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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Repubblica - Il Messaggero - La Stampa - Il Manifesto Rassegna Stampa
19.08.2004 Non criticare Arafat nenche quando lui stesso si "autocritica"
rassegna di quotidiani

Testata:La Repubblica - Il Messaggero - La Stampa - Il Manifesto
Autore: Marco Ansaldo - Eric Salerno - un giornalista - Carlo Maria Miele
Titolo: «Notizie da Israele e Anp»
Le dichiarazioni di Arafat circa gli "errori" commessi dall'Autorita nazionale palestinese e le votazioni nel Likud sull'ingresso dei laburisti sono al centro delle cronache mediorientali nei giornali di oggi, 19-08-04.
Marco Ansaldo su LA REPUBBLICA, a pagna 16 firma l'articolo "Israele, Sharon sfida i ribelli del Likud. Arafat fa autocritica: "Errori inaccettabili", che riporta piuttosto acriticamente le dichiarazioni di Arafat. Non segnala le reazioni scettiche ad esse, venute sia da deputati palestinesi sia dagli Stati Uniti, nè i precedenti che rendono poco attendibile Arafat, nè, ancora, la grave crisi politica interna all'Anp che lo ha costretto al suo "mea culpa". Si limita a definire "vaghe" le promesse del raìs circa riforme. Promesse già fatte, e disattese, alla comunità internazionale. (a cura della redazione di Informazione Corretta)
Ecco il pezzo:

RAMALLAH - Sharon e Arafat si sono misurati ieri, a poche ore l´uno dall´altro, in un inedito confronto con i loro delegati. Ma i discorsi dei leader israeliano e palestinese invece di riaffermare la loro leadership hanno piuttosto evidenziato le difficoltà interne i cui entrambi si trovano.
La campana ha suonato soprattutto per Ariel Sharon. In un drammatico intervento rivolto al Comitato centrale del Likud, il suo partito, il premier ha fatto appello «all´unità»: «Altrimenti - ha avvertito tra molti fischi - rischiamo la scissione». I circa 3.000 delegati sono chiamati in nottata a votare a scrutinio segreto sulla proposta di dare o no al primo ministro il mandato di negoziare una nuova coalizione facendo entrare i laburisti di Shimon Peres. L´intenzione del leader conservatore è infatti di rafforzare le posizioni moderate del governo per far digerire all´esecutivo il suo piano di ritiro dalla Striscia di Gaza. Progetto però contrastato dagli esponenti più duri, che vedrebbero in questo modo diminuire il loro potere, se non le poltrone ministeriali su cui siedono. In serata i sondaggi interni sul voto imminente davano Sharon come nettamente sconfitto. Ma al momento della conta finale, un colpo di scena: il computer era dato improvvisamente per rotto. La votazione, con l´arrivo trafelato di nuovi delegati pronti ad assicurare il sostegno al premier, riprendeva confusamente nella notte.
Il risultato della consultazione interna non è in ogni caso vincolante. Sharon infatti, parlando l´altro ieri con il presidente egiziano Hosni Mubarak, ha già detto di voler proseguire comunque per la sua strada. Se tuttavia non dovesse tenere conto delle indicazioni provenienti dalla fronda, composta da grossi calibri come i ministri Silvan Shalom, Natan Sharanskij e Uzi Landau, rischia nel partito una vera e propria rivolta. Una impasse risolvibile solo con elezioni anticipate.
Ma se il panorama israeliano è pieno di incognite, ancora più caotica si presenta la scena politica palestinese. Parlando a Ramallah davanti ai deputati palestinesi, con a fianco il primo ministro Abu Ala, Yasser Arafat ha accusato Israele di tentare di sabotare il suo governo, e di fare a pezzi il processo di pace con la continua espansione degli insediamenti ebraici nei Territori e la costruzione del Muro in Cisgiordania. Il presidente palestinese si è tuttavia lanciato in un raro e inusuale mea culpa, parlando di «errori inaccettabili compiuti dalle nostre istituzioni» e denunciando quanti «hanno approfittato delle loro posizioni e violato la fiducia riposta».
Gli argomenti attesi nel discorso di Arafat erano soprattutto corruzione e riforme, questioni che l´anziano leader ha comunque toccato. Nessuno, ha tuonato, «è stato immune da errori, a partire da me stesso. Anche i profeti sbagliarono. Dobbiamo imparare la lezione dagli sbagli commessi, e correggerli. La corruzione? Non conosco nessun paese che non l´abbia». Più vago l´impegno annunciato sulle riforme. «Le continueremo», ha assicurato Arafat uscito, alla fine del lungo discorso tenuto nel ridotto della Muqata dov´è rinchiuso da due anni, tra applausi e perplessità.
A pagina 5 del MESSAGGERO Eric Salerno firma l'articolo "Israele, Sharon sfida la destra del Likud", nel quale cade ogni dubbio sul raìs. Arafat, "in piena forma", "caustico e ironico" ha "raccontato la storia degli ultimi quindici anni", "ha spiegato la scelta strategica di cercare la pace con Israele", "ha insistito sulle colpe del governo Sharon". Arafat "racconta", "spiega", "insiste": come un maestro di scuola che deve insegnare semplici verità ai suoi allievi. Salerno, scolaro solerte, apprende e riporta fedelmente. Le riforme promesse sono "vaghe", ma soltanto "nell'attesa di annunciare come intende affrontare il futuro". "In primo piano c'è la questione della riorganizzazione dei servizi di sicurezza e il passaggio del loro controllo, finora sotto la gestione dello stesso Arafat, nelle mani del governo (...) come passo indispensabile per mettere ordine nella società e ritornare al tavolo negoziale con Israele". La necessità della lotta al terrorismo non viene neppure menzionata. "Mettere ordine nella società" sarebbe l'unico motivo per cui occorrerebbe riformare i servizi di sicurezza.
LA STAMPA a pagina 11 pubblica un'intervista di LE MONDE al deputato palestinese Abdel Javah Salah, "La corruzione sta tutta nei vertici dell'autorità". Fornisce informazioni interessanti (l'episodio del direttore di giornale "trasformato" tramite la corruzione e la minaccia in sostenitore di Arafat, la mancata utilizzazione per il processo di democratizzazione dei miliardi forniti dall'US Aid all'Anp) e il giudizio finale del deputato "Arafat non farà alcuna riforma seria" appare sensato.
Salah tiene però ad attribuire ad Israele parte della responsabilità nel fallimento delle riforme. L'occupazione le rende impossibili (come? I palestinesi potrebbero organizzarsi al loro interno democraticamente anche sotto occupazione; quando? Non c'è stata democrazia e trasparenza neanche da Oslo alla seconda Intifada). La corruzione palestinese dipende anche da quella del precedente regime di occupazione israeliano (della quale non vengono indicate prove). L'intervistatore non contesta a Salah le sue affermazioni.
Ecco il pezzo:

Deputato indipendente al Consiglio legislativo palestinese, Abdel Jawad Salah è un nemico accanito e combattivo delle derive dell’Autorità nazionale palestinese. Nel giugno 1998, ventiquattr’ore dopo la formazione di un nuovo governo, rinunciò al Ministero dell’Agricoltura per protesta contro il rinnovo della carica a parecchi ministri giudicati corrotti. Nel novembre 1999 firmò, con una ventina di personalità dei Territori, un documento che denunciava «la tirannia» del regime palestinese e accusava Yasser Arafat di aver «aperto la porta agli sfruttatori». Questo gesto gli costò un duro pestaggio da parte della polizia».
Deputato Salah, lei pensa che l’Autorità palestinese sia rosa dal tarlo della corruzione?
«La popolazione tende a pensarlo, perché la moltiplicazione delle voci crea un’impressione di epidemia. Ma le cose non stanno così. La corruzione è concentrata nel vertice dell’Anp. Per ora non è arrivata agli ingranaggi del regime. Il pericolo è che, constatando la corruzione dei suoi dirigenti, la popolazione sia tentata, lentamente, di imitarli».
Come spiega il fallimento della direzione palestinese a questo proposito?
«C’è una lunga serie di ragioni, che vanno dalla giovane età del regime alla difficoltà di passare da un movimento rivoluzionario alla costruzione di uno Stato in così poco tempo e con tutti i limiti imposti dall’occupazione».
La corruzione è un tema altamente politico, in questi ultimi tempi....
«Il fatto che Mohamed Dahlan - l’ex capo della Sicurezza nazionale nel governo palestinese - sia a capo della lotta anticorruzione, mentre lui stesso è notoriamente un grande corrotto, fa molto pensare. Non è comunque il solo a manipolare questo tema a fini politici. Gli Usa e Israele utilizzano in continuazione questa accusa contro Arafat per delegittimarlo, isolarlo e alla fine costringerlo ad accettare dei compromessi che lui non ha nessuna intenzione di accettare.
Arafat non procede nello stesso modo con i suoi collaboratori?
«Ovviamente. Perché, ad esempio, si oppone alla messa a punto di istituzioni sociali solide? Perché vuole che le persone vengano a sollecitarlo direttamente. Vuole poterle comprare. Vuole essere circondato da corrotti, che protegge contro il mugugno popolare, in modo da poter disporre di rincalzi obbedienti. Mi ricordo di averlo sorpreso un giorno nel suo ufficio che insultava il direttore di un giornale, accusandolo di aver stornato denaro dell’Olp. L’uomo scoppiò in singhiozzi e a quel punto Arafat si alzò e andò a consolarlo. Da allora quell’uomo, che si vuole di sinistra, è un "arafista" fedele».
Come si può cambiare un tale sistema?
«Occorrerebbero forti pressioni da parte degli Stati Uniti. Ma sono impossibili, perché Arafat legherebbe qualunque cambiamento di comportamento al suo ritorno sulla scena internazionale, il che per Washington è inaccettabile. Occorrerebbe anche un vasto movimento popolare. In definitiva, credo proprio che Arafat non farà alcuna riforma seria».
IL MANIFESTO non fa che un brevissimo cenno all'"autocritica " di Arafat, relegandola al sottotitolo delll'articolo di Carlo Maria Miele a pagina 9, intitolato "Prigionieri palestinesi cresce la protesta". Si tratta del resto di un giornale che ha omesso sistematicamente di segnalare gli "errori" che determinano l'attuale crisi dell'Anp. Anche Miele, come il suo predecessore Michelangelo Cocco definisce "srumenti di tortura psicologica" i barbecue e il pane appena sfornato.
Scrive poi di un'operazione di Tsahal nel corso della quale un missile sarebbe stato lanciato su di una casa palestinese. Non specificando nè dove nè quando l'operazione avrebbe avuto luogo, né perchè.
Confrontando le imprecise informazioni di Miele con quelle fornite dagli altri media sembrerebbe che il giornalista si sia riferito a un' operazione svoltasi nella notte tra il 18 e il 19 nei dintorni di Gaza, avente per obiettivo due edifici sospettati di servire alla produzione di armi (vedi News di israele.net).
La distorsione più grave del pezzo si trova però nella parte dedicata all'indagine della magistratura militare israeliana su seicento casi sospetti di possibile abuso sui palestinesi da parte di soldati di Tsahal. "Per una volta" scrive Miele "a denunciare i metodi dell'Idf sono state le stesse autorità israeliane". Gli abusi di cui si tratta, evidentemente, non possono essere i "metodi dell'Idf", che li reprime.
Ecco il pezzo:

Nonostante gli strumenti di tortura psicologica adottati dal governo di Tel Aviv, la protesta dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane continua a crescere. Trecento detenuti della prigione di massima sicurezza di Ashkelon e duecento di Beit Shean si sono uniti negli ultimi giorni allo sciopero della fame iniziato domenica. Adesso sono almeno 2260, su un totale di 3800, i prigionieri palestinesi che rifiutano il pasto giornaliero, per denunciare le condizioni di vita insostenibili a cui sono sottoposti. Tra le richieste ci sono una migliore situazione sanitaria e il diritto di ricevere visite dall'esterno. Alla protesta ha aderito anche una parte di quei quattromila palestinesi detenuti arbitrariamente nei campi sorvegliati dalle forze armate israeliane, ma l'esercito non ha voluto fornire alcun dato. A nulla è servito dunque il pugno di ferro adottato dal governo Sharon. Il ministro della sicurezza interna Tzahi Hanegbi aveva dichiarato che i detenuti avrebbero potuto «protestare fino alla morte», autorizzando delle forme di pressione psicologica simili a quelle adottate negli anni settanta nelle carceri britanniche sui prigionieri irlandesi: sfornare pane caldo e arrostire carne all'esterno delle celle per costringere i detenuti alla resa. Gli scioperanti hanno ottenuto il sostegno di tutte le organizzazioni palestinesi, dal Fronte popolare per la liberazione della Palestina ad Hamas. Ieri è intervenuto anche il presidente dell'Autorità nazionale palestinese Yasser Arafat che ha indetto un giorno di protesta in solidarietà ai prigionieri e ha chiesto l'intervento dalla comunità internazionale. Sempre ieri in Palestina c'è stata la prima trasmissione di Global Radio da Ramallah: gli attivisti palestinesi di Health development information policy, un'organizzazione nata per monitorare le condizioni sanitarie nei territori occupati, hanno aggiornato la popolazione, prima in arabo e poi in inglese, con i comunicati, gli interventi e le notizie sullo sciopero della fame.

Lontano dalle prigioni, la prospettiva di un ritiro di Israele da Gaza, sostenuto anche dagli Stati uniti, sta riaccendendo lo scontro politico, sia nello stato ebraico che nei territori occupati. L'opposizione interna al Likud (il partito del premier israeliano) alla creazione di un governo allargato ai laburisti, potrebbe costringere Sharon a elezioni anticipate. Il voto decisivo sul futuro della coalizione era atteso per la giornata di ieri. Sull'altro fronte Arafat, dopo le contestazioni delle ultime settimane ha riconosciuto di aver commesso «alcuni errori» e ha promesso delle riforme.

Le difficoltà del governo di Tel Aviv non rallentano però le operazioni dell'Idf, le forze di difesa israeliane. Nell'ultima giornata di scontri, i soldati israeliani hanno ucciso cinque palestinesi. L'obiettivo ufficiale era un militante di Hamas, scampato all'esecuzione. In un'altra operazione, un elicottero ha lanciato un missile su un'abitazione palestinese. Ancora è sconosciuto il numero delle vittime. Per una volta a denunciare i metodi dell'Idf sono state le stesse autorità israeliane. Ieri la polizia militare dello stato ebraico ha annunciato di star indagando seicento casi sospetti di abuso sui palestinesi da parte dei propri soldati, tutti realizzati a partire dall'inizio della seconda intifada nel 2000. Nell'indagine che sta conducendo il giudice Menachem Finkelstein si parla, tra l'altro, di 88 casi legati a sparatorie in cui sono stati uccisi palestinesi, 217 a violenze e 181 a presunti saccheggi. Sarebbero già 56 i soldati condannati, per violenze e furto. Alcuni di loro dovranno scontare pene detentive.
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