sabato 17 maggio 2025
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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio Rassegna Stampa
29.09.2004 Il festival delle ipocrisie intorno al sequestro e alla liberazione delle due italiane
e inoltre:la guerra del Mossad ad Hamas, il rischio di un attentato nucleare e le possibili contromisure

Testata:Il Foglio
Autore: un giornalista
Titolo: «Non è lì la festa - Mossad- La legge dei tre no può evitare un attacco nucleare»
Sul Foglio di oggi, 29-09-04, un editoriale sul "festival dell'ipocrisia" che ha accompagnato il sequestro e la liberazione di Simona Pari e Simona Torretta.
Ecco il pezzo: "Non è lì la festa"

Le hanno rilasciate, e questo è motivo
di gioia per loro, per le famiglie, per
tutti noi. Ma non appena è scoppiata la
notizia che gli ostaggi sbagliati sono salvi,
è cominciato il festival dell’ipocrisia
più sfacciata. Salvo il presidente Carlo
Azeglio Ciampi e il giornalista Toni Capuozzo,
non si sono sentiti
commenti sobri, degni
della tragica circostanza
in cui la liberazione delle
italiane è avvenuta. Le italiane
sono vive, non gli americani,
gli inglesi, gli
ebrei, i turchi, i nepalesi
e Baldoni e Quattrocchi
e i venti morti di Nassiriyah
prima di lui. Ken Bigley,
che rischia la decapitazione
da un momento all’altro, è
stato già ucciso in effigie attraverso la
tecnica ben nota dell’umiliazione personale,
l’esposizione piangente e disperata
dell’ostaggio alle telecamere. Decine
di soldati americani e inglesi e polacchi
e italiani sono stati uccisi e sono
uccisi ogni giorno in Iraq dalla guerra
santa islamica, e decine di civili iracheni
sono vittime di attentati e di guerre
per bande, in particolare i molti che fanno
la fila per entrare in corpi di sicurezza
nazionale che siano in grado di
stabilizzare quel paese, di dargli pace e
un embrione di democrazia elettorale
dopo trentaquattro anni di dominio incontrollato
del regime terroristico di
Saddam Hussein. Molti eroi caduti si sono
sporcati le mani con la tragedia irachena.
Simona Pari e Simona Torretta
non sono e non vorrebbero essere definite
eroi, sono persone che hanno fatto
un onesto lavoro umanitario e alla fine
si sono ritrovate a essere strumenti involontari
di una colletta, che si chiama
riscatto nel caso dei rapimenti finiti bene,
il cui ricavato andrà ad alimentare
le armi e il reclutamento della guerra
contro la pace e la democrazia
in quella regione del mondo. La
faccenda, per le persone serie,
si chiude qui, in questa gioia
che precede la riflessione
razionale. Poi la
riflessione comincia.
Lasciamo ad altri ora il
perfezionamento del simbolico
eroismo umanitario
delle due Simone, un simbolismo
pigro, accidioso e
moralmente ambiguo di cui è
stato centro il Campidoglio, punto di
raccolta di fiaccole che non facevano luce
e di preghiere interreligiose che non
hanno salvato e non salveranno coloro
che sono lì a combattere una battaglia
giusta e non hanno le difese del politicamente
e dell’ideologicamente corretto,
del pacifismo innocente e distratto
quando non si tratta di lui stesso e dei
suoi figli. Sono belle le immagini tv delle
due ragazze che giocano con i bimbi
iracheni, che si mettono il hijab per assimilarsi
alla cultura locale, che non vogliono
essere scortate perché credono
nel carattere benigno del mondo, ed è
splendido che questa storia si sia chiusa
con un lieto fine. Tutto il resto dovrebbe
fare vergogna a questo paese facile
facile, che prorompe in singhiozzi,
ma sempre e regolarmente a singhiozzo.
In prima pagina un articolo sull'esecuzione a Damasco di un capo di Hamas.

Nell’intelligence community tutti si aspettavano
che prima o poi Israele avrebbe colpito
a Damasco. Lo scorso mese, dopo il doppio
attentato di Hamas a Beersheba (15 morti
civili israeliani, un centinaio di feriti) le
autorità di Gerusalemme avevano avvertito
la dirigenza dei terroristi di Hamas. "Questo
crimine lo avete organizzato in Siria. Ma non
pensate di essere sicuri laggiù. Vi prenderemo".
La minaccia era arrivata dai portavoce
dell’ufficio del premier Sharon. Ma, di fatto,
secondo gli esperti dell’intelligence americana
portava la firma di Meir Dagan, capo
del Mossad. Amico di Sharon (si conoscono
da 33 anni), Dagan viene dai ranghi militari,
ha diretto corpi speciali, è un uomo d’azione.
Dalle prime reazioni israeliane all’attentato
di Beersheba sembrava che nel mirino
del Mossad dovessero esserci i due noti
dirigenti di Hamas che vivono a Damasco:
Khaled Mashal, il capo, e Moussa Abu Marzuk,
il suo vice. Invece domenica a Damasco,
nel quartiere di Zahraa, abitato da palestinesi
rifugiati in Siria, è esplosa l’auto SUV
bianca di Izz el-Deen Sheikh Khalil, 42 anni.
Khalil aveva infilato la chiave elettronica
nel cruscotto della vettura e contemporaneamente
aveva risposto al telefonino. Contatto,
esplosione, fine di Khalil, il capo, segreto
e per nulla noto, del coordinamento
militare e operativo di Hamas, responsabile
diretto di tutti gli attentati in Cisgiordania, a
Gaza e in Israele. La bomba era nascosta sotto
il sedile dell’auto. Khalil era conosciuto
dalle agenzie di sicurezza israeliane sin dalla
fine degli anni 80. Arrestato, era poi stato
deportato in Libano nel ’91. Nei file d’Israele
è definito "the snake’s head", la testa del
serpente. Fu lui, ad esempio, ad addestrare
i fabbricanti di bombe e cinture esplosive,
Adnan al Hool, Mohammed Deif, e Yihya
Ayyash, detto "the engineer", il massimo
esperto di tritolo, eliminato dallo Shin Bet
nel ’96 (gli esplose in faccia il telefono mobile).
Com’è ovvio, lo Stato ebraico ha respinto
l’accusa, fatta da siriani e palestinesi, di aver
organizzato il colpo contro Khalil. Ma negli
ambienti dell’intelligence tutti sanno che
non è così. E s’interrogano sui retroscena.
Dal 1997 (fallita azione contro Mashal ad
Amman), il Mossad non colpiva in un paese
arabo. Nell’88, in Tunisia, era stato eliminato
Khalid Al-Wazir (Abu Jihad), comandante
delle operazioni di al Fatah in Cisgiordania.
Decine di altre operazioni sono state condotte
in Libano. Ma la Siria è un’altra cosa,
un paese dominato dai servizi segreti, difficile
da penetrare. Eli Cohen, del Mossad,
impiccato in Siria nel ’65, dopo aver raggiunto
i vertici della difesa di Damasco, è un eroe
per gli israeliani. La cellula che ha operato
domenica a Damasco com’è arrivata lì? E
quando? E con la collaborazione di chi? Il
regime siriano ha scatenato da tre giorni la
caccia all’uomo. Gli israeliani possono essere
entrati in Siria non tanto dalla munita
frontiera siro-libanese, ma dalla Turchia,
dalla Giordania, o dall’Iraq, una linea di confine
colabrodo. Secondo dispacci diplomatici
provenienti a Foggy Bottom da Damasco,
il vertice siriano è convinto che Israele abbia
potuto godere nella sua azione dell’appoggio
di un regime arabo "riconoscente per passati
favori". Il riferimento è alla Giordania, all’Egitto,
al Marocco e alla Tunisia, paesi che
hanno con Israele contatti a livello di intelligence.
Al ministero degli Esteri siriano esibiscono
come prova del "tradimento" arabo
un articolo del quotidiano al Hayat, stampato
a Londra , uscito due giorni prima dell’attentato.
Vi si scrive che un servizio di intelligence
arabo ha fornito a Israele notizie dettagliate
sui leader di Hamas a Damasco, Beirut,
Teheran e Khartoum. Chi conosce bene
Dagan sa della sua diffidenza verso operazioni
troppo elaborate. E’ un tipo che va dritto
all’obiettivo. Fonti anche in loco possono
aver fornito notizie utili, ma il 100 per cento
dell’iniziativa è di mano israeliana. Non è
escluso che, come successe con Abu Jihad, il
botto di Damasco nasca dalla cooperazione
fra Mossad, intelligence militare, Forza aerea
israeliana, e il Sayeret Matka, storico corpo
d’élite. Chi ha esaminato la tecnica d’intervento
ritiene che abbia operato una cellula
piccola, mimetizzata e inserita, ma anche
ben coperta, onde evitare sorprese. I siriani
sanno ora che Damasco non è invulnerabile.
C’è un buco nel sistema di controspionaggio.
Ma non sanno dove.
A pagina 3 in un'intervista l'esperto di terrorismo nucleare Graham Allison spiega "come tentare di prevenire la minaccia della bomba sporca o atomica" Ecco il pezzo: "La legge dei tre no può evitare un attacco nucleare, dice
Allison"

New York. "Un attacco nucleare contro
l’America è inevitabile", dice Graham Allison
al Foglio. Allison è professore alla John
F. Kennedy School of Government dell’università
di Harvard e ha lavorato alle strategie
del Pentagono durante le Amministrazioni
Clinton. Ha scritto un libro, già segnalato
nei giorni scorsi dal Foglio, "Nuclear
Terrorism. The ultimate preventable catastrophe",
presentato lunedì al Council on
Foreign Relations di fronte all’élite giornalistica
e finanziaria di New York.
La tesi è la seguente: i nostri nemici fanno
sul serio, noi siamo vulnerabili, le bombe
nucleari ci sono, gli strumenti per costruirle
sono a loro disposizione, le frontiere americane
sono un colabrodo: quindi pensare a
un attacco nucleare non è una riflessione
sul "se" accadrà, ma su "quando" accadrà.
"Anche voi italiani e voi europei – spiega Allison
– correte lo stesso pericolo. Il loro primo
obiettivo siamo noi americani, ma poi ci
sono gli inglesi e gli europei in generale. Se
i terroristi che hanno già colpito Madrid
avessero avuto a disposizione un’arma nucleare
è evidente che l’avrebbero usata. Così
come sono certo che i ceceni non esiterebbero
a far esplodere un’atomica a Mosca.
Non ho particolari informazioni precise sull’Italia,
ma nessuno può dirsi al sicuro".
Allison spiega che una bomba di fabbricazione
sovietica da 10 kiloton fatta esplodere
a mezzogiorno a Times Square, nel
centro di New York, provocherebbe istantaneamente
mezzo milione di morti, più centinaia
di migliaia di altre vittime in seguito
ai crolli e agli incendi. Nel raggio di venti
isolati non rimarrebbe in piedi assolutamente
più niente, né mattoni né vite umane.
Oltre, fino a poco più di un chilometro dalla
detonazione, ci sarebbero altri morti, feriti,
radiazioni ed edifici in fiamme. Lo scenario
non è così inimmaginabile: nell’ottobre
del 2001, la Cia aveva avuto segnalazioni
di un progetto di al Qaida di far esplodere
una bomba a Times Square. "Di cosa siano capaci i terroristi, lo abbiamo
visto – dice Allison – Quale sia il loro
obiettivo è scritto nei loro documenti. Bin
Laden, dopo l’11 settembre, ha fatto sapere
che il suo obiettivo è di uccidere almeno 4
milioni di americani ed ebrei, un numero
che lui ricava dai morti in cinquant’anni di
conflitto in Palestina, dalla prima guerra del
Golfo, dalle sanzioni contro l’Iraq, dall’intervento
in Somalia e dalla guerra in Afghanistan.
E’ evidente che voglia mettere le mani
su una bomba nucleare".
Alla domanda se sia facile ottenere o costruirsi
un ordigno nucleare, Allison risponde
di sì alla prima e di no alla seconda. Nell’ex
Unione Sovietica ci sono tra le 30 mila e
le 80 mila armi nucleari, malamente controllate
e malamente conservate, dice. Nel
1991 l’attuale vicepresidente Dick Cheney
disse: "Anche se i sovietici facessero un lavoro
eccellente nel controllare il loro arsenale
nucleare e anche se ottenessero un successo
nel 99 per cento dei casi, rimarebbero
almeno 250 bombe fuori controllo".
Nel 1997 il generale Alexander Lebed rivelò
alla trasmissione americana "60 minutes"
che 84 delle 132 bombe nucleari di "formato
valigetta" in dotazione al Kgb sono
scomparse. Si tratta di dispositivi nucleari
in miniatura che possono essere fatti esplodere
da una sola persona in trenta minuti e
non necessitano né di codici segreti né di
autorizzazioni da Mosca. Questo è il pericolo
più grande, spiega Allison, considerando
il fatto che è praticamente impossibile controllare
tutti i porti e tutti gli aeroporti americani.
Ogni giorno 30 mila camion, 6.500 vagoni
ferroviari e 140 navi consegnano 50 mila
container con oltre 500 mila oggetti al loro
interno. Su sette milioni di container che
arrivano ogni anno negli Stati Uniti, solo il 5
per cento viene aperto per ispezione. Dal
Messico, ha raccontato Time, ogni anno entrano
tre milioni di clandestini. I terroristi
potrebbero usare anche altre tecniche: colpire
le centrali nucleari americane, oppure
acquistare l’uranio arricchito o il plutonio
necessario per costruirsi in casa la bomba.
"Sono materiali che non esistono in natura –
dice Allison – ma la cattiva notizia è un’altra:
in giro ce ne sono abbastanza".
"Una soluzione per prevenire questa
catastrofe annunciata però c’è – continua
Allison – e non è quella di trasferirsi in
Midwest". Il punto centrale, che Allison
spiega nella seconda parte del suo libro, è
quello di negare ai terroristi l’accesso alle
armi e al materiale nucleare. Per fare questo
è necessario cambiare strategia e adottare
la dottrina dei "tre no": no alle bombe
in circolazione, no alle nuove bombe e no
agli Stati nucleari". La Casa Bianca, secondo
Allison, dovrebbe varare un piano
prioritario e un’iniziativa diplomatica insieme
con il presidente russo Vladimir Putin
per rintracciare tutte le armi e i materiali
nucleari in giro per il mondo al fine di
metterli al sicuro. Il secondo punto è quello
di impedire la creazione di altre armi
nucleari. Allison ricorda che il "Trattato
sulla non proliferazione nucleare è roba
vecchia", al punto che non vieta agli Stati
di produrre uranio arricchito e plutonio. Il
terzo elemento della strategia di Allison è
quello di non consentire ad altri paesi,
cioè la Corea del nord e l’Iran, di diventare
potenze nucleari. Bush sta sbagliando
approccio, dice Allison, "non ha mai dichiarato
guerra al nucleare". Da realista
vecchio stampo, Allison sostiene che l’America
non debba impegnarsi per cambiare
il regime in Iran, ma piuttosto concentrarsi
perché gli ayatollah abbandonino i
progetti nucleari. Stesso atteggiamento sulla
Corea del nord. Secondo il clintoniano
Allison, le ricette dei neoconservatori sono
ingenue: "Loro dicono che con il Male
non si tratta, piuttosto lo si distrugge. Ma
non funziona. L’America dovrebbe offrire
un patto al regime di Pyongyang: se abbandonate
il nucleare, vi lasciamo sopravvivere".
Le sanzioni non sono sufficienti,
conclude Allison, è necessario minacciare
un intervento armato contro le centrali di
produzione: "Gli israeliani sono molto bravi",
conclude Allison, ma non dice come si
fa in Corea, dove il VII Cavalleggeri con la
stella di David non c’è.
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