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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio Rassegna Stampa
27.08.2004 Iraq: al Sistani si è shierato con il suo silenzio. Iran: ministro della difesa ammette programma di armamento nucleare
analisi e notizie dal Medio Oriente

Testata:Il Foglio
Autore: Carlo Panella - un giornalista
Titolo: «Una stampa malata di odio per Bush non racconta davvero Najaf - Persepolis»
A pagina 2 del Foglio di oggi, 27-08-04. Carlo Panella firma un' analisi della situazine irachena dopo l'arrivo dell'ayatollah al Sistani a Najaf. Situazione non capita e non raccontata nella sua realtà dalla stampa italiana.
Ecco il pezzo:

Se il Vaticano avesse taciuto durante l’assedio israeliano dei terroristi palestinesi asserragliati nella basilica della Natività a Betlemme, se nessuna gerarchia cattolica avesse preso posizione, sarebbe stato chiaro, perfino ai giornalisti, che quel silenzio aveva un enorme peso politico. Sarebbe stato
evidente che quel tacere significava acconsentire all’operato delle truppe israeliane ed esprimere una condanna per il gesto blasfemo dei terroristi assassini che usavano lo scudo di un luogo sacro per garantirsi l’immunità. Com’è noto, così non fu. Il Vaticano e la gerarchia cattolica si fecero sentire e non contro gli assassini e blasfemi che stavano insozzando di escrementi la Basilica, ma contro la decisione del governo Sharon di assediarli. Per settimane invece, dal 5 agosto, ha taciuto, compatta, la gerarchia sciita di Najaf, a fronte del cruento assedio dei miliziani sciiti di Moqtada al Sadr che usano il Mausoleo di Ali come i loro colleghi terroristi palestinesi usarono la Basilica della Natività. Ma nessuno, men che meno i giornalisti, ha fatto mostra di comprendere che cosa quel silenzio abbia significato. I marine
americani hanno sparato per settimane in tutta Najaf, sono arrivati a 200 metri dal Mausoleo, presidiando il cimitero, l’aviazione ha distrutto case. Ma non una parola di condanna è venuta dal grande ayatollah al Sistani, dagli altri ayatollah della Marjia, dagli ayatollah iracheni delle altre città. Hanno protestato, invece, gli ayatollah iraniani, gli Hezbollah e gli ulema sunniti dei Fratelli musulmani. Ma la loro protesta non ha trovato un seguace, uno solo, tra gli sciiti iracheni. Il quadro è inequivocabile: la gerarchia sciita è stata solidale con l’azione delle truppe americane e del governo iracheno,
non vedendo l’ora di riavere il controllo di Najaf e dei luoghi santi e accettando di trattare con Moqtada soltanto dopo che le sue milizie sono state pesantemente indebolite dalle azioni militari americane e irachene. Per questo, prima ha taciuto, poi ha organizzato una marcia su Najaf contro il mullah ribelle e i suoi quaranta ladroni e non, come la stampa afflitta dalla sindrome
Michael Moore ha lasciato intendere, contro gli americani. Si tratta, peraltro, di una gerarchia sciita che dall’aprile 2003 non ha mai mancato di criticare il governatore americano Paul Bremer, di prendere le distanze dalla Costituzione provvisoria, di emettere duri giudizi su singole scelte del governo iracheno. Il silenzio e poi la manifestazione derivano da una scelta di campo. Il silenzio ha urlato, chiarito, spiegato. Ma nessuno ne ha parlato, nessun giornale ne ha preso atto; nessun analista ci ragiona sopra. Lo stesso è accaduto per la vicenda delle chiavi del Mausoleo d’Ali. Repubblica ha
pubblicato un’informatissima cronaca; ha spiegato con date, nomi, particolari, buona scrittura, che Moqtada mandò suoi scherani a sequestrarle con minacce di morte al custode già ad aprile (come ha confermato il portavoce di Sistani). Fornisce tutti i dati da cui si comprende che sin dall’inizio l’insurrezione
di al Sadr puntava anche al malloppo. Delinea le caratteristiche di una banda
di insorti che invece di farsi dare tutte le chiavi del Mausoleo tranne quelle del Tesoro, come avrebbe fatto un movimento politico serio, vuole solo quelle del Tesoro. Ma poi Repubblica, come il Corriere, come gli altri grandi quotidiani, non ragiona sopra questo fatto chiaro, drammatico, che consegna Moqtada alla folta galleria dei banditi di popolo che insozzano ovunque nel mondo le storie delle rivolte popolari ambigue, intrecciate con malavitosi e sacrileghi, tanto forti e feroci quanto sterili politicamente.
Ogni giorno che passa i quotidiani di mezzo mondo spiegano che gli uomini di Moqtada torturano i poveracci, cavano occhi ai poliziotti iracheni catturati, mozzano le teste, rapiscono bimbi e mogli di esponenti politici sciiti per obbligarli a schierarsi con loro, sequestrano con minaccia di decapitazione
dei santi uomini, degli ayatollah, tra i più vecchi e autorevoli. Ma queste notizie nascono di cronaca e restano di cronaca. Impera la sindrome Michael Moore. Perché ragionare spassionatamente, liberamente, su tutti questi elementi avrebbe solo un risultato: rovesciare tutti i luoghi comuni imperanti sull’Iraq. Scoprire che le truppe americane agiscono politicamente – più che
militarmente – bene, che la stessa gerarchia sciita le appoggia con il suo diplomatico silenzio. Vedere, sotto il sasso alzato dall’occupazione militare dell’Iraq, muoversi i vermi di una società che sotto il regime di Saddam
ormai era solo un agglomerato di bande illegali che taglieggiavano il territorio, tenute assieme dalla paura di un apparato familiare di terrore. Che sono oggi quelle bande scatenate – assieme ai più feroci terroristi islamici d’importazione, che ieri hanno fatto strage a Kufa, e alle trame dei pasdaran
iraniani – ad alzare la bandiera della "resistenza"; che Moqtada Sadr non è
"l’alternativa sciita", ma un "omo de panza" dei quartieri più malfamati di Baghdad, che si è posto a capo di una rivolta – eccitata da Teheran – in cui il fanatismo religioso jihadista ben si sposa con il furto sacrilego. Ma tutto questo non si può dire, non si può pensare, perché lo impedisce la sindrome Moore, che fa dell’invettiva anti Bush il dogma inviolabile, che fa della "resistenza" irachena un monumento intoccabile, che fa della difesa della propria pigrizia culturale un a priori assoluto.
A pagina 2 dell'inserto una rassegna di notizie dall'Iran, intitolata Persepolis. Malcontento giovanile, repressione, affari e una conferma ufficiale, sebbene ambigua, del programma di armamento nucleare. Ecco il pezzo:
"Due terzi dei giovani iraniani sono insoddisfatti della Repubblica Islamica". A ribadirlo non è un think tank neocon né un movimento di opposizione, ma un rapporto che l’agenzia studentesca Isna ha presentato al presidente Khatami. Su 67 milioni di iraniani, il 70 per cento ha meno di trent’anni, percentuale
destinata a salire del 3,7 per cento entro il 2006. E’ una maggioranza delusa dalle promesse mancate dei riformisti, insofferente alle restrizioni sociali imposte dall’ortodossia rivoluzionaria, assetata di libertà e angosciata dalla mancanza di opportunità. Tra i principali motivi di disaffezione spiccano
i problemi legati alla casa, al lavoro e all’accesso universitario. Solo l’8 per cento dei richiedenti ha ottenuto lo scorso announ posto all’università o nei politecnici, con una preponderanza di donne, il 51 per cento. Il rapporto sottolinea che, se la maggioranza resta disoccupata, anche chi ha trovato
lavoro continua a esprimere malcontento, frustrazione e forte incertezza. Burocrazia, corruzione,nepotismo concentrano gli effetti della crescita economica nelle mani dei soliti noti e la maggioranza morde il freno.
Anche per fermare la diffusione e l’organizzazione del malcontento, dopo l’offensiva contro i giornali, la magistratura si volge verso gli internauti. Reporter Senza Frontiere (RSF) sottolinea che "dalle elezioni di febbraio le autorità hanno rafforzato il controllo su internet, perché si rendono conto di
quanto sia importante per l’opposizione". Gli alacri censori della Repubblica islamica hanno già attivato una lista nera e incaricato i tecnici di approntare nuovi mezzi per assicurarsi una maggiore rapidità d’azione. Il pezzo forte sarà la legge richiesta dalla magistratura al Majlis (Parlamento) per punire "siti e comunicazioni pericolose". Naturalmente nel provvedimento si sottolinea la conformità agli standard internazionali, ma "le leggi internazionali non saranno applicate in caso di conflitto con la sharia o la legislazione iraniana o di contrasto con gli interessi del paese". Pene previste: tre anni per la disseminazione "di informazioni che minacciano la sicurezza nazionale e internazionale", 15 anni se le stesse informazioni risultano poi veicolate "a Stati od organizzazioni straniere". La polizia potrà ispezionare le proprietà degli internauti senza previa autorizzazione del giudice. Conferma l’interesse
della magistratura verso la rete, l’arresto del cyber-dissidente Mojtaba Lofti, teologo ed ex giornalista del Khordad (giornale riformista chiuso nel 2000). Lofti, un insider rispetto al sistema, religioso e lontano dalle più radicali rivendicazioni contro il sistema, è stato processato a luglio con l’accusa di
spionaggio e pubblicazione di informazioni false. Il crimine, che gli è valso una condanna a tre anni e dieci mesi, è un articolo intitolato: "Rispetto dei diritti umani nei casi che coinvolgono il clero" apparso sul sito www.naqshineh.com. Il ministro della Difesa, Ali Shamkhani, ha rivelato, all’inizio di agosto, che l’Iran possiede un "deterrente nucleare di difesa". E’
la prima volta che un un esponente di rilievo della nomenklatura ammette l’esistenza di un programma di difesa nucleare. Nel rispondere ad alcune domande dell’agenzia iraniana Isna, a precisa domanda sulla reale natura del programma atomico il ministro è stato sibillino, ma ha concesso un sì e un
no. "No, perché le nostre attività nucleari hanno obiettivi pacifici, come ha confermatol’Aiea in tutte le sue indagini. Ma sì perché allo stesso tempo lavoriamo verso un’attività nucleare che abbia uno scopo difensivo, il nostro unico intervento nell’area nucleare, va inteso come protezione nucleare".
A Teheran ci sono grandi speranze che la nuova Borsa del petrolio, operativa dal 2005, riesca a incrinare il primato del London International Petroleum Exchange. "Sarà uno sviluppo che avrà un impatto decisivo non solo per noi, ma per l’intera regione", assicura Mohammad Javad Aseimpour, consigliere
del ministro per l’Energia e architetto del progetto. I maggiori produttori di petrolio – assicura Aseimpour – sono determinati a conquistarsi un maggior controllo sul trading. Per farlo, contano di agganciare le contrattazioni a meccanismi che spostino il baricentro degli interessi in gioco più vicino
ai produttori. Gli analisti non sono concordi sulle possibilità di successo dell’iniziativa e c’è chi punta il dito al fallimento dell’esperimento di Dubai. Altri, come Chris Cook del Partnerships Consultings LLP di Londra, rilevano che "Teheran è riuscita a creare forti attese riguardo al progetto e, dall’11 settembre, i sauditi, inizialmente riluttanti, hanno dimostrato un interesse crescente".
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