugiati) che ora va a incassare. Certo, il piano di ritiro israeliano da Gaza per ora rimane sulla carta, ma è solo questione di tempo prima che diventi una realtà. E la questione che tutti, ma in primo luogo i palestinesi, si devono porre è: che cosa succede il giorno dopo? Weisglass ha offerto una risposta. I palestinesi, per dimostrare che si sbaglia e che la road map non è morta, farebbero bene a cominciare a rispettare i loro obblighi.
A pagina 3: "Così l'Onu aiuta i rifugiati palestinesi a diventare terrorristi", che di seguito riproduciamo.
Gerusalemme. Più di 25 anni fa, l’ambasciatore libanese alle Nazioni Unite, Edward Ghora, scrisse all’allora segretario generale, Kurt Waldheim: "I campi profughi dell’Unrwa (agenzia per i rifugiati, ndr) sono stati trasformati dai palestinesi in bastioni militari nel cuore dei nostri centri abitati". La situazione non è cambiata. L’Unrwa ha uno staff di 23 mila persone, di cui il 98 per cento è formato da arabi palestinesi. Sin dalla sua creazione nel 1950, ha concentrato i suoi sforzi nel promuovere il diritto al ritorno dei palestinesi, soggetta più volte all’accusa di farli vivere in uno stato di limbo e di alimentare in loro il desiderio di stabilire uno Stato palestinese nei confini d’Israele. Dopo Oslo, l’Unrwa ha più volte rifiutato la proposta d’incoraggiare i rifugiati ad abbandonare l’idea di tornare nelle case lasciate nel ’48 e di accettare nuove sistemazioni. Nell’85, Israele aveva provato a trasferire i rifugiati in 1.300 nuovi appartamenti, costruiti con l’appoggio del Catholic Relief Agency, ma l’Assemblea generale dell’Onu votò una risoluzione secondo la quale Gerusalemme non aveva diritto di spostare i palestinesi dalle loro abitazioni.I legami tra l’Unrwa e il terrorismo sono stati resi noti nel 2002. Un documento dell’intelligence dimostra come le scuole gestite dall’Unrwa siano servite dall’inizio dell’Intifada come luoghi per riunioni di Hamas e come centri di addestramento per shahid (martiri). Durante le elezioni dei rappresentanti del sindacato dell’Unrwa a Gaza, i candidati affiliati a Hamas hanno conquistato il 97 per cento dei seggi, assicurandosi la partecipazione alla commissione esecutiva e gestendo l’educazione nelle scuole dei campi. Nell’aprile 2004, la scuola maschile di Balata a Nablus ha celebrato una commemorazione per la morte dello sceicco Yassin, con la partecipazione di Hisham Abu Hamdan, comandante delle Brigate al Aqsa. Secondo il sito del premier israeliano, Yassin nel 2001 aveva presentato la sua dottrina ideologica in un liceo di Jabalya ed era stato elogiato da Saheil Alhinadi, rappresentante del settore scolastico dell’Unrwa. Yoni Fighel, colonnello israeliano, dice che la maggior parte degli impiegati dell’agenzia è legata a movimenti radicali islamici. Dore Gold, ex ambasciatore di Israele all’Onu, aggiunge di aver visto a Jenin nel 2002, nelle case di dipendenti dell’Unrwa, poster che glorificavano gli attentati suicidi in territorio israeliano. La politica dell’agenzia di fatto non prevede alcuna verifica sul personale assunto in Cisgiordania o a Gaza, a differenza del reclutamento svolto in Giordania, Siria e Libano, dove si richiede un controllo sui precedenti penali di ogni impiegato. Dall’inizio della seconda Intifada, qualsiasi palestinese può richiedere assistenza finanziaria all’Unrwa. Questo tipo di politica trascende lo scopo dell’agenzia, sollevando dubbi su come siano utilizzati i finanziamenti. Karen Abuzayed, deputata della commissione generale, ha definito più volte i rifugiati palestinesi "elementi armati", che tengono in ostaggio l’agenzia dell’Onu, e che la sua stessa direzione ha paura di interferire con le attività terroristiche nei campi profughi. Peter Hansen, commissario generale dell’Unrwa, ha detto di essere al corrente dei legami di suoi impiegati con Hamas. Secondo Gershon Baskin, direttore dell’Israel Palestine Center for Research and Informations, questa ammissione non dovrebbe stupire: il 40 per cento della popolazione a Gaza appoggia Hamas, di conseguenza questa situazione è inevitabilmente riflessa anche nei campi dei rifugiati. Le autorità israeliane stanno prudentemente indagando sull’uso di veicoli dell’Onu da parte di gruppi terroristici. Il direttore generale degli affari pubblici israeliano, Gideon Meir, ha ribadito l’importanza dell’Unrwa come organizzazione umanitaria, sottolineando però che già in passato alcuni impiegati dell’agenzia avevano avuto problemi con la giustizia dello Stato ebraico. "La credibilità – dice Meir – è uno dei beni più importanti per le relazioni pubbliche del nostro paese. A volte, facciamo degli sbagli, ma come principio, non mentiamo mai".
A pagina 2 l'importante articolo di Christopher Caldwell "Un Europa islamizzata rischia la fine dell'impero austroungarico", pubblicato anche dal The Weekly Standard. Partendo da una dichiarazione dell'islamista Benard Lewis al quotidiano tedesco Die Welt, per il quale al più tardi entro la fine del secolo l'Europa diventerà islamica, Caldwell analizza i rapporti tra il nostro continente e l'Islam, anche in relazione alle trattative per l'ingresso della Turchia nella Ue.
Ecco il pezzo:

Raramente il corso della storia europea è stato cambiato da un’osservazione di passaggio fatta da un non-politico in un giornale tedesco nel bel mezzo del completo ristagno estivo. Il 28 luglio, lo storico di Princeton Bernard Lewis ha dichiarato al quoditiano conservatore Die Welt che, "al più tardi" entro la fine del secolo, l’Europa sarebbe diventata islamica. E da quel giorno la politica europea non è più stata la stessa. Pochi giorni prima del terzo anniversario dell’11 settembre, l’olandese Fritz Bolkestein, il dimissionario commissario alla concorrenza dell’Unione europea, ha scatenato un putiferio quando ha menzionato l’osservazione di Lewis in occasione di un discorso pronunciato all’apertura dell’anno accademico dell’Università di Leida. Bolkestein ha avvertito che l’Europa è destinata a "implodere" se si espanderà con troppa rapidità. Ha scelto il momento più opportuno per sollevare questo problema. Fra pochi giorni, il commissario europeo all’allargamento, il tedesco Günther Verheugen, farà pubblicare un rapporto sui modi per aprire i negoziati con la Turchia riguardo alla sua adesione all’Ue. Ci si aspetta che sia un rapporto favorevole. La Commissione deve votare su questo rapporto a dicembre; dopodiché si prevede un decennio di negoziati. Ma, poiché il rapporto di Verheugen sarà con ogni probabilità favorevole e poiché è presumibile che la Commissione approvi le raccomandazioni del rapporto e poiché, infine, nessuno
Stato candidato all’Ue è mai stato finora rifiutato, il processo appare come un fait accompli. Grazie a che cosa? Grazie all’umore di Verheugen, i popoli d’Europa vedono il loro destino irrevocabilmente incatenato a quello del mondo islamico. Anzi, la necessità di creare un legame solenne con il secolarismo islamico che la Turchia ha seguito dopo l’ascesa al potere di Atatürk, è la ragione più spesso menzionata per dimostrare l’indispensabilità dell’ingresso della Turchia nell’Ue. Così, Bolkestein stava affrontando un turbamento di portata continentale. Il suo discorso è stato lungo. Riferendosi all’aspirazione dell’Ue di diventare uno Stato multinazionale, ha richiamato l’attenzione sul destino cui andò incontro la più recente potenza europea che abbia nutrito quest’aspirazione: l’impero austroungarico. Gli austriaci contavano sulla loro cultura (a Vienna vissero Liszt, Richard Strauss, Brahms,
Mahler e Wagner). Godevano di grande prosperità ed erano orgogliosi della loro posizione. Ma erano soltanto otto milioni, e l’espansione delle loro frontiere li mise faccia a faccia con un vigoroso movimento panslavico. Dopo che l’impero austroungarico ebbe assorbito 20 milioni di slavi, dovette cercare di trovare un difficile compromesso tra la concessione a questi nuovi sudditi del permesso di autogovernarsi e la conservazione della propria cultura. Esattamente
come nel caso dell’Ue, l’impero aveva già oltrepassato il punto di non ritorno
quando si accorse che non stava andando da nessuna parte. Bolkestein ha chiesto quale lezione devono trarre gli europei dalla storia, nel momento in cui prendono in considerazione la possibilità di accogliere la Turchia. Ha poi trattato due problemi specifici. In primo luogo, il fatto che non si vedeva all’orizzonte una conclusione logica all’espansione europea: una volta che l’Ue avrà accettato la Turchia, non ci saranno ragioni per rifiutare paesi molto più europei come l’Ucraina o la Bielorussia. Così, l’Europa sta aggravando una situazione di instabilità. Per affrontarla le mancano tanto i mezzi finanziari quanto la solidarietà culturale. In secondo luogo, ha avvertito Bolkestein, l’immigrazione sta trasformando l’Ue in "un impero austroungarico di proporzioni molto più vaste". Ha accennato al fatto che molte grandi città avranno presto soltanto una minoranza di europei (due tra le più importanti, Amsterdam e Rotterdam, nella sua madrepatria) e ha ribadito che la (progettata) aggiunta di 83 milioni di musulmani turchi accentuerà ulteriormente l’islamizzazione dell’Europa. E’ stata questa la parte del suo discorso (nella quale ha citato le previsioni di Lewis) che ha occupato le prime pagine dei giornali di tutto il mondo: "Le attuali tendenze", ha detto, "consentono una sola conclusione: gli Stati Uniti d’America resteranno la sola superpotenza.
La Cina sta diventando un gigante economico. L’Europa si sta islamizzando". Ne è nata una specie di reazione a catena. Due giorni dopo il discorso di Bolkestein, il Financial Times ha pubblicato una lettera che Franz Fischler, l’uscente commissario dell’Ue per l’agricoltura, aveva inviato privatamente ai commissari suoi colleghi. Fischler si lamentava che la Turchia "era un paese di natura molto più orientale dell’Europa" e, peggio ancora, che "rimanevano dubbi sulle credenziali laiche e democratiche della Turchia. Ci sarebbe potuto essere un ritorno violento del fondamentalismo". La reazione dell’Europa è stata un collettivo "E ce lo dite soltanto adesso!". Considerate insieme, le osservazioni di Bolkestein e di Fischler sono apparse sintomatiche della politically correctness che circonda la questione dell’adesione turca. Una maggioranza del Parlamento Europeo e i vari parlamenti nazionali sono contrari all’ingresso della Turchia nell’Ue, e anche le popolazioni europee sono schierate sulla stessa posizione. E’ stata la Commissione europea a guidare questo processo; e ora due autorevoli membri di questo organismo, al momento di abbandonare la loro carriera politica, dicono che è stato tutto un grande errore di cui nessuno osa parlare (forse l’unica cosa che fa infuriare l’uomo della strada europeo ancora più di questa ambiguità burocratica è il costante appoggio dato dagli Stati Uniti all’ingresso della Turchia nell’Ue). La cosa più interessante a proposito dell’intervista di Lewis che ha suscitato questa ondata di introspezione europea è che non era dedicata specificamente all’Europa. L’intervistatore ha chiesto a Lewis la sua opinione sugli sviluppi della guerra in Iraq, sull’evoluzione della questione palestinese, sulle speranze democratiche dell’Iran e sulle prospettive di vittoria contro al Qaida
(su quest’ultimo tema Lewis ha dato un’inquietante risposta: "Si tratta di un processo lungo il cui risultato non è affatto certo", ha detto, aggiungendo: "Funziona in modo simile al comunismo, che affascinava gli scontenti dell’occidente perché sembrava offrirgli risposte non ambigue. L’islam radicale esercita la stessa forza d’attrazione"). Lewis è stato altrettanto incisivo quando ha descritto la spaccatura tra Ue e Stati Uniti usando l’espressione "comunità dell’invidia" ("Comprensibilmente, gli europei hanno alcune riserve su un’America che li ha nettamente distaccati. E’ per questo che gli europei comprendono perfettamente i musulmani, che condividono gli stessi sentimenti"). Ma il tema del futuro islamico dell’Europa è stato toccato solo incidentalmente nel corso dell’intervista. Alla domanda se l’Ue potesse fare da contrappeso globale agli Stati Uniti, Lewis ha risposto con un secco "no". Secondo Lewis, solo tre paesi possono essere degli attori "globali": sicuramente la Cina e l’India e, forse, una rinnovata Russia. "L’Europa", ha aggiunto Lewis, "diverrà parte dell’occidente arabo, del Maghreb". Ciò che sembra avere fatto infuriare gli europei è il fatto che Lewis non ha presentato questa affermazione come un’ipotesi azzardata, ma come se fosse qualcosa che ogni persona politicamente neutrale e intellettualmente onesta dà per scontato. E’ davvero così? Bolkestein ha detto di non sapere se le cose andranno proprio come predetto da Lewis ("Ma se ha ragione", ha aggiunto, "la liberazione di Vienna nel 1683 sarà stata inutile"). Bassam Tibi,un immigrato siriano, tra i più autorevoli rappresentanti dell’islamismo moderato in Germania, sembra concordare con la tesi di Lewis, anche se rifiuta la sua enfasi. "O l’Islam si europeizza, oppure l’Europa si islamizza", ha scritto in "Welt am Sonntag". Avendo trascorso gran parte dell’ultimo decennio impegnandosi nella costruzione di giudiziose istituzioni musulmane in Europa,
sembra volerci avvertire che l’Europa non ha la forza di rifiutare l’islam né la possibilità di guidarlo. "Il problema non è se la maggioranza degli europei diventa musulmana", ha dichiarato, "ma piuttosto quale forma di islam è destinata a dominare in Europa: l’islam della sharia o l’euroislam".
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