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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - Corriere della Sera - Il Messaggero - L'Unità Rassegna Stampa
28.07.2004 L'accordo tra Arafat e Abu Ala lascia intatto il potere del rais
ecco come lo raccontano quattro quotidiani

Testata:Il Foglio - Corriere della Sera - Il Messaggero - L'Unità
Autore: un giornalista - Antonio Ferrari - Eric Salerno - Umberto De Giovannangeli
Titolo: «Accordo tra Arafat e Abu Ala»
Quasi tutti i quotidiani oggi parlano delle rientrate dimissioni di Abu Ala e della sua presunta riappacificazione con Arafat. La lotta all'interno dell'Anp sembrerebbe essere rientrata dopo una settimana di rapimenti, gambizzazioni e agguati. Sembrerebbe, poichè di fatto Arafat non ha perso la sua leadership nè tantomeno si è spinto in maniera decisa verso quelle riforme che gli vengono chieste a gran voce da più parti e ormai anche da suoi sostenitori interni e internazionali.
IL FOGLIO di oggi compie una lucida e coerente analisi a proposito, mentre l'editoriale di Antonio Ferrari sul CORRIERE DELLA SERA non convince del tutto. Se da una parte Ferrari constata giustamente che la messa in scena di ieri non porterà a cambiamenti sostanziali a meno che non sia Arafat a volerlo, dall'altra l'auspicio che lo stesso Arafat assieme a Abu Ala e tutta l'Anp combatta la corruzione ed il terrorismo appare francamente irrealistico e contrastante con l'esperienza. La quale insegna che Arafat fa uso della corruzione per rinsaldare il suo potere e che, lungi dal combatterlo, promuove attivamente il terrorismo.
Sul MESSAGGERO Eric Salerno, nell'articolo a pagina 8 intitoato "Abu Ala resta premier, pace fatta con Arafat" saluta con grande entusiasmo la riappacificazione tra i due grandi vecchi del popolo palestinese; finalmente, per il giornalista del Messaggero, le cose si rimetteranno a posto e Arafat concederà le tanto sospirate riforme. Salerno non smentisce le sue scelte di parte.
Su L'UNITA', a pagina 10, l'articolo di Umberto de Giovannangeli "Gaza, accordo tra Arafat e Abu Ala", compie una corretta analisi della situazione e fornisce un esempio della corruzione imperante all'interno dell'Anp. La vicenda, riferita da un sito palestinese vicino ad Hamas, riguarda una partita di cemento che l'Anp avrebbe acquistato ad un prezzo agevolato dall'Egitto per scopi umanitari ( presumibilmente la costruzione di nuove case ) e che avrebbe poi rivenduto ad un prezzo 6 volte superiore a Israele; del ricavato di questa vendita nessuno sembra aver saputo più niente. Che a dare questa notizia in Italia sia Udg, insegnando anche qualcosa al collega Salerno che invece continua ancora a suonare la tromba al rais, dimostra quanto grave sia in realtà la situazione.

Ecco il pezzo del FOGLIO, a pagina 3: "L'Araba fenice Arafat è sempre più isolata ma è fuori dalla crisi"

Milano. La crisi di governo palestinese è rientrata dopo l’incontro tra Yasser Arafat e Abu Ala. Il premier, dopo un breve incontro con il rais, ha ritirato le sue dimissioni, che rappresentavano probabilmente più un tentativo di strappare maggior potere al presidente palestinese che non un’intenzione genuina di lasciare il ruolo di primo ministro. Arafat ha fatto qualche minore concessione, ma è ancora una volta lui a uscirne rafforzato. Con il colloquio sembra dunque chiusa per il momento la crisi palestinese. Uno dei maggiori critici di Arafat, Nabil Amr, ex ministro dell’Informazione di Abu Mazen, resta in ospedale dopo essere sopravvissuto a un attentato pochi giorni fa. Muhammad Dahlan, ex capo dei servizi di sicurezza, che tanti vedevano come possibile sfidante del potere del rais a Gaza e uomo forte in grado di gestire il territorio dopo il disimpegno israeliano, si è saggiamente defilato all’inizio della crisi: la sorte di Amr è un monito per lui e per chiunque osi sfidare il monopolio di Arafat. Nonostante il caos dei giorni scorsi e l’erosione d’immagine del presidente palestinese – criticato dalla stampa araba e ormai
mal sopportato anche in Europa – il rais rimane al suo posto. La sua strategia è
quella di sempre: emergere dal caos come l’unico punto di riferimento solido, come il paciere tra i contendenti, come la pedina indispensabile nel contesto palestinese o sullo scacchiere mediorientale. Così facendo si è sempre salvato, anche quando tutti lo davano per spacciato. Chi lo contrasta lo fa a suo rischio. Il caos recente, come in passato, è attribuito all’interferenza di "elementi esterni", cioè Israele e Stati Uniti, con la conseguenza che chi attacca apertamente Arafat rischia di essere bollato di collaborazionismo. Salvo eccezioni, come Amr e la deputata palestinese Hanan Ashrawi, la maggior
parte delle critiche espresse in campo palestinese sono dirette non ad Arafat ma a chi lo circonda e all’Amministrazione che da lui dipende, e in alcuni casi al tentativo di rimettere ordine in una situazione dove individui e gruppi si sono ritagliati sfere d’influenza a cui non rinunceranno facilmente. La crisi palestinese infatti ha toccato soltanto Fatah, non Hamas, e riguarda gli equilibri di potere al suo interno. Resta per i palestinesi la questione della
strategia da seguire. Nello scontro con Israele, Arafat ha finora saputo soltanto vincere la battaglia retorica e di propaganda: né l’una né l’altra bastano a costruire uno Stato. Alla tatttica di lotta armata è largamente imputabile lo stato di caos in cui versano i territori. Il "divide et impera" utilizzato da Arafat ha non soltanto lacerato il fronte palestinese e creato
le premesse per ben peggior anarchia – e forse guerra civile – qualora il rais uscisse di scena, ma ha anche rovinato i rapporti diplomatici tra l’Anp e i suoi maggiori alleati e garanti negli anni di Oslo (non soltanto Israele, ma anche gli Stati Uniti, l’Europa, l’Egitto e la Giordania). Arafat sa di essere isolato, ma continua ad aspettare, convinto che prima o poi tornerà il suo momento. Con le elezioni americane alle porte e con il governo Sharon traballante crede di poterselo permettere, orchestrando un caos interno per rimanere il perno indispensabile della scena politica palestinese. Intanto aspetta novembre, sicuro che George W. Bush perderà e che dopo di lui anche Ariel Sharon sarà costretto ad andarsene. Se tali previsioni si avverassero, Arafat crede che l’orizzonte politico internazionale volgerà a suo favore, e il suo ruolo ancora centrale all’interno della compagine palestinese gli permetterà
di districarsi dalla situazione attuale. Nonostante tutto rimane ancora il leader indiscusso, e anche se la sua attuale strategia sembra votata alla sconfitta – anche se vincesse John Kerry la politica americana nei suoi confronti non cambierà di molto e Sharon è lontano dall’uscire di scena – sembra prematuro decretarne la fine. Due anni dopo la dichiarazione israeliana che definiva il presidente Arafat come "irrilevante", il rais rimane ancora l’ostacolo più ostico per sbloccare l’impasse mediorientale.
E quello del CORRIERE DELLA SERA,di Antonio Ferrari, a pagina 12: "Abu Ala ritira le dimissioni. Risolta la crisi palestinese"
Se contassero gli abbracci, i baci sulle guance e i sorrisi mediatici che ieri sono stati generosamente profusi, potremmo dire che la crisi è risolta, che il presidente palestinese Yasser Arafat si accontenta del suo ruolo istituzionale, che il primo ministro Ahmed Qurei (Abu Ala) ritira le dimissioni perché ora dispone di tutti gli strumenti per governare, che finalmente l'Autorità nazionale palestinese torna a curare seriamente la propria funzione di struttura provvisoria, in attesa di diventare uno Stato. Ma abbracci, baci sulle guance e sorrisi mediatici appartengono purtroppo a un copione usurato. Una riconciliazione formale potrebbe quindi significare ben poco: il semplice rinvio della crisi alla prossima occasione. I precedenti, infatti, non sono confortanti. Fatta la premessa, dobbiamo però dire che qualche spiraglio di speranza esiste: non perché Arafat si sia improvvisamente ravveduto e Abu Ala, da notabile condiscendente si sia trasformato in un leone che si impunta per difendere la propria dignità e il diritto di governare. Sono infatti, da una parte lo scollamento dell'Anp, il caos nei territori e l'incapacità di esprimere un leader in grado di negoziare, e dall'altra le dinamiche politiche israeliane che potrebbero portare presto a un governo di unità nazionale ad aver imposto ai palestinesi una correzione di rotta. Che sia autentica ed efficace è tutto da vedere. Anzi, è legittimo dubitarne. E' pur vero che Arafat ha accettato di lasciare il ministero dell'Interno, sul quale aveva sempre preteso controllo assoluto, a un uomo gradito al suo premier. Ma nella sostanza, gli apparati della sicurezza resteranno divisi: la polizia sotto la guida di Abu Ala e dei suoi ministri, l'esercito e l'intelligence pilotati (magari con qualche concessione formale al governo) dallo stesso Arafat. E' davvero poco per pensare a una svolta, ma tanto è bastato al premier per ritirare le dimissioni e riprendere il cammino interrotto a metà luglio. Il problema, quindi, non si risolve con le promesse e le dichiarazioni roboanti. Contano i fatti. Che non riguardano soltanto il coordinamento e il controllo delle varie forze di sicurezza, ma la gestione dei fondi, del denaro dell'Anp, che invece di alleviare le sofferenze dei palestinesi è stato distorto (in larga parte) per alimentare la macchina di una diffusa corruzione. E' stata proprio la volontà di combattere la corruzione ad aver creato, nei giorni scorsi, un pericoloso corto circuito tra gli estremisti delle Brigate Al Aqsa, responsabili di gravi attentati, e la maggioranza silenziosa palestinese, contraria al terrorismo ma doppiamente prostrata: dall'occupazione israeliana e dagli immotivati arricchimenti di capi e capetti (in divisa o meno) delle strutture pubbliche dell'Anp, ovviamente a partire dai vertici. Ieri è stata dichiarata ufficialmente l'apertura di un'inchiesta proprio a Gaza. I casi di corruzione nella Striscia avevano infatti provocato la rivolta dei giorni scorsi. E la rabbia popolare si era concentrata su un nome: Moussa Arafat, cugino del presidente, al quale era stato affidato l'incarico (poi revocato) di responsabile della sicurezza. L'equazione, quindi, è semplice: se il raìs, il premier e l'intera Anp vogliono tornare ad essere credibili devono soltanto agire energicamente, accettando il fatto che corruzione e terrorismo appartengono alla stessa famiglia.
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