Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Il terrorismo vuole dividere l'occidente, chi sono i "rabbini dello scandalo" un'intervista ad Angelo Panebianco e un commento di Emanuele Ottolenghi
Testata:Il Foglio Autore: un giornalista - Emanuele Ottolenghi Titolo: «Panebianco - Vicini ai coloni ma non necessariamente oltranzisti, ecco chi sono i 14 dello scandalo»
Il Foglio dell'11-09-04, pubblica in prima pagina un'intervista al politologo ed editorialista del Corriere della Sera Angelo Panebianco, che mette in guardia dalla strategia della divisione dell'Occidente, messa in atto dal terrorismo fondamentalista. Roma. "L’11 settembre 2001 è scoppiata la quarta guerra mondiale – dice Angelo Panebianco al Foglio – condotta da gruppi integralisti islamici con un doppio obiettivo: trascinare dietro di sé tutto il mondo musulmano e colpire l’occidente, il nemico da distruggere". Spiega Panebianco che nasce qui il più profondo punto di dissenso verificatosi tra una parte dell’Europa e gli Stati Uniti, e all’interno dell’Italia: nasce sulla parola guerra. "Se c’è disaccordo tra chi nell’11 settembre riconosce l’inizio di una guerra e chi dice invece che non di questo si tratta, si adottano lenti totalmente diverse per leggere la situazione storica in cui siamo immersi, e di tutti gli avvenimenti successivi si daranno interpretazioni del tutto divergenti. Il dissenso porta poi inevitabilmente allo scontro politico e a differenze radicali sull’atteggiamento da assumere nei confronti del mondo islamico, del terrorismo, della guerra in Iraq". E’ vero che il conflitto è anche interno all’islam, ma "non c’è dubbio che si nutre di ostilità per l’occidente, e non si può dire ‘restiamone fuori, non ci riguarda’, perché la guerra è stata dichiarata alla civiltà occidentale: se vincerà, l’integralismo islamico potrà espandersi dentro il mondo musulmano". E per vincere bisogna colpire gli anelli deboli: "Il rapimento delle due ragazze pacifiste si inserisce in questa strategia: hanno eliminato dal gioco la Spagna, adesso si tratta di colpire l’Italia, indebolirla perché si sa che è divisa sulla questione irachena. Anche la solidarietà di Hezbollah è un tentativo abile dell’integralismo di giocare ancora una volta sulle lacerazioni italiane, bisogna fare attenzione a non abboccare. Sarebbe molto più difficile indebolire l’Inghilterra, che reagisce agli attacchi con un sicuro aumento della coesione nazionale". Anche per questo Panebianco giudica "incomprensibili" le divisioni italiane sul conflitto in Iraq: "Oggi non si capisce che cosa si possa fare se non appoggiare il governo provvisorio iracheno per arrivare a elezioni democratiche. Il fatto che una parte della classe politica italiana chieda il ritiro delle truppe, invece, da un lato significa accettare che il terrorismo vinca la partita, dall’altro non capire che una sconfitta in Iraq potrà avere effetti catastrofici sul futuro del conflitto tra l’integralismo islamico e l’occidente". Ancora una volta perché non si vuole accettare quel che è successo l’11 settembre. "C’è una parte della sinistra, che, pur condannando sinceramente e senza ipocrisie il terrorismo, non riesce a credere che sia scoppiata una guerra senza quartiere e pensa che con la diplomazia sia possibile contenere gli attacchi: si muove in sintonia con gli orientamenti della Germania e della Francia". La Francia credeva di essere immune da attacchi in virtù della non belligeranza, e ora si trova ad accettare solidarietà spaventose per liberare i due ostaggi. "La Francia ha sfidato gli Stati Uniti, preoccupata di presentarsi come il paese europeo capace di fronteggiare l’egemonia americana, e preoccupata di difendere la propria posizione di influenza nel medio oriente: al momento del rapimento dei giornalisti ha capitalizzato la propria posizione, e non è così sorprendente la solidarietà di Hamas, visto che la Francia ha resistito a lungo in sede di Unione europea di fronte alla richiesta americana di inserire Hamas nella lista delle organizzazioni terroristiche: questo fa pensare che abbia sempre mantenuto contatti con gli estremisti della Fratellanza musulmana. Ma il dialogo con l’islam non è certo questo, e parlare di dialogo non ha nemmeno senso: bisogna invece stimolare con chiarezza il mondo islamico a prendere una posizione dura e definitiva, non contro i rapitori dei francesi o delle due italiane pacifiste, ma contro qualunque forma di terrorismo". "Pera meritava più considerazione" Panebianco non crede che ci sia adesso in Italia "nessuna unità nazionale". "Perché i punti di divisione rimangono tutti, e forti: la reazione dei Ds al discorso di Pera sulla solidarietà tra i paesi occidentali, che avrebbe meritato almeno una discussione rispettosa, dimostra che c’è una visione totalmente diversa di quel che è accaduto e che sta accadendo, e di per sé elimina qualunque possibilità di accordo bipolare sulle questioni della sicurezza e della guerra. Resta in piedi quello che fanno, doverosamente, le forze politiche per ottenere la salvezza di due connazionali, ma nient’altro". Il fatto è che, dice Panebianco, "siamo di fronte a una guerra fondamentalista di difficile lettura, perché viene dall’esterno, ma sul piano pratico porta la stessa minaccia totalitaria del nazismo e del comunismo, anche se equipararle sarebbe grossolano: comunismo e nazismo li avevamo prodotti noi, ora invece, per la prima volta, lo scontro è lanciato da correnti esterne alla cultura occidentale. Dobbiamo studiare seriamente quel mondo, per capire come sconfiggere il nemico: è in atto una sfida di civiltà, coinvolge una parte del mondo islamico che in questo momento è all’attacco dell’occidente, chi non l’ha capito dovrebbe ripensarci". A pagina 1 dell'inserto Emanuele Ottolenghi commenta la lettera dei 14 rabbini pubblicata dal Foglio del 10-09-04 ("Le nostre vite prima di tutto!" Informazione Corretta, 10-09-04). Ecco il pezzo. Gerusalemme. Commentando la lettera aperta firmata da quattordici rabbini che il Foglio pubblicava ieri, David Jaeger, noto giurista francescano, ebreo israeliano convertito al cattolicesimo, ha dichiarato al Foglio: "Non saprei di quale religione questi rabbini sarebbero ministri. Le loro dichiarazioni, così riportate, non corrispondono a nulla della formazione religiosa ebraica impartitami nella mia giovinezza". Jaeger è ormai distante da quella formazione religiosa e da quel mondo. Ma su una cosa non ha torto. L’ebraismo non ha una fonte di autorità unica, i suoi testi normativi sono oggetto di interpretazione, e la loro lettura varia da rabbino a rabbino, a volte in maniera significativa. Pur essendoci limiti al pluralismo in materia di interpretazione religiosa, esistono svariate tradizioni in seno all’ebraismo, e soluzioni diverse se non addirittura divergenti su simili problemi. Il peso quindi di un responso rabbinico a una problematica qualsiasi, sia essa politica o alimentare, si misura nell’autorevolezza della fonte non meno che nei suoi contenuti, che possono variare. Quando si tratta poi di contese che trascendono la pratica religiosa dell’individuo e riguardano invece la collettività e le sue scelte politiche, i giudizi sono vari e svariati. In tema di territori le opinioni divergono, e l’ebraismo annovera tra i responsi rabbinici proclami favorevoli e contrari al compromesso territoriale, con infinite sfumature. L’importanza del proclama pubblicato ieri su queste pagine dipende dall’autorità che l’ha emessa. Tra i quattordici firmatari ci sono alcuni rabbini di Yesha (l’acronimo per Giudea, Samaria e Gaza), noti per la loro inclinazione ideologica e la loro tendenza a giustificare, attraverso una particolare lettura delle Scritture, il diritto assoluto di Israele a controllare i territori. Il Rav Druckman per esempio è identificato fortemente con l’ala piú radicale della militanza religiosa per la Grande Israele. Essi non rappresentano necessariamente l’intera popolazione di israeliani che vivono negli insediamenti, essendo invece espressione della sola componente religiosa messianica e militante. Le posizioni dei rabbini di Yesha, uniti in Consiglio, non sono d’altronde in linea con il pensiero di altri autorevoli rabbini nei territori come Rav Amital, uno dei due capi della Yeshiva di Alon Shvut, o Rav Riskin dell’insediamento di Efrat, entrambe parte del Blocco Etzion a sud di Gerusalemme. Né si indentifica con il Consiglio una figura storica del movimento religioso degli insediamenti, quale è Yoel Bin Nun. E’ significativo che tali autorevoli personaggi manchino tra i firmatari. Tra loro invece spiccano altre figure riconosciute nel mondo del diritto ebraico come esperti e autorità. Il peso quindi di decisioni come questa sta non tanto nei contenuti, quanto nell’autorevolezza di coloro che li hanno espressi. Figure come il Rav Cherlow e il Rav Shapira rappresentano quanto di più moderno e universalista ci sia nel mondo ortodosso askenazita israeliano; essi rappresentano la rinascita ebraica degli ultimi dieci anni nel mondo ortodosso, che offre interessanti sviluppi in direzione femminista, che combinano ambientalismo e ortodossia, che coniugano misticismo e modernità. La loro firma pesa moltissimo dunque, proprio in virtù delle loro posizioni aperte su altri temi a sfondo sociale e la loro autorevolezza significa due cose: o i contenuti di quel testo riflettono sentimenti condivisi nel mondo religioso o essi verranno recepiti dal mondo religioso in assenza di una risposta da fonti altrettanto riconosciute. Nessuno contesta naturalmente, nel mondo religioso come in quello laico, il diritto sacrosanto d’Israele a difendersi. Ma il significato dell’ingiunzione di uccidere un nemico prima che esso ci uccida si presta a molte interpretazioni: che significa "si leva a ucciderci"? Quando si leva il nemico? In quale preciso momento è dato di ricorrere alla legittima difesa, dacché il nemico si è "levato"? Legittima difesa sino a che livello di prevenzione? E’ la vita degli innocenti, quello che nell’asettico gergo delle guerre odierne si chiama danno collaterale? Domande che vanno sollevate, perché non solo i rabbini e altri uomini di altre fedi si devono interrogare di fronte alla guerra sui comportamenti da permettere e quelli da condannare, ma tutta la società deve continuare a porsi il problema della guerra e del diritto alla difesa in termini morali. I quattordici firmatari hanno espresso un parere che non è né l’unico né l’ultimo del mondo religioso israeliano in tema di guerra e pace. Il suo impatto non va sottovalutato. Ma va anche contestualizzato. Altri, meno eclatanti, sono stati espressi in questi giorni, sul dovere o meno di resistere all’evacuazione che presto Sharon ordinerà a Gaza. E anche su questo, proprio Bin-Nun si è recentemente pronunciato, affermando che solo se l’intero processo verrà visto negli insediamenti come attuato senza alcun riguardo per la democrazia ci si può aspettare una risposta violenta. Gli fa eco il Partito nazionale religioso, espressione politica degli insediamenti: per rimanere al governo con Sharon chiedono un referendum sul disimpegno. Alla fine, anche le autorità religiose e i loro proclami riconoscono una cosa (che la stessa tradizione ebraica ha da secoli affermato): la volontà della comunità, alla fine, è l’opinione che deve avere la meglio. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.