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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio Rassegna Stampa
24.09.2004 Israele e il ritiro da Gaza, l'Iran e le armi nucleari, l'Iraq e il terrorismo
analisi sul Medio Oriente

Testata:Il Foglio
Autore: Anna Barducci - un giornalista - Christian Rocca
Titolo: «L'ansia di Israele - Mossa e contromossa del build up nucleare tra Teheran e Gerusalemme - «»
A pagina 1 dell'inserto del Foglio di oggi, 24-09-04, Anna Barducci firma l'articolo "L'ansia di Israele", sul dibattito circa il disimpegno da Gaza, che di seguito riproduciamo
Gerusalemme. "Tov lamud be ad artzenu", com’è bello morire per la nostra terra,
dicevano i primi pionieri mentre cadevano durante la battaglia di Tel Hai, simbolo dell’eroismo israeliano. Sulla strada per Hebron da Gerusalemme, Gabi, uno dei fondatori dei "settlements" di Gush Etzion, spiega al Foglio che "quando nel 1967 sono nati i primi insediamenti, essi avevano un chiaro scopo difensivo. Immagina Gerusalemme senza Gilo o Har Homa, ci sarebbe soltanto
un’ampia boscaglia da dove poter lanciare liberamente missili katiuscia da Beit Jalla o da Betlemme". Gabi si ferma con la macchina a Kfar Etzion, lungo il percorso ci sono alti muri per difendere le automobili dai proiettili dei gruppi palestinesi e dal check point, dove sei mesi fa sono stati uccisi due militari dell’esercito, si controllano le facce dei guidatori. "Gush Etzion è la chiave per capire gli insediamenti – dice Gabi – nel 1948, durante un attacco giordano, 240 persone sono morte per impedire all’esercito nemico di invadere Gerusalemme alla vigilia della dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele. Senza ‘settlements’ le nostre città sarebbero facili bersagli del terrorismo palestinese". Secondo Max Singer, ricercatore del Jerusalem Center for Public Affairs, se Israele è pronto a sacrificare vite umane per la propria difesa, nel caso fosse utile, dovrebbe anche essere pronto a sacrificare la distruzione degli insediamenti. "E’ chiaro – dice Singer – che se un migliaio di famiglie potessero dare un serio contributo alla sicurezza dello Stato di Israele, spostandosi in nuove case, lo farebbero di loro iniziativa". "La questione – continua Singer – è se il ritiro unilaterale migliorerà o peggiorerà la situazione. Gli Stati Uniti, che stanno dall’altra parte dell’oceano, credono di non riuscire a proteggere la propria popolazione se i terroristi hanno un rifugio sicuro in paesi lontani come l’Iraq e l’Afghanistan. Israele dovrebbe quindi sentirsi sicuro nel lasciare Gaza? La separazione dai territori è certamente desiderabile, ma la domanda fondamentale è se sia fattibile da un punto di vista strategico". Alcuni giornali israeliani avanzano il timore (e il dubbio) che i gruppi armati palestinesi vogliano far passare il piano di ritiro dai territori voluto dal premier Ariel Sharon per un secondo Libano: nel maggio del 2000 Ehud Barak, allora premier laburista, decise il ritiro unilaterale di tutte le forze israeliane dal Libano del Sud, senza ottenere contropartite diplomatiche né più sicurezza sul confine; quella decisione ebbe poi l’effetto di rafforzare le illusioni di parte palestinese di poter piegare con la forza la resistenza di Gerusalemme nei confronti del terrorismo, fino allo scoppio della seconda Intifada. L’altra preoccupazione israeliana è che, una volta avvenuto il ritiro, si rafforzi il potere di Hamas e del Jihad islamico nei territori. Dopo tutto, c’è chi ricorda che la stessa al Qaida iniziò a essere quello che è ora nel 1988 proprio quando l’Unione Sovietica si ritirò dall’Afghanistan. "Quella che in occidente può essere vista come un’intelligente mossa strategica – dice Singer – in oriente può essere percepita come una debolezza".

Le zone di sicurezza

"La cosa più importante per Israele – spiega al Foglio Dore Gold, ex ambasciatore di Gerusalemme all’Onu – è avere alcune zone di sicurezza, come nella Cisgiordania, per proteggere la nostra popolazione contro eventuali attacchi armati da parte degli Stati arabi e per impedire l’infiltrazione di gruppi terroristici palestinesi all’interno di Israele". "La vera questione sui settlements – continua Gold – è capire se Israele ha diritto a stare nei territori". Quando nel 1967 Israele entrò nella Cisgiordania e nella striscia di Gaza non esisteva alcuna sovranità legittima. Gaza era stata occupata illegalmente dall’Egitto come la Cisgiordania era stata occupata illegalmente dalla Giordania, violando la risoluzione dell’Onu del 1947. Quindi non si può parlare di territori occupati, ma di territori contesi. "La presenza di Israele a Gaza, Samaria e Giudea è conforme al diritto internazionale – dice Gold – la risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza dell’Onu dà il diritto allo Stato di Israele di amministrare Gaza e la Cisgiordania, fino a quando non sia raggiunto un accordo di pace tra le due parti". Il futuro dello sgombero degli insediamenti sembra essere ancora incerto, anche se Sharon pare determinato ad andare avanti con il suo piano. Se il progetto di disimpegno sarà sottoposto a un referendum nazionale, come propone il ministro delle Finanze Benjamin Netanyahu, i settlers potrebbero mobilitare una buona parte della popolazione e impedire il ritiro da Gaza. Allo stesso tempo, il Partito nazionalreligioso (NRP) ha deciso di rimanere nella coalizione per ostacolare, con i propri voti, qualsiasi passo avanti nel processo di disimpegno, rendendo la vita difficile al premier, che, nonostante le minacce di morte, dichiara di non aver paura. Sharon comprende la rabbia dei settlers, ma crede che il suo piano possa portare benefici politici, un maggior appoggio internazionale a Israele, e più sicurezza. Il 28 settembre saranno quattro anni che Israele vive l’Intifada; ieri tre palestinesi hanno attaccato l’insediamento Morag, nella parte meridionale di Gaza, uccidendo tre soldati di Gerusalemme, prima di essere a loro volta uccisi; sempre ieri e sempre da Gaza sono stati lanciati due missili Qassam sulla città di Sderot (un israeliano ferito); la domanda che tormenta gli israeliani è se il ritiro dai territori possa davvero dare più sicurezza alla propria nazione.
In prima pagina la minaccia nucleare iraniana a Israele al centro dell'articolo: "Mossa e contromossa del build up nucleare tra Teheran e Gerusalemme", che di seguito riproduciamo.
Roma. Il ministro degli Esteri israeliano, Silvan Shalom, ieri ha detto: "La comunità internazionale si rende conto che l’Iran non rappresenta una minaccia solo per Israele, ma per il mondo intero", perché Teheran "ha sostituito Saddam come primo esportatore mondiale di terrore, odio e instabilità". "Israele deve essere spazzato via dalla carta geografica", era invece scritto su un missile Shahab-2 da 700 km di gittata che martedì ha sfilato nella capitale iraniana, nella parata annuale di fronte al mausoleo di Khomeini, in ricordo della guerra contro l’Iraq. "Israele ha molte, molte capacità – diceva l’estate scorsa l’ex capo del Mossad Danny Yatom – In passato ha gestito operazioni a largo raggio, come quando abbiamo bombardato l’apparato nucleare iracheno. Da allora si può immaginare che abbiamo migliorato le nostre capacità".
Gli avvertimenti sono di solito poi ammorbiditi. "In nessun caso cercheremmo di fabbricare un’atomica, poiché è contrario alla nostra religione e alla nostra cultura", ha spiegato il presidente iraniano Mohammed Khatami. "Dobbiamo rafforzare i nostri scudi difensivi contro un possibile attacco iraniano, ma non abbiamo piani per attaccare l’Iran", ha risposto il deputato laburista Ephraim Sneh, ex viceministro della Difesa. Come Sneh sta all’opposizione, però, anche Khatami è sempre più esautorato. In concreto, è venuto da Reza Aghazadeh, presidente dell’Organizzazione per l’energia atomica dell’Iran, un annuncio ufficiale che la Repubblica islamica ha iniziato la produzione di esafluoruro di uranio (UF6): il gas necessario per arricchire l’uranio, facendone la materia prima per la costruzione delle atomiche. Lo stesso giorno Israele ha subito risposto di essere in procinto di acquistare dagli Stati Uniti 500 bombe d’aereo del tipo Blu-109. Sono ordigni "bunker-buster": possono perforare uno strato di oltre 200 metri di calcestruzzo, mandando in briciole le postazioni dei missili atomici iraniani. Già il 1° settembre l’Agenzia internazionale dell’energia atomica (Aiea) aveva avvertito che, in barba alle assicurazioni date a Regno Unito, Germania e Francia, l’Iran aveva prodotto 37 tonnellate metriche di "pasta gialla", com’è chiamato l’UF6. E, d’altra parte, secondo il quotidiano israeliano Haaretz, le bombe sfasciabunker dovrebbero arrivare a novembre: non solo dopo il voto americano, ma anche dopo lo spirare dell’ultimatum dell’Aiea al governo di Teheran per chiarire la sua posizione, prima di riferire all’Onu. Il gioco delle contrapposizioni tra Israele e Iran è complicato. L’Iran, che ha ratificato il Trattato di non proliferazione (Tnp), rinunciò, dopo la rivoluzione khomeinista, ai programmi nucleari iniziati al tempo dello Scià, per riprenderli nel ’92. L’Iran ricorda dunque di non avere bombe atomiche e di non avere neanche terminato le sue due centrali nucleari civili in costruzione, mentre Israele non aderisce al Tnp, non fa sapere nulla di ufficiale sul proprio arsenale, e si vede attribuire dagli esperti tra le 100 e le 300 atomiche. Dunque, secondo gran parte dell’opinione pubblica islamica dotarsi di arsenali nucleari per le potenze musulmane sarebbe un diritto e un dovere. La Lega araba, attraverso il suo segretario generale Amr Moussa, ha ieri ribadito che la sua organizzazione si oppone ai "doppi standard" e chiede un medio oriente totalmente libero dalle armi di distruzione di massa.

La sospetta insistenza di Khatami
Israele, però, insiste sulla sua necessità di avere difese adeguate, fino a quando tutti gli Stati dell’area non avranno riconosciuto il suo diritto all’esistenza in maniera inequivocabile. Per gli israeliani, è sospetta l’insistenza di Khatami nell’affermare che le ispezioni potranno riprendere solo quando la comunità internazionale avrà riconosciuto "il diritto naturale dell’Iran ad accedere alla tecnologia nucleare civile". A che serve il nucleare civile, obiettano, a un paese con una tale quantità di greggio?
La guerra sul nucleare tra Iran e Israele non è virtuale, ma ha già provocato vittime. Il 17 marzo ’92 un’autobomba esplose davanti all’ambasciata israeliana a Buenos Aires, provocando 29 morti, e il 18 luglio ’94 un’altra bomba fece saltare in aria la sede dell’Associazione mutualistica israelita Argentina (86 morti e oltre 300 feriti). In base alle successive indagini, la pista più accreditata resta quella di una connessione tra Hezbollah e il Vevak, il servizio segreto iraniano, per una rappresaglia, dopo il rifiuto del governo argentino di vendere all’Iran tecnologia nucleare, attribuito alle pressioni della grande comunità ebraica locale.
A pagina 1 dell'inserto l'Iraq e i suoi legami con il terrorismo prima dell'abbattimento del regime di Saddam sono il tema dell'articolo di Christian Rocca: «"Prima della guerra in Iraq non c'era terrorismo". Lo si esportava»
New York. "Prima della guerra, in Iraq non c’era terrorismo". Quante volte l’avete sentita questa frase? Cento? Mille? Tutti i giorni? Probabile. Gli autori sono autorevoli e variano da Massimo D’Alema a Sergio Romano, dagli editorialisti accigliati di Repubblica al bar dello sport dell’Unità. Tutti
insieme appassionatamente a ripetere come un mantra una cosa falsa, cioè che "prima della guerra, in Iraq non c’era terrorismo". Importa che l’Iraq ospitasse noti terroristi internazionali, come Abu Nidal e Abu Abbas? Che al Zarqawi sia stato curato a Baghdad un anno prima dell’invasione? Che gli islamisti di Ansar al Islam ricevessero aiuti da Saddam Hussein? No, non importa, perché "prima della guerra, in Iraq non c’era terrorismo".
Non c’è uno che ricordi di quando Saddam, era il 1993, tentò di uccidere il primo presidente Bush in occasione della visita in Kuwait per celebrare la liberazione dall’esercito iracheno. Bill Clinton, per rispondere a quel piano anti Bush scoperto giusto in tempo, lanciò 23 missili Tomahawk su Baghdad ma, certo, Lilli Gruber stava ancora in via Teulada e quindi niente: Saddam non era un pericolo, non aveva rapporti con al Qaida e poi, diciamolo, se uccidere un fascista non era un reato, figuriamoci assassinare un presidente che si chiama Bush. In questi giorni, peraltro, è uscito un libro, ovviamente edito dal Cav., di un tal Nicholson Baker che racconta la storia di uno che vuole uccidere Bush junior. Evviva. Ma torniamo al punto: "Prima della guerra, in Iraq non c’era terrorismo". E’ così? Stephen Hayes, cronista del Weekly Standard che ha scritto "The Connection", la connessione tra Saddam Hussein e al Qaida, spiega che non è così. Lo confermano i documenti ufficiali delle due Commissioni d’inchiesta imposte dai Democratici per tentare di smascherare gli errori o le bugie di Bush. Dunque: "Prima della guerra, in Iraq non c’era terrorismo", ma secondo un’analisi della Cia del gennaio 2003, citata a pagina 314 del rapporto sull’intelligence del Senato: "L’Iraq ha una lunga storia di sostegno al terrorismo". Non c’era oppure ha una lunga storia, il terrorismo in Iraq? Le conclusioni della commissione bipartisan "Prima della guerra, in Iraq non c’era terrorismo", ma nella stessa analisi della Cia citata dal Senato (sempre a pagina 314) si legge: "L’Iraq continua a essere un rifugio sicuro, un punto di transito, un nodo operativo per gruppi, individui che guidano la violenza contro gli Stati Uniti, Israele e altri alleati". "Prima della guerra, in Iraq non c’era terrorismo", ma il rapporto bipartisan della Commissione sull’Intelligence del Senato (a pagina 315) dice: "La Cia ha fornito 78 rapporti, da fonti molteplici e redatto richieste documentate in cui il regime iracheno ha addestrato agenti per attacchi e li ha inviati per portare a termine attacchi". "Prima della guerra, in Iraq non c’era terrorismo", ma sempre lo stesso rapporto bipartisan (a pagina 316) dice: "L’Iraq ha continuato
a partecipare in attacchi terroristici per tutti gli anni Novanta". "Prima della guerra, in Iraq non c’era terrorismo", ma sempre a pagina 316 dello stesso
rapporto del Senato si legge: "Dal 1996 al 2003, [il Servizio segreto iracheno] ha concentrato le sue attività terroristiche su interessi occidentali, in modo particolare contro gli Stati Uniti e Israele". "Prima della guerra, in Iraq non c’era terrorismo", ma nel rapporto bipartisan del Senato americano (a pagina 316) si legge: "Lungo tutto il 2002 [il servizio segreto iracheno] stava diventando sempre più aggressivo nel pianificare attacchi contro gli interessi americani. La Cia ha fornito 8 rapporti per sostenere questa affermazione".
"Prima della guerra, in Iraq non c’era terrorismo" ma, a pagina 331, il rapporto bipartisan dice: "Dodici rapporti ricevuti e redatti da fonti che la Cia ha descritto avere varia attendibilità citano il coinvolgimento dell’Iraq nei tentativi di al Qaida di ottenere armi chimiche e biologiche". "Prima della guerra, in Iraq non c’era terrorismo" ma la stranota Commissione sull’11 settembre, a pagina 66 del suo rapporto finale, ha scritto che "nel marzo del
1998, dopo la fatwa di bin Laden contro gli Stati Uniti, da quanto viene riferito due membri di al Qaida sono andati in Iraq per incontrare i servizi iracheni. A luglio una delegazione irachena è andata in Afghanistan a incontrare prima i talebani e poi bin Laden". "Prima della guerra, in Iraq non c’era terrorismo", ma quando, nell’agosto 1998, Clinton bombardò i campi di addestramento di Osama in Afghanistan e la fabbrica chimica in Sudan, il sottosegretario del Dipartimento di Stato, Thomas Pickering, e altri sei funzionari, dissero che i servizi monitoravano la fabbrica di medicine sospettata di sviluppare armi chimiche per Osama "da almeno due anni" e che, tra le altre cose, quella fabbrica provava "in modo abbastanza chiaro i contatti tra Sudan e Iraq". "Prima della guerra, in Iraq non c’era terrorismo"
e, infatti, è vero: Saddam finanziava con 25 mila dollari i familiari dei kamikaze palestinesi. In Israele mica in Iraq, quindi non vale. "Prima della guerra, in Iraq non c’era terrorismo" e, infatti, nel 1998 il Dipartimento della Giustizia, quando ingenuamente Clinton pensava che il terrorismo potesse essere combattuto in un’aula di tribunale, mise sotto inchiesta bin Laden con queste parole: "Al Qaida ha raggiunto un accordo con l’Iraq per non lavorare contro quel governo, mentre su progetti particolari, che specificatamente includono lo sviluppo di armi, al Qaida lavorerà in modo cooperativo con il governo dell’Iraq". Hanno proprio ragione i D’Alema, i Romano, le Repubbliche e le Unità: "Prima della guerra, in Iraq non c’era terrorismo", c’era fuori dall’Iraq, però era coordinato da dentro, da un regime terrorista che prima della guerra c’era e ora non c’è più.
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