Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Dossier Arafat finisce il potere del leader terrorista ?
Testata:La Stampa - Il Foglio - Corriere della Sera - Il Riformista Autore: Domenico Quirico - un giornalista - la redazione - Mara Gergolet - la redazione Titolo: «La crisi politica nell'ANP»
I principali quotidiani dedicano oggi, 20-07-04 ampio spazio agli sviluppi della rivolta interna all'autorità palestinese contro il regime corrotto di Yasser Arafat. Assai significativo è il fatto che giornalisti storicamente vicini al leader terrorista ne stiano criticando fortemente l'operato, segno questo che la misura è ormai colma. Di seguito pubblichiamo alcuni articoli tra i più interessanti.
Da la prima pagina de LA STAMPA ecco un commento a tratti anche divertente, per quanto lo consente l'argomento, di Domenico Quirico, "Anche Arafat tiene famiglia". Una delle qualità che più sconcerta gli innumerevoli nemici di Arafat è la sua arte felina di cavalcare il caos. Il rais palestinese crea il disordine, ci vive invischiato, lo leviga, lo scalpella con pazienza e poi attende che tutti, americani, fondamentalisti, perfino israeliani, disperati vengano a implorarlo di sedare quella accalcata baraonda. Ma anche per lui è scattata la trappola del potere assoluto. Arafat è così ben installato nella sua pelle di padre della patria che ha cominciato a pensare di essere immortale. Non si è accorto che i casi piuttosto sismici della politica palestinese questa volta erano di grana diversa, non erano i soliti mugugni, era una rivolta. Per i dittatori c’è una sola categoria più funesta dei nemici dichiarati: sono i parenti. E lui invece ha affidato i fondamentali servizi di sicurezza a uno scialbo cugino; così gli avversari, che da anni sognano di sottoporre il suo corpo glorioso ai servigi di un imbalsamatore (politico), hanno capito che era in difficoltà, il suo talento si era arrugginito. I palestinesi, insomma, hanno finalmente trovato il coraggio di compiere ai suoi danni un atto supremo: quello dei figli che, un giorno, scoprono che i padri sono diventati troppo saturneschi, ingombranti e oppressivi. Così simbolicamente li uccidono per diventare padroni del proprio destino. Dal FOGLIO traiamo un articolo di cronaca corretto ed esauriente pubblicato in prima pagina ed un editoriale che mette in luce le responsabilità dell'Europa in questa crisi, nell'aver elargito finanziamenti a pioggia senza i dovuti controlli. Arafat mercanteggia con Abu Ala perchè non può fidarsi di nessuno. (pagina 1)
Ramallah. Forse non è l’ultima battaglia della sua carriera e neanche la più rischiosa. Di certo è quella politicamente più difficile da quando diede vita all’Autorità Nazionale Palestinese. L’Amministrazione sembra sgretolarsi. Yasser Arafat cerca di tenerla insieme come può. Innanzitutto facendo dimettere il cugino Mussa, appena nominato capo di tutti i corpi di sicurezza palestinesi, rivelatosi una soluzione peggiore del problema. Poi mercanteggiando con Ahmed Qorei, alias Abu Ala, il ritiro delle dimissioni da primo ministro. Ma anche questa volta le soluzioni proposte sembrano più che altro dei palliativi, che potevano forse funzionare quando la sua autorità e il suo carisma erano al massimo, ma che ora si rivelano stonati. Anche perché incominciano a scarseggiare gli uomini fidati da mettere nei posti chiave. La promozione del cugino Mussa, uno degli uomini più detestati della Striscia di Gaza, dai vertici dell’intelligence militare a quelli di tutti i servizi di sicurezza è un sintomo delle rarefatte risorse umane a disposizione del rais. Nonostante la disinibita e decennale pratica del nepotismo, l’Arafat dei tempi migliori non avrebbe mai scelto una figura tanto compromessa per un incarico così delicato. Con il risultato, perdipiù, di avvantaggiare il nemico. L’Arafat di oggi ha dovuto farlo per mancanza di alternative. E la subitanea destituzione di Mussa si è rivelata solo un mezzo passo indietro. Quando ieri lo ha licenziato, dopo due giorni di disordini che minacciavano di far esplodere Gaza, ha comunque garantito al cugino il comando della sicurezza nella Striscia. La poltrona di comandante supremo per Gaza e Cisgiordania è tornata invece nelle mani di Abdel Razak al Majaida, che era stato costretto alle dimissioni dopo i rapimenti della settimana scorsa. La stessa affannosa condotta regola il contenzioso sulle dimissioni di Abu Ala. Sabato il rais aveva annullato la lettera del suo primo ministro. Ieri ha cercato di convincerlo a ripensarci, mentre il premier rimaneva ambiguamente sospeso tra l’abbandono e il rilancio. Durante la riunione dell’esecutivo Abu Ala ha continuato a tergiversare: "Ho presentato le mie dimissioni per iscritto motivandole con il caos che regna a Gaza. Non ho ricevuto risposte scritte e quindi le considero tuttora valide anche se so – ha aggiunto – che i ministri non sono contenti". Abu Ala vede l’autorità del rais evaporare e si chiede se non sia meglio abbandonare subito. Ma sa che Arafat non ha altre boe sicure a cui appoggiarsi, e cerca di sfruttare al meglio la situazione. Dunque forza la mano per strappargli quel controllo degli apparati di sicurezza che il rais non ha mai voluto delegare né al primo ministro, né a nessun altro. Da questo punto di vista Abu Ala è in una posizione d’assoluto vantaggio: se anche lui si ritirasse, le alternative a disposizione del presidente sarebbero poche. Dietro gli intrighi e i disordini della Striscia di Gaza si nascondono i due peggiori nemici di Arafat: il potente capo dei servizi segreti egiziani Omar Suleiman e l’ex capo dei servizi di sicurezza di Gaza, Mohammed Dahlan. Suleiman punta – in vista di un ritiro israeliano dalla Striscia – a trasformarla in una dépendance palestinese egiziana affidata proprio al controllo del msuo protetto Dahlan. E’ stato Suleiman, lo scorso 7 luglio, a presentare ad Arafat l’ultimatum definitivo per la riduzione da dodici a tre degli apparati di sicurezza palestinesi. Sabato Arafat ha raggirato la richiesta accettando i tagli, ma mantenendo di fatto il controllo della "triplice armata" sotto l’egida del Consiglio nazionale di Sicurezza, da lui diretto. Dopo i violenti scontri armati di sabato e domenica il rais ha però fatto capire di esser disponibile a procedere anche sulla strada delle riforme. La via d’uscita migliore, prima di ritrovarsi a fianco un uomo nominato da Suleiman, sarebbe affidarsi al bizzoso, ma in fondo fedele, Abu Ala. La partita più complessa resta quella di Gaza. Qui Mohammed Dahlan e il suo mentore egiziano stanno vincendo su tutta la linea. L’erronea nomina di Mussa Arafat ha ulteriormente ampliato il loro margine di vantaggio. Gli assedi alle caserme della sicurezza, occupate dai miliziani del cugino, hanno dimostrato che i militanti armati sono disposti a seguire anche un personaggio ambiguo come Dahlan, più volte accusato di rapporti troppo stretti con israeliani e americani, pur di farla finita con i gerarchi di Yasser Arafat.
Gli euro di Arafat. Editoriale a pagina 3
La crisi dell’Autorità nazionale palestinese, arrivata agli scontri armati fra miliziani delle diverse fazioni, nasce da una lotta senza quartiere per la spartizione dei cospicui aiuti finanziari, provenienti sia dall’Arabia Saudita sia dall’Unione Europea. Yasser Arafat non ha mai accettato che le cosiddette forze di sicurezza, che sono quelle che incamerano la maggior parte dei soldi, venissero poste sotto il controllo del governo. Lì infatti risiede la base di quel residuo potere, che lui ha cercato di usare per controllare le diverse fazioni, fino ad arrivare all’istituzione di ben dodici diverse formazioni di polizia. Ma queste sono sempre insoddisfatte, perché sanno che buona parte dei fondi viene sottratta dai responsabili della sicurezza che, probabilmente, se li intascano per poi trasferirli in qualche banca compiacente. Nei giorni scorsi, per protestare, le formazioni più agguerrite, che praticano e rivendicano il terrorismo (come quella dei Martiri di Al Aqsa) hanno sequestrato e costretto alle dimissioni il capo della sicurezza. Arafat lo ha sostituito con un suo parente, considerato corrotto non meno del predecessore e, dopo ventiquattr’ore dalle polemiche dimissioni del capo del governo Abu Ala, ha dovuto rimangiarsi la nomina nepotistica. La nuova designazione di Abdel Razzek al Majeida e il preannuncio di una riforma della sicurezza che dovrebbe concentrare in tre soli corpi le polizie palestinesi, non sono bastati ancora a far recedere il premier dalle dimissioni, pur respinte dal rais. Paradossalmente i soldi che finiscono nei conti segreti di qualche ras palestinese corrotto fanno meno danni di quelli che servono a finanziare formazioni paraterroristiche. Non si capisce però perché l’Unione Europea debba finanziare ladroni o assassini. In varie occasioni nel Parlamento di Strasburgo è stato chiesto alla Commissione di condizionare gli aiuti alla possibilità di controllarne l’effettiva destinazione. Si è sempre risposto che farlo avrebbe significato "interferire", e così i cordoni della borsa sono rimasti aperti. Ora si spera nel successore di Romano Prodi. Sul CORRIERE DELLA SERA, a cura di Mara Gergolet, viene pubblicata un'intervista a Martin Sherman, ricercatore presso il centro interdisciplinare di Herzlyia, il quale vede nell'attuale crisi una sorta di gioco allo scarica barile A pagina 13, "Il premier ha capito che Arafat vuole sacricare le responsabilità su di lui". « La leadership palestinese, che ha partecipato ai trattati di Oslo, è stata ormai completamente screditata. Fin dall’inizio è stato un tragico errore pensare che potessero essere dei partner. Lo stesso Oslo è stato un totale fallimento sia per gli israeliani che per i palestinesi. La situazione dei palestinesi di oggi è confrontabile con quella di prima del 1992 », . Lo afferma Martin Sherman, professore di Scienze politiche presso l’Università di Tel Aviv e ricercatore del Centro interdisciplinare di Herzliya.
Che ruolo ha Arafat nella situazione di caos in cui si trovano i palestinesi? « Arafat non ha mai avuto intenzione di creare uno Stato di diritto: il suo scopo è stato solo quello di distruggere Israele, mai di costruirne un altro » .
Che futuro prospetta per l’Autorità palestinese? « La leadership palestinese dovrà dimostrare di avere la volontà di portare cambiamenti, altrimenti ci sarà posto solo per i gruppi armati e l’anarchia aumenterà » .
Ritiene che si possa arrivare a una guerra civile tra i palestinesi? « Non lo escludo, mi sembra però più probabile che si crei una situazione di caos permanente, come è accaduto, ad esempio, in Afghanistan o in alcuni Paesi africani. Fazioni armate che prenderanno il potere. Non vedo per i palestinesi un futuro roseo » .
Il ritiro israeliano da Gaza porterà dei cambiamenti per i palestinesi? « Il giorno dopo il ritiro si creerà un vuoto politico e di potere. I gruppi armati più forti e violenti prenderanno il potere, l’indigenza aumenterà, in altre parole, la gente non avrà di che mangiare. Per ora non vedo nessun personaggio sufficientemente forte da poter prendere in mano la situazione. Gruppi islamici esterni, da Riad o Teheran, tenteranno di aumentare la loro influenza offrendo denaro ai più disperati. Sia Hamas che la Jihad sfrutteranno la situazione a loro favore » . Dal RIFORMISTA pubblichiamo un editoriale che analizza come la situazione stia in realtà sfuggendo dalle mani di Arafat. A pagina 1 "la guerriglia di Gaza ha sorpreso anche Arafat"
L'ombra di Darfur e l'ombra di Dahlan. Sono due cose completamente diverse, ma dietro alla rivolta armata di Gaza - la prima ad opporre palestinesi ad altri palestinesi - aleggiano entrambe. La prima, e più drammatica, rappresenta il timore che nella Striscia, una pentola a pressione in cui convivono oltre un milione di esseri umani, si stia andando rapidamente a una deriva di tipo sudanese: vale a dire, a uno scontro di tutti contro tutti, banda contro banda e signore della guerra contro signore della guerra, liberi di massacrarsi a vicenda nel vuoto di potere di un'Autorità palestinese in rapida dissoluzione. La seconda ha un segno diverso, e parla della possibilità che sotto la guida più o meno nascosta di Mohammed Dahlan - l'ex ministro degli Interni ai tempi del governo di Abu Mazen - stia crescendo la prima vera ribellione contro Yasser Arafat e i suoi uomini: nessun vuoto di potere, dunque, ma uno scontro aperto per il potere. Allo stato dei fatti, entrambe le letture di quel che sta accadendo a Gaza sono plausibili. E anzi, c'è anche la possibilità che i due scenari siano complementari, che la rivolta capeggiata da Dahlan sfoci non nell'ascesa di un nuovo gruppo dirigente ma in una guerriglia permanente. Quel che è certo è che per la prima volta Arafat - da quasi tre anni confinato dalle minacce israeliane nel suo quartier generale di Ramallah, in Cisgiordania - deve fronteggiare una sfida aperta; non da parte dei vecchi nemici fondamentalisti, Hamas e Jihad, ma da parte di quelle formazioni che nell'albero genealogico palestinese venivano ricondotte direttamente a lui: i giovani leoni di Fatah, quelli cresciuti fra la prima Intifada e i soggiorni nelle carceri israeliane, e le loro milizie combattenti delle Brigate dei Martiri di al Aqsa. Tema ufficiale, la corruzione. Con il rapimento-lampo dell'ex capo della polizia di Gaza al-Jabali, la settimana scorsa, le fin qui sconosciute Brigate dei Martiri di Jenin avevano costretto Arafat a rimuovere il suo uomo, accusato di grassazione, violenze gratuite e stupri. Nominando al suo posto il fedele (e anche lui in odor di corruzione) cugino Moussa, tuttavia, Arafat aveva mostrato di non capire la reale estensione della ribellione, che infatti era ripresa immediatamente tra manifestazioni di piazza e sparatorie. Tale era il caos, a Gaza, da spingere il primo ministro Abu Ala a rassegnare le dimissioni per denunciare l'ingovernabilità dell'Anp. Ieri il messaggio dev'essere finalmente arrivato anche a Ramallah. Arafat, infatti, ha fatto fuori il cugino e ha reinstallato Abdel-Razek al-Majaideh a capo della sicurezza di Cisgiordania e Gaza insieme. Una decisione che è stata accolta da colpi sparati in aria (colpi di soddisfazione) da parte degli stessi che avevano avversato la promozione di Moussa Arafat, ma che non è bastata ancora a far rientare le dimissioni di Abu Ala, che le ha confermate (pur lasciando spazio a un ripendamento). Il tentativo di Arafat di riprendere il controllo della situazione sul terreno, potrebbe tuttavia essere arrivato troppo tardi. Il mix tra rivendicazioni dal basso (la rivolta contro la corruzione dilagante e la struttura familistica del potere costruita negli anni da Arafat) e strategie politiche che contrastano con il sostanziale immobilismo del presidente palestinese non è detto possa più essere messo a tacere. Specie se risultasse essere vero quello che in queste ore è sulla bocca di tutti, ossia che il deus ex machina della rivolta sia il nuovo uomo forte di Gaza, Mohammed Dahlan. Estromesso dal governo dopo le dimissioni di Abu Mazen (anzi, la causa di quelle dimissioni era proprio lui, con la sua pretesa di esercitare il controllo effettivo degli apparati di sicurezza palestinesi), Dahlan si è rintanato nella Striscia e ha cominciato a tessere la sua tela nella convinzione di poter costruire un movimento dal basso in grado di scalfire il potere di Arafat. E ora potrebbe aver deciso di mettersi alla prova. Il paradosso è che Dahlan è considerato in Occidente (e in particolare a Gerusalemme e a Washington) come il più credibile fra i potenziali interlocutori per riaprire un negoziato, ma in questa sua battaglia si serve di un esercito fortemente ideologizzato, irredentista, e assai poco incline al dialogo. La sua capacità di dettarne le mosse, nei prossimi mesi, darà anche la misura della sua leadership. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla redazione de La Stampa, Il Foglio, Corriere della Sera, e Il Riformista . Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.