Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Il festival delle ipocrisie intorno al sequestro e alla liberazione delle due italiane e inoltre:la guerra del Mossad ad Hamas, il rischio di un attentato nucleare e le possibili contromisure
Testata:Il Foglio Autore: un giornalista Titolo: «Non è lì la festa - Mossad- La legge dei tre no può evitare un attacco nucleare»
Sul Foglio di oggi, 29-09-04, un editoriale sul "festival dell'ipocrisia" che ha accompagnato il sequestro e la liberazione di Simona Pari e Simona Torretta. Ecco il pezzo: "Non è lì la festa"
Le hanno rilasciate, e questo è motivo di gioia per loro, per le famiglie, per tutti noi. Ma non appena è scoppiata la notizia che gli ostaggi sbagliati sono salvi, è cominciato il festival dell’ipocrisia più sfacciata. Salvo il presidente Carlo Azeglio Ciampi e il giornalista Toni Capuozzo, non si sono sentiti commenti sobri, degni della tragica circostanza in cui la liberazione delle italiane è avvenuta. Le italiane sono vive, non gli americani, gli inglesi, gli ebrei, i turchi, i nepalesi e Baldoni e Quattrocchi e i venti morti di Nassiriyah prima di lui. Ken Bigley, che rischia la decapitazione da un momento all’altro, è stato già ucciso in effigie attraverso la tecnica ben nota dell’umiliazione personale, l’esposizione piangente e disperata dell’ostaggio alle telecamere. Decine di soldati americani e inglesi e polacchi e italiani sono stati uccisi e sono uccisi ogni giorno in Iraq dalla guerra santa islamica, e decine di civili iracheni sono vittime di attentati e di guerre per bande, in particolare i molti che fanno la fila per entrare in corpi di sicurezza nazionale che siano in grado di stabilizzare quel paese, di dargli pace e un embrione di democrazia elettorale dopo trentaquattro anni di dominio incontrollato del regime terroristico di Saddam Hussein. Molti eroi caduti si sono sporcati le mani con la tragedia irachena. Simona Pari e Simona Torretta non sono e non vorrebbero essere definite eroi, sono persone che hanno fatto un onesto lavoro umanitario e alla fine si sono ritrovate a essere strumenti involontari di una colletta, che si chiama riscatto nel caso dei rapimenti finiti bene, il cui ricavato andrà ad alimentare le armi e il reclutamento della guerra contro la pace e la democrazia in quella regione del mondo. La faccenda, per le persone serie, si chiude qui, in questa gioia che precede la riflessione razionale. Poi la riflessione comincia. Lasciamo ad altri ora il perfezionamento del simbolico eroismo umanitario delle due Simone, un simbolismo pigro, accidioso e moralmente ambiguo di cui è stato centro il Campidoglio, punto di raccolta di fiaccole che non facevano luce e di preghiere interreligiose che non hanno salvato e non salveranno coloro che sono lì a combattere una battaglia giusta e non hanno le difese del politicamente e dell’ideologicamente corretto, del pacifismo innocente e distratto quando non si tratta di lui stesso e dei suoi figli. Sono belle le immagini tv delle due ragazze che giocano con i bimbi iracheni, che si mettono il hijab per assimilarsi alla cultura locale, che non vogliono essere scortate perché credono nel carattere benigno del mondo, ed è splendido che questa storia si sia chiusa con un lieto fine. Tutto il resto dovrebbe fare vergogna a questo paese facile facile, che prorompe in singhiozzi, ma sempre e regolarmente a singhiozzo. In prima pagina un articolo sull'esecuzione a Damasco di un capo di Hamas.
Nell’intelligence community tutti si aspettavano che prima o poi Israele avrebbe colpito a Damasco. Lo scorso mese, dopo il doppio attentato di Hamas a Beersheba (15 morti civili israeliani, un centinaio di feriti) le autorità di Gerusalemme avevano avvertito la dirigenza dei terroristi di Hamas. "Questo crimine lo avete organizzato in Siria. Ma non pensate di essere sicuri laggiù. Vi prenderemo". La minaccia era arrivata dai portavoce dell’ufficio del premier Sharon. Ma, di fatto, secondo gli esperti dell’intelligence americana portava la firma di Meir Dagan, capo del Mossad. Amico di Sharon (si conoscono da 33 anni), Dagan viene dai ranghi militari, ha diretto corpi speciali, è un uomo d’azione. Dalle prime reazioni israeliane all’attentato di Beersheba sembrava che nel mirino del Mossad dovessero esserci i due noti dirigenti di Hamas che vivono a Damasco: Khaled Mashal, il capo, e Moussa Abu Marzuk, il suo vice. Invece domenica a Damasco, nel quartiere di Zahraa, abitato da palestinesi rifugiati in Siria, è esplosa l’auto SUV bianca di Izz el-Deen Sheikh Khalil, 42 anni. Khalil aveva infilato la chiave elettronica nel cruscotto della vettura e contemporaneamente aveva risposto al telefonino. Contatto, esplosione, fine di Khalil, il capo, segreto e per nulla noto, del coordinamento militare e operativo di Hamas, responsabile diretto di tutti gli attentati in Cisgiordania, a Gaza e in Israele. La bomba era nascosta sotto il sedile dell’auto. Khalil era conosciuto dalle agenzie di sicurezza israeliane sin dalla fine degli anni 80. Arrestato, era poi stato deportato in Libano nel ’91. Nei file d’Israele è definito "the snake’s head", la testa del serpente. Fu lui, ad esempio, ad addestrare i fabbricanti di bombe e cinture esplosive, Adnan al Hool, Mohammed Deif, e Yihya Ayyash, detto "the engineer", il massimo esperto di tritolo, eliminato dallo Shin Bet nel ’96 (gli esplose in faccia il telefono mobile). Com’è ovvio, lo Stato ebraico ha respinto l’accusa, fatta da siriani e palestinesi, di aver organizzato il colpo contro Khalil. Ma negli ambienti dell’intelligence tutti sanno che non è così. E s’interrogano sui retroscena. Dal 1997 (fallita azione contro Mashal ad Amman), il Mossad non colpiva in un paese arabo. Nell’88, in Tunisia, era stato eliminato Khalid Al-Wazir (Abu Jihad), comandante delle operazioni di al Fatah in Cisgiordania. Decine di altre operazioni sono state condotte in Libano. Ma la Siria è un’altra cosa, un paese dominato dai servizi segreti, difficile da penetrare. Eli Cohen, del Mossad, impiccato in Siria nel ’65, dopo aver raggiunto i vertici della difesa di Damasco, è un eroe per gli israeliani. La cellula che ha operato domenica a Damasco com’è arrivata lì? E quando? E con la collaborazione di chi? Il regime siriano ha scatenato da tre giorni la caccia all’uomo. Gli israeliani possono essere entrati in Siria non tanto dalla munita frontiera siro-libanese, ma dalla Turchia, dalla Giordania, o dall’Iraq, una linea di confine colabrodo. Secondo dispacci diplomatici provenienti a Foggy Bottom da Damasco, il vertice siriano è convinto che Israele abbia potuto godere nella sua azione dell’appoggio di un regime arabo "riconoscente per passati favori". Il riferimento è alla Giordania, all’Egitto, al Marocco e alla Tunisia, paesi che hanno con Israele contatti a livello di intelligence. Al ministero degli Esteri siriano esibiscono come prova del "tradimento" arabo un articolo del quotidiano al Hayat, stampato a Londra , uscito due giorni prima dell’attentato. Vi si scrive che un servizio di intelligence arabo ha fornito a Israele notizie dettagliate sui leader di Hamas a Damasco, Beirut, Teheran e Khartoum. Chi conosce bene Dagan sa della sua diffidenza verso operazioni troppo elaborate. E’ un tipo che va dritto all’obiettivo. Fonti anche in loco possono aver fornito notizie utili, ma il 100 per cento dell’iniziativa è di mano israeliana. Non è escluso che, come successe con Abu Jihad, il botto di Damasco nasca dalla cooperazione fra Mossad, intelligence militare, Forza aerea israeliana, e il Sayeret Matka, storico corpo d’élite. Chi ha esaminato la tecnica d’intervento ritiene che abbia operato una cellula piccola, mimetizzata e inserita, ma anche ben coperta, onde evitare sorprese. I siriani sanno ora che Damasco non è invulnerabile. C’è un buco nel sistema di controspionaggio. Ma non sanno dove. A pagina 3 in un'intervista l'esperto di terrorismo nucleare Graham Allison spiega "come tentare di prevenire la minaccia della bomba sporca o atomica" Ecco il pezzo: "La legge dei tre no può evitare un attacco nucleare, dice Allison" New York. "Un attacco nucleare contro l’America è inevitabile", dice Graham Allison al Foglio. Allison è professore alla John F. Kennedy School of Government dell’università di Harvard e ha lavorato alle strategie del Pentagono durante le Amministrazioni Clinton. Ha scritto un libro, già segnalato nei giorni scorsi dal Foglio, "Nuclear Terrorism. The ultimate preventable catastrophe", presentato lunedì al Council on Foreign Relations di fronte all’élite giornalistica e finanziaria di New York. La tesi è la seguente: i nostri nemici fanno sul serio, noi siamo vulnerabili, le bombe nucleari ci sono, gli strumenti per costruirle sono a loro disposizione, le frontiere americane sono un colabrodo: quindi pensare a un attacco nucleare non è una riflessione sul "se" accadrà, ma su "quando" accadrà. "Anche voi italiani e voi europei – spiega Allison – correte lo stesso pericolo. Il loro primo obiettivo siamo noi americani, ma poi ci sono gli inglesi e gli europei in generale. Se i terroristi che hanno già colpito Madrid avessero avuto a disposizione un’arma nucleare è evidente che l’avrebbero usata. Così come sono certo che i ceceni non esiterebbero a far esplodere un’atomica a Mosca. Non ho particolari informazioni precise sull’Italia, ma nessuno può dirsi al sicuro". Allison spiega che una bomba di fabbricazione sovietica da 10 kiloton fatta esplodere a mezzogiorno a Times Square, nel centro di New York, provocherebbe istantaneamente mezzo milione di morti, più centinaia di migliaia di altre vittime in seguito ai crolli e agli incendi. Nel raggio di venti isolati non rimarrebbe in piedi assolutamente più niente, né mattoni né vite umane. Oltre, fino a poco più di un chilometro dalla detonazione, ci sarebbero altri morti, feriti, radiazioni ed edifici in fiamme. Lo scenario non è così inimmaginabile: nell’ottobre del 2001, la Cia aveva avuto segnalazioni di un progetto di al Qaida di far esplodere una bomba a Times Square. "Di cosa siano capaci i terroristi, lo abbiamo visto – dice Allison – Quale sia il loro obiettivo è scritto nei loro documenti. Bin Laden, dopo l’11 settembre, ha fatto sapere che il suo obiettivo è di uccidere almeno 4 milioni di americani ed ebrei, un numero che lui ricava dai morti in cinquant’anni di conflitto in Palestina, dalla prima guerra del Golfo, dalle sanzioni contro l’Iraq, dall’intervento in Somalia e dalla guerra in Afghanistan. E’ evidente che voglia mettere le mani su una bomba nucleare". Alla domanda se sia facile ottenere o costruirsi un ordigno nucleare, Allison risponde di sì alla prima e di no alla seconda. Nell’ex Unione Sovietica ci sono tra le 30 mila e le 80 mila armi nucleari, malamente controllate e malamente conservate, dice. Nel 1991 l’attuale vicepresidente Dick Cheney disse: "Anche se i sovietici facessero un lavoro eccellente nel controllare il loro arsenale nucleare e anche se ottenessero un successo nel 99 per cento dei casi, rimarebbero almeno 250 bombe fuori controllo". Nel 1997 il generale Alexander Lebed rivelò alla trasmissione americana "60 minutes" che 84 delle 132 bombe nucleari di "formato valigetta" in dotazione al Kgb sono scomparse. Si tratta di dispositivi nucleari in miniatura che possono essere fatti esplodere da una sola persona in trenta minuti e non necessitano né di codici segreti né di autorizzazioni da Mosca. Questo è il pericolo più grande, spiega Allison, considerando il fatto che è praticamente impossibile controllare tutti i porti e tutti gli aeroporti americani. Ogni giorno 30 mila camion, 6.500 vagoni ferroviari e 140 navi consegnano 50 mila container con oltre 500 mila oggetti al loro interno. Su sette milioni di container che arrivano ogni anno negli Stati Uniti, solo il 5 per cento viene aperto per ispezione. Dal Messico, ha raccontato Time, ogni anno entrano tre milioni di clandestini. I terroristi potrebbero usare anche altre tecniche: colpire le centrali nucleari americane, oppure acquistare l’uranio arricchito o il plutonio necessario per costruirsi in casa la bomba. "Sono materiali che non esistono in natura – dice Allison – ma la cattiva notizia è un’altra: in giro ce ne sono abbastanza". "Una soluzione per prevenire questa catastrofe annunciata però c’è – continua Allison – e non è quella di trasferirsi in Midwest". Il punto centrale, che Allison spiega nella seconda parte del suo libro, è quello di negare ai terroristi l’accesso alle armi e al materiale nucleare. Per fare questo è necessario cambiare strategia e adottare la dottrina dei "tre no": no alle bombe in circolazione, no alle nuove bombe e no agli Stati nucleari". La Casa Bianca, secondo Allison, dovrebbe varare un piano prioritario e un’iniziativa diplomatica insieme con il presidente russo Vladimir Putin per rintracciare tutte le armi e i materiali nucleari in giro per il mondo al fine di metterli al sicuro. Il secondo punto è quello di impedire la creazione di altre armi nucleari. Allison ricorda che il "Trattato sulla non proliferazione nucleare è roba vecchia", al punto che non vieta agli Stati di produrre uranio arricchito e plutonio. Il terzo elemento della strategia di Allison è quello di non consentire ad altri paesi, cioè la Corea del nord e l’Iran, di diventare potenze nucleari. Bush sta sbagliando approccio, dice Allison, "non ha mai dichiarato guerra al nucleare". Da realista vecchio stampo, Allison sostiene che l’America non debba impegnarsi per cambiare il regime in Iran, ma piuttosto concentrarsi perché gli ayatollah abbandonino i progetti nucleari. Stesso atteggiamento sulla Corea del nord. Secondo il clintoniano Allison, le ricette dei neoconservatori sono ingenue: "Loro dicono che con il Male non si tratta, piuttosto lo si distrugge. Ma non funziona. L’America dovrebbe offrire un patto al regime di Pyongyang: se abbandonate il nucleare, vi lasciamo sopravvivere". Le sanzioni non sono sufficienti, conclude Allison, è necessario minacciare un intervento armato contro le centrali di produzione: "Gli israeliani sono molto bravi", conclude Allison, ma non dice come si fa in Corea, dove il VII Cavalleggeri con la stella di David non c’è. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.