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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Informazione Corretta Rassegna Stampa
09.08.2004 La pietà a senso unico di Famiglia Cristiana
ignora le vittime israeliane del terrorismo palestinese

Testata:Informazione Corretta
Autore: Giorgia Greco
Titolo: «La pietà a senso unico di Famiglia cristiana»
A pagina 36 di Famiglia Cristiana dell’8 agosto è pubblicato un articolo di Giulia Cerqueti intitolato "La croce oltre il muro".
La barriera difensiva che Israele sta costruendo per proteggere i suoi cittadini dagli attentati dei terroristi è ancora una volta sotto accusa.

Per ora il "muro" non è ancora stato costruito nella zona dove si trova la parrocchia di San Giacomo dei Francescani ma per Padre Hejazin è "una minaccia reale".




Anche se il muro non è ancora stato innalzato, la separazione è una realtà: nella spartizione, una parte della parrocchia è stata divisa da tutta la comunità dei parrocchiani: la chiesa è rimasta nel settore israeliano, i parrocchiani nella parte sotto controllo palestinese.

Per raggiungere l’ultimo dei parrocchiani, il più lontano nella zona palestinese, deve superare ben due check-point. Ogni volta una trafila lunghissima, estenuante di attesa e controlli, e senza neppure la certezza che si riuscirà a passare.

Quando c’è un attentato i check-point vengono chiusi e nessuno può attraversare la frontiera, spiega padre Feras.


Noi invece non ci spieghiamo perché, nonostante tutta la pietà cristiana nei confronti dei suoi parrocchiani, non rivolga un pensiero alle vittime di quell’odio feroce che ha sterminato giovani, donne e bambini e che ha fatto sì che le frontiere venissero chiuse.

Non dunque un "capriccio" o una "cattiveria" dei soldati israeliani ma l’ennesimo tentativo di difendersi.


Per percorrere un tragitto per il quale prima occorrevano quindici-venti minuti, ora ci vogliono anche due-tre ore. Ma ormai è una cosa normale, ci siamo abituati dice il religioso, ogni volta devo partire con diverse ore di anticipo, perché non si sa mai quanto tempo ci vorrà per superare i controlli.

E racconta: "Tempo fa dovevo andare ad amministrare l’unzione degli infermi a una parrocchiana in punto di morte, nella parte palestinese. Al check-point c’era un gran traffico di persone. Non ce l’ho fatta, la donna è morta prima che io arrivassi da lei".

Non si può evitare di provare dolore e sconcerto dinanzi ad un simile episodio ma, immediatamente dopo, non si può evitare di chiedersi:

Perché ci sono i check-point?

Perché quei poveri soldati di 20 anni con le madri in ansia che li aspettano a casa devono rischiare la vita (e molti purtroppo sono morti per essersi fidati di donne terroriste palestinesi che simulavano un malore e poi si sono fatte scoppiare), anziché essere con le loro famiglie?

Perché il terrorismo non conosce tregua, non si ferma davanti a donne e bambini e se non ci fosse il muro, se non ci fossero i check-point un numero ancora maggiore di israeliani sarebbero morti.



Alcuni giorni fa ho incontrato a Firenze una persona straordinaria, Angelica Livnè Calò, un’insegnante di teatro che lavora insieme al marito nel kibbutz Sasa nel nord di Israele e che ormai da tre anni durante il periodo estivo accompagna in Italia un gruppo di ragazzini israeliani colpiti dal terrorismo per offrire loro, con l’aiuto delle Comunità ebraiche italiane, una vacanza e per aiutarli, se mai sarà possibile, a dimenticare quello che hanno visto e vissuto sulla loro pelle.



C’è chi ha perso la madre al mercato, chi il fratello nei combattimenti di Jenin, chi il padre su un autobus, chi invece è scampato miracolosamente a più di un attentato.

In tutti loro alberga una tristezza, una sofferenza che non potrà mai essere cancellata, i loro occhi diventano lucidi facilmente e anche quando ridono e scherzano si avverte la consapevolezza di una tragedia che li ha colpiti e segnati per tutta la vita.

Detto questo, vorrei chiedere a Padre Feras: quanti familiari di quei poveri ragazzi si sarebbe salvati se la barriera difensiva fosse stata già costruita, quante vite non sarebbero state distrutte se i controlli fossero stati ancor più severi
Non si può evitare di provare dolore e sconcerto dinanzi ad un simile episodio ma, immediatamente dopo, non si può evitare di chiedersi:
Perché ci sono i check-point?
Perché quei poveri soldati di 20 anni con le madri in ansia che li aspettano a casa devono rischiare la vita (e molti purtroppo sono morti per essersi fidati di donne terroriste palestinesi che simulavano un malore e poi si sono fatte scoppiare), anziché essere con le loro famiglie?
Perché il terrorismo non conosce tregua, non si ferma davanti a donne e bambini e se non ci fosse il muro, se non ci fossero i check-point un numero ancora maggiore di israeliani sarebbero morti.
Alcuni giorni fa ho incontrato a Firenze una persona straordinaria, Angelica Livnè Calò, un’insegnante di teatro che lavora insieme al marito nel kibbutz Sasa nel nord di Israele e che ormai da tre anni durante il periodo estivo accompagna in Italia un gruppo di ragazzini israeliani colpiti dal terrorismo per offrire loro, con l’aiuto delle Comunità ebraiche italiane, una vacanza e per aiutarli, se mai sarà possibile, a dimenticare quello che hanno visto e vissuto sulla loro pelle.
C’è chi ha perso la madre al mercato, chi il fratello nei combattimenti di Jenin, chi il padre su un autobus, chi invece è scampato miracolosamente a più di un attentato.
In tutti loro alberga una tristezza, una sofferenza che non potrà mai essere cancellata, i loro occhi diventano lucidi facilmente e anche quando ridono e scherzano si avverte la consapevolezza di una tragedia che li ha colpiti e segnati per tutta la vita.
Detto questo, vorrei chiedere a Padre Feras: quanti familiari di quei poveri ragazzi si sarebbe salvati se la barriera difensiva fosse stata già costruita, quante vite non sarebbero state distrutte se i controlli fossero stati ancor più severi.

Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione di Famiglia Cristiana. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.


direzionefc@stpauls.it

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