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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa-Il Foglio Rassegna Stampa
10.07.2004 Opinioni dal campo ebraico
sulla sentenza dell'Aja e la barriera difensiva

Testata:La Stampa-Il Foglio
Autore: A.B.Yehoshua-Fabio Galvano-Giulio Meotti
Titolo: «Sentenza dell'Aja e Barriera difensiva»
Che ne pensa il campo ebraico dlla sentenza dell'Aja e della barriera difensiva ? Riportiamo l'intervista a A.B. Yehoshua di Fabio Galvano sulla Stampa di oggi e due servizi di Giulio Meotti sul Foglio di giovedì 8 e venrdì 9 luglio.

Cominciamo con l'intervista a Yehoshua:

PER Avraham Yehoshua quella del tribunale dell'Aja è una decisione non «storica», come l'ha definita ieri a Ramallah il premier palestinese Abu Ala, bensì «sbagliata e ingiusta». Allineato una volta tanto con il premier Ariel Sharon, sia pure per motivi piuttosto diversi, lo scrittore pacifista israeliano non nasconde il suo disappunto per la sentenza che condanna il muro d'Israele. Ma fa subito un distinguo: «Se la Corte internazionale di giustizia parla di quella parte del muro che ripercorre le linee del 1967 e che sta nascendo sul territorio israeliano, non ha assolutamente alcun diritto d'intervenire. Hanno invece ragione, i giudici, se si riferiscono a quella parte del muro che Israele sta costruendo nei Territori, che disturba e angustia la vita della popolazione palestinese: quel muro non è giusto, l'Aia ha ragione».
In verità la Corte condanna l'intero muro, anche se poi precisa che è da smantellare immediatamente quella parte che invade i Territori.
«E' una palese e inaccettabile contraddizione. Come si può condannare tutto e poi indicare che si vuole l'abbattimento soltanto di una parte del muro? Mette ancor più in evidenza la debolezza della sentenza».
I giudici dicono che l'intero muro viola le leggi umanitarie internazionali, quindi lede i diritti umani del popolo palestinese.
«E' come dire che ha tutti i diritti quel terrorista palestinese che arriva dal suo villaggio imbottito di esplosivo, pronto a uccidere quaranta israeliani. La verità, l'ho sempre detto e lo ripeto, è che il muro serve. Serve per dividere due popoli che per il momento non riescono a coesistere. Serve per proteggere Israele dal terrorismo palestinese. Serve per creare un progressivo allentamento della tensione, un modus vivendi che possa portare a una pace duratura. Serve ed è importante. Ma non deve ledere diritti obiettivi: quelli dei palestinesi, appunto, quando il tracciato penetra nei Territori per proteggere taluni insediamenti israeliani che dovrebbero invece essere abbandonati e rasi al suolo».
La Corte dice addirittura che i palestinesi dovrebbero essere indennizzati per la costruzione del muro.
«Benissimo, ma di questo passo non si finirebbe mai, perché poi i palestinesi dovrebbero indennizzare le famiglie israeliane che sono state colpite dai loro terroristi. Avremmo una girandola di indennizzi, senza arrivare a passi concreti. La mia impressione è che la Corte dell'Aia abbia perso una grandissima occasione per chiarire una volta per tutte la posizione del mondo civile di fronte a quello che del muro è lecito e a quello che non lo è. Se lo avesse fatto avrebbe dato un forte sostegno a tutti coloro che in Israele, come nel mondo palestinese, credono nella pace e non nel confronto che sta insanguinando il Paese. Avrebbe potuto contribuire a creare un clima migliore, dal quale inevitabilmente avrebbero potuto scaturire maggiori speranze per il futuro».
Arafat ha detto ieri che quella sentenza è «una vittoria del popolo palestinese e di tutti i popoli liberi del mondo».
«Arafat è uno dei maggiori colpevoli della situazione in cui viviamo e farebbe meglio a prendere precise distanze dal terrorismo. Quella sì che sarebbe una vittoria dei popoli liberi. E' lui il vero ostacolo, quello che impedisce il dialogo. Perché i palestinesi non rinunciano alla loro anacronistica insistenza di tornare dai Territori? Perché non schiacciano la logica del terrore? Perché non siedono al tavolo con il governo israeliano per discutere e attuare gli accordi di Ginevra?»
In vista dell'incontro di domenica con Sharon, nel corso del quale si discuterà l'opzione di un governo di unità nazionale, il leader laburista Shimon Peres ha detto che occorre accelerare il disimpegno da Gaza, già previsto per l'anno prossimo, e riaprire il dialogo con l'Anp, l'Autorità nazionale palestinese.
«Perché no? Entrambi sarebbero passi nella giusta direzione. Da una parte "liberare" Gaza, dall'altra dialogare: da una parte un gesto concreto, sulla strada auspicata dai palestinesi, dall'altra un importante tentativo di sostituire la logica del sangue con quella della trattativa. Ma entrambe le parti devono essere pronte a comportarsi in modo adeguato».
Lei ritiene che un governo di unità nazionale possa essere la risposta alle esigenze del momento?
«Sono convinto che Sharon sia in grado di attuare da solo quel tipo di politica, come ha dimostrato quando, sulla vicenda di Gaza, si è schierato contro il suo stesso partito, il Likud. Ma se ritiene di avere bisogno di maggiori consensi, e quindi di coinvolgere anche Peres e i laburisti, non vedo che male ci sia. L'importante è che Peres non si lasci invischiare dalle incertezze e dagli errori del passato».
Seguono i due articoli di Giulio Meotti:
il primo:

"Il muro di Sharon offende o difende? Rispondono scettici ed ex scettici" (8
luglio)

Nonostante le cifre diffuse da Haaretz
parlino di una flessione del 75 per cento
di attentati dall'inizio dell'anno rispetto
al 2003, in pochi sono disposti a ricredersi
sull'efficacia del "muro". "Siamo in presenza
di una nuova tendenza, il livello del terrore
sta lentamente diminuendo", ha spiegato
il ministro della Difesa israeliano,
Shaul Mofaz. Tawfiq Karaman, city manager
di Umm el-Fahm, cittadina arabo-musulmana
di 42 mila abitanti, ha detto al Jerusalem
Post: "Grazie a Dio la barriera ha posto
fine alla sfilata di terroristi che attraversavano
la nostra città, garantendoci maggiore
sicurezza e un boom economico".
Sergio Romano continua a pensare che
sia stato un errore: "Il muro è nato come
una proposta di pacificazione della sinistra
israeliana - dice al Foglio - Sharon l'ha realizzato
adattandolo a un progetto politico diverso".
Non ha dubbi che la barriera abbia
funzionato, "ma se sarà decisivo lo sapremo
solo più avanti. Uno dei dati che il governo
israeliano porta a suo favore è quello sugli
attentati sventati. Ma anche questa è un'arma
a doppio taglio. Mi preoccuperei se tra
maggio e giugno ci sono stati quaranta attentati
sventati. Significa che il pozzo è ancora
pieno". Non lo convince l'idea che la
convivenza di due popoli simili possa fondarsi
sulla separazione fisica: "L'economia
palestinese vive grazie a quella israeliana,
e il muro aggiunge infelicità a infelicità".
Secondo Romano la barriera ha danneggiato
politicamente Israele: "Non conviene a
Sharon contare, nel medio-lungo periodo,
sul solo avallo degli Stati Uniti. Bush padre,
nel 1992, interruppe gli aiuti finanziari a
Israele per la politica sugli insediamenti".
Amos Luzzatto, presidente dell'Unione delle
comunità ebraiche italiane, è uno dei più
disponibili a riconoscere che nel breve termine
la barriera ha avuto un effetto positivo.
"Devo potermi difendere se uno vuole
scipparmi per strada. Cosa devo fare però
perché non ci siano più scippi? E' nel lungo
termine, quindi, che il muro non mi convince".
Luzzatto non accetta che possa atrofizzarsi
la speranza di un rilancio della trattativa
fra Israele e mondo arabo. "Bisogna trovare
il modo di fare ponti, non muri divisori.
Nel breve periodo non c'era alternativa,
ma non risolve il dilemma. Alcuni miei amici
mi dicono che è così e sarà così per sempre.
Sono spaventato da queste parole, dico
questo per l'amore viscerale che nutro per
Israele". Gad Lerner concorda con Luzzatto
sulla mancanza di un progetto realistico da
parte di Sharon: "Inoltre se la statistica la
pieghiamo al contrario, estendendola al periodo
precedente, sotto Sharon c'è stato un
incremento di attentati". Anche per questo
pensa che non si possa cantar vittoria: "La
dinamica degli attentati è programmata con
una logica politica. Più che la barriera difensiva,
ahimé, sono state efficaci le esecuzioni
mirate, hanno destabilizzato la struttura
militare e terroristica di Hamas e Jihad".
E' per quest'infelice paradosso, continua
Lerner, "che oggi non si può dire, dal punto
di vista di un cittadino israeliano, 'grazie
Sharon'. E' cresciuto il senso d'insicurezza".
Moni Ovadia è il più duro, lo è stato fin dall'inizio.
"Israele ha tutto il diritto di costruire
un muro all'interno del suo territorio, lo
ha scritto anche Noam Chomsky. Il punto è
che ciò che è bene per me non deve essere
male per un altro. E Israele ha costruito la
barriera all'interno della Linea verde, riconosciuta
da tutti come un confine tra i due
popoli. Facendo questo, Sharon ha disconosciuto
la legalità internazionale, mettendosi
sullo stesso piano di Hamas". Non lo convince
nemmeno l'ingiunzione di modifica
del tracciato della Corte suprema, "è solo
parziale, Sharon vuole un diktat basato sulla
legge del più forte". David Bidussa, storico che lavora alla Fondazione
Feltrinelli, ritiene
positivi gli effetti della barriera, ma
"un governo si giudica dal suo progetto politico,
e per ora non lo vedo. Solo a quel punto
un effetto tecnico si potrà dire quanto
avrà pesato. La barriera non è riuscita a rendere
esplicita la lotta intestina all'interno
del mondo palestinese, che si è andato ricompattando".
Luciano Tas, storico direttore
del mensile Shalom, non ha dubbi: "Gli
avversari del muro sono gli avversari della
pace". Giudica la barriera una garanzia di
stabilità per la regione, per una trattativa seria.
"Certo, dev'essere accompagnata da altri
gesti, come il ritiro da Gaza, che solo uno
come Sharon, con i voti della sinistra, può fare,
non certo il contrario. Se anche il muro
avesse evitato una sola strage, avrebbe raggiunto
l'obiettivo. E' interesse anche della
maggioranza dei palestinesi, non ancora avvelenata
dalla propaganda, che vuole godersi
i benefici di questo nostro odiato occidente".
Chi il muro pensa che funzioni ricorda
che sono stati 79 gli attentati sventati
da inizio anno; tra maggio e giugno sono stati
40 i tentativi di attacchi, due portati a termine.
Israele ripete che solo la morte è irreversibile,
non dei pannelli di cemento, e nel
solo mese di maggio ha smantellato 40 posti
di blocco, sostituendo i militari con personale
di età non inferiore ai 45 anni, per non
aumentare la tensione con i palestinesi.
Ecco il secondo:
"L'Aja processa >un'entità metaficia<, la barriera è utile nella realtà"
le ragioni di chi difende il muro di Sharon (9 luglio 04)

Il muro è diventato una sorta d’entità metafisica",
spiega al Foglio Giorgio Israel,
saggista e docente alla Sapienza. Quella
che oggi si consuma all’Aia, dove la Corte
internazionale si esprime sulla legalità della
barriera difensiva israeliana, Israel la
giudica "un’operazione retorica e morale.
Speriamo che non facciano la faccia di
bronzo, a Seuta c’è un muro spagnolo finanziato
dall’Unione europea". Sul confine
tracciato dalla Linea verde, Israel ricorda
che "la risoluzione 242 è scritta in inglese,
parla di un ritiro ‘da Territori occupati’,
un’ambiguità voluta. La linea verde è convenzionale,
non è riconosciuta da nessuno,
tanto meno dai paesi arabi. L’unico organismo
che cura i diritti dei palestinesi è la
Corte suprema israeliana". Sono state tante,
aggiunge Israel, le risistemazioni territoriali
nel passato, come quella tra Grecia
Turchia, con quattro milioni di persone
trasferite da una zona all’altra. Non è d’accordo
con chi sostiene che non c’è alcun
progetto politico al di là della barriera, che
funziona: "E’ il contrario, prima c’erano solo
tanti dialoghi e slogan, ma solo adesso si
ha l’impressione che qualcosa si stia muovendo.
Di paci stile Ginevra se ne possono
fare una al giorno, ma la politica vera è fatta
di carne e sangue". Per non parlare del
paradosso di una sinistra che per anni ha
chiesto a gran voce la fine dell’occupazione,
e adesso che Israele sta organizzando il ritiro
da Gaza chiede che sia concordato".
Anche Fiamma Nirenstein, che ha appena
scritto un libro, "Gli antisemiti progressisti"
(Rizzoli), in cui analizza vecchi e nuovi
pregiudizi contro lo Stato ebraico, pensa che
quella all’Aia sia "una farsa inscenata dall’Onu
con un intento politico preciso, la delegittimazione
dell’esistenza d’Israele. L’Onu
vuole Israele al bando, non lo ammette in
nessuna commissione, dedica un terzo delle
risoluzioni per condannarlo sui diritti umani,
quando quelli veri, violati e dimenticati,
avvengono in Cina. E’ un doppio standard insopportabile".
Ricorda anche che non si
tratta di un "muro", ma di un fence, "gader"
in ebraico, recinto, perché "il muro c’è soltanto
dove si possono colpire i civili, come
lungo l’autostrada numero 6 che collega
nord e sud in Israele, dove i cecchini sparavano
alle famiglie nelle loro auto". Certo,
spiega Nirenstein, "fa male a vederlo, una
grande impressione. Ma mentre il fence si
può spostare, come è stato fatto con gli alberi
e gli olivi da una parte all’altra, come gli
speciali passaggi d’Israele per consentire ai
palestinesi di recarsi al lavoro con maggiore
facilità, questo non lo si può fare con le vite
vite
distrutte dal terrorismo". A chi accusa
Sharon di non avere progetti politici, Nirenstein
ricorda che "ha già affrontato una lotta
interna e una crisi di governo, pur di portare
avanti la sua idea di sgombero. E’ un
pregiudizio che si basa sull’idea che Israele
sia migliore quando non si difende". Elena
Loewenthal, scrittrice e collaboratrice della
Stampa, era convinta fin dall’inizio della necessità
del fence: "L’idea lanciata da un progressista
come Yehoshua sta dando frutti. E’
inutile fare previsioni a lungo termine e non
bisogna giudicare con retorica". Riccardo
Pacifici, portavoce della comunità ebraica
di Roma, invita i detrattori del fence ad andare
in Israele prima di parlare, in zone di
confine come Netanya, Gerusalemme, Afula.
"Le responsabilità sono tutte di Arafat,
che invece di disarmare il terrorismo ha costretto
Israele a una misura, provvisoria, come
questa". Pacifici racconta un aneddoto
che la dice lunga sulla differenza fra sinistra
israeliana ed europea. A una cena romana
tra la Cisl e il sindacato israeliano, Histadrut,
tre dirigenti di quest’ultimo, vicino alla
sinistra pacifista, "hanno sostenuto che
erano favorevoli all’intervento in Iraq; che
apprezzavano, pur non votandolo, le qualità
negoziali di Sharon; che concordavano con
le eliminazioni di Yassin e Rantisi e che provavano
provavano
simpatia per un politico italiano vicino
a Israele, Berlusconi". Yasha Reibman,
portavoce della comunità ebraica di Milano,
ricorda che fu proprio Sharon, prima della
Corte, a dire che il percorso della barriera
era rivedibile: "E’ un muro per salvare vite
umane, prima di tutto dei palestinesi, che
non si faranno saltare in aria". Pensa che il
vero problema è cosa avverrà dopo il ritiro,
questa è la vera posta in gioco. Cosa succederà
a Gaza quando con Israele se ne andranno
migliaia di telecamere e di giornalisti?
Un ritiro è possibile perché c’è una barriera.
L’alternativa è non fare il muro e la fine
d’Israele. Ma può scriverlo solo Philip
Roth in un romanzo". Il sito ufficiale del governo
israeliano prende come esempio dell’efficacia
del fence il primo segmento costruito
tra Salem ed Elkana: su tre attentati,
compiuti dall’agosto 2003 al giugno 2004, in
due casi i terroristi, provenienti dalla West
Bank settentrionale, sono passati attraverso
punti della barriera non completata, e nel
terzo una donna ha utilizzato un passaporto
giordano. Nei 34 mesi precedenti erano stati
73 gli attacchi dalla stessa zona: 293 morti
1.950 feriti. Con il gader gli attentati sono
diminuiti del 90 per cento. Un fatto che nessuna
Corte potrà negare.
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