Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Iran, Giordania, Egitto: politica interna e internazionale nelle analisi dei due quotidiani
Testata:Il Foglio - Il Riformista Autore: le redazioni Titolo: «Analisi su tre stati mediorientali»
Per dare un'idea di cosa sta accadendo negli ultimi giorni in Medio Oriente pubblichiamo tre articoli che fanno il punto su altrettanti stati: l'Iran, la Giordania e l'Egitto. Il primo articolo, tratto dal Foglio, tratta dei progetti nucleari iraniani e di come potranno essere finanziati grazie all'aumento del prezzo del petrolio. Nel secondo articolo, sempre del Foglio, troviamo un'analisi della situazione giordana in relazione al possibile coinvolgimento delle forze di Amman nell'amministrazione di Gaza e della West Bank. Il terzo articolo, tratto dal Riformista, si sofferma sulle condizioni del presidente egiziano Mubarak e sul suo probabile successore, Omar Suleiman, atttualmente capo dei servizi segreti. Eccoli. "I segreti di Teheran" dal FOGLIO: pag.1 L’Iran degli ayatollah, che due giorni fa ha fermato tre navi vedette inglesi e il loro equipaggio composto da otto marinai nello Shatt el Arab (forse anche perusarli come strumento di pressione diplomaticanei confronti di Londra nei giorni in cui si discute del rapporto dell’Aiea sul nucleare di Teheran), non ha abbandonato e forse non abbandonerà mai l’idea di costruire una bomba atomica. Nonostante le pubbliche dichiarazioni dei massimi esponenti del regime islamico, volte a tranquillizzare gli occidentali, soprattutto americani e francesi, le ricerche, com’è stato dimostrato dagli ispettori e dagli analisti delle Nazioni Unite e dai servizi di intelligence, continuano. Messi di fronte alle accuse, gli iraniani negano. Ma i fatti sono fatti. Eccone alcuni di cui si parla molto in questi giorni tra Washington e Parigi. Secondo un mandato elaborato dall’ufficio della guida religiosa, Ali Khamenei, ed emesso a metà marzo dell’anno in corso, il CDE (Council for Discernment of Expediency), che ha l’incarico di fissare le linee guida della Repubblica islamica e di indicare i percorsi strategici, è stato stabilito di far destinare cinque miliardi di dollari in più al bilancio governativo. L’obiettivo di tali maggiori finanziamenti è il settore nucleare. Installazioni segrete, che si aggiungeranno alle attuali, saranno costruite entro due anni e avrann la parvenza e la copertura di impianti adibiti ad attività civili. L’Iran ha capito che per le istituzioni internazionali addette alla sorveglianza è facile scoprire i mascheramenti. Occorre quindi qualcosa di più sofisticato e nuovo e imprevedibile. Visto che l’Aiea, l’Agenzia atomica internazionale di Vienna, l’organismo di controllo sulla proliferazione nucleare delle Nazioni Unite, ha ormai già individuato molto, o quasi tutto, delle coperture iraniane, per non interrompere i progetti, Khamenei ha stanziato nuove e così ingenti cifre, purché si faccia in fretta; il fuel cycle" per l’arma atomica va quindi rimesso in moto, costruendo subito questi impianti: installazioni per la conversione dell’uranio, partendo dal minerale, passando attraverso la purificazione; un sistema di trattamento per tutto il processo; sistemi di sicurezza; sistemi di trasporto; controlli medici per gli addetti ai lavori. Nel marzo 2004, quando si è discusso diquesti progetti, Moshen Rezai, segretario del CDE, ha parlato di investimenti da dedicare all’agricoltura e a altri settori civili. Si è trattato ovviamente di false dichiarazioni, rese soltanto per gettare fumo negli occhi all’opinione pubblica mondiale, e soprattutto ad alcune cancellerie europee da sempre inclini a credere alle rassicurazioni che giungono da Teheran e alle presunte sorti progressive del dialogo con la Repubblica islamica. L’Iran non ha comunque problemi di bilancio. L’incremento del prezzo del greggio ha aumentato gli introiti per il 2004 – secondo tutte le previsioni – di somme che vanno dai cinque ai dieci miliardi di dollari. Risorse messe ora a disposizione del bilancio strategico nucleare. Secondo informazioni provenienti dall’intelligence e dal mondo accademico, il progetto iraniano per le centrifughe a uso nucleare cominciò addirittura nel 1987. Fu avviato su iniziativa del dottor Masoud Naraghi, un fisico impiegato nell’Aeoi, l’agenzia atomica iraniana. Nel 1988, al fine di ottenere informazioni, Naraghi ebbe incontri, in Europa occidentale e a Dubai, con esperti tedeschi del consorzio Urenco, colegati con Abdul Qadeer Khan, padre dei progetti atomici pachistani, di recente arrestato, con l’accusa di aver venduto segreti nucleari a paesi stranieri, e poi "perdonato" dal presidente Pervez Musharraf. Fra i contatti tedeschi c’era il dottor Heillingbruner, ex senior manager della ditta tedesca Leybold Heraus, accusata nel 1986 dalla magistratura federale per i suoi contatti sospetti con il Pakistan. Heillingbruner, in passato, aveva avuto contatti anche con l’Iaec, l’Agenzia atomica irachena. Dal FOGLIO: pag.3 inserto "Perchè la Giordania, suo malgrado, deve guardare al di là del fiume"
Amman. Al ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza farà da corollario una presenza militare giordana nella West Bank? Il primo a suggerirlo nel corso di una riunione di gabinetto, il 1° giugno, è stato Ariel Sharon. Amman, come il Cairo, ha interesse a evitare che i territori si trasformino nel feudo esclusivo ed esplosivo di Hamas, avrebbe rassicurato il premier israeliano, riferisce il quotidiano Haaretz. Il 13 giugno a rilanciare l’ipotesi con un’accusa sdegnata sono stati i palestinesi. Zakaria al Zubaidi, capo brigata di al Aqsa a Jenin, ha denunciato la presenza irrituale di cinque ufficiali dell’esercito giordano. "La visita non è stata concordata con Arafat", ha sottolineato Zubaidi, che senza troppe cerimonie ha invitato gli emissari di Amman a togliere il disturbo. "Ho detto loro che accettiamo l’aiuto degli Stati arabi per ricostruire le nostre forze di sicurezza distrutte dagli israeliani, ma ad alcune condizioni". Il nuovo apparato difensivo "non può avere il compito di soffocare l’intifada". Stando a fonti palestinesi, l’obiettivo dei colloqui avvenuti in quelle ore tra ufficiali giordani, elementi delle forze di sicurezza palestinesi e militanti sulla lista nera di Gerusalemme era proprio quello di negoziare l’addio alle armi degli oltranzisti nelquadro di un’incorporazione nell’apparato difensivo dell’Autorità nazionale palestinese. La missione giordana è stata confermata dalle autorità israeliane, che ne hanno però sottolineato il carattere "umanitario" e non "militare". Ma le voci di un ruolo per Amman in Cisgiordania, sulla falsariga di quello ritagliato per il Cairo a Gaza, hanno infiammato l’opinione pubblica giordana, costringendo il ministero degli Esteri a una smentita. "Non c’è alcuna presenza militare giordana nella West Bank", ha dichiarato la portavoce Asma Khader, negando anche le indiscrezioni di pattugliamenti congiunti con le forze israeliane. Tutt’altro che rassicurate dalle giustificazioni di Amman, Fatah e Hamas hanno stigmatizzato in un comunicato diffuso ieri il ruolo di garanti della sicurezza proposto a egiziani e giordani Fonti diplomatiche ad Amman rivelano al Foglio che l’opzione del coinvolgimento militare è giudicata un’arma a doppio taglio. La prospettiva di tornare a controllare, anche se solo parzialmente, i territori occupati dal ’48 al ’67 "è un calice avvelenato". L’economia devastata, la popolazione radicalizzata, la Cisgiordania è una rosa senza petali e con troppe spine. Ma ripiegarsi, cercando espedienti per disfarsi dei rifugiati, èsuggerimento di Camillo un’alternativa migliore? La Giordania di Abdullah II s’interroga e la vecchia guardia di re Hussein ammette che l’amicizia con Israele non ha portato i dividendi sperati. Ancora minacciata dall’equazione israeliana "la Palestina è la Giordania" e dalla bomba demografica rappresentata dalla popolazione palestinese all’interno dei suoi confini (tra il 50 e il 75 per cento della sua popolazione), Amman è consapevole che l’unica alternativa strategica è la pace nel quadro della soluzione "due Stati". Per la pace la Giordania sente di aver investito molto e senza aver ottenuto niente adesso ha paura di perdere tutto. La posizione ufficiale del regno hashemita è stata cautamente enunciata dal ministro degli Esteri, Marwan Mausher, e confermata da re Abdallah: "Il ritiro è uno sviluppo positivo, ma deve rientrare nell’ambito della road map". Ma la road map è in coma se non defunta e la barriera difensiva israeliana rischia di riversare nuove ondate di profughi in territorio giordano. Dal ’99, anno della sua ascesa al trono, re Abdullah ha riorientato le priorità, sottolineando l’esigenza di dare impulso all’economia, di razionalizzare la burocrazia e porre un argine alla corruzione e al nepotismo. Lo sviluppo interno doveva prevalere sulla politica regionale. Il motto era "Jordan first" ed è piaciuto alla componente nazionalista e transgiordana, che vede come il fumo negli occhi il successo economico dell’influente nucleo palestinese storico. Ma nonostante gli sforzi di Abdullah di portare avanti una politica "inclusiva", sotto la superficie dell’unità nazionale ribollono tensioni che "l’opzione giordana" non fa che esacerbare. I sospetti del settembre-nero settembre-bianco non sono ancora consegnati alla storia. Una carta dei diritti del ’91 ribadisce che "la Giordania è la Giordania" e "la Palestina è la Palestina", una distinzione tra l’East Bank giordano e la West Bank palestinese considerata la chiave di volta dell’assetto statuale giordano. Un intervento militare, anche se discreto, potrebbe mandare tutto all’aria. Per i nazionalisti transgiordani un ruolo di Amman nella West Bank evoca il fantasma dell’invasione palestinese. Per i rifugiati potrebbe rappresentare un tradimento. Per le opinioni pubbliche arabe una macchia di troppo spinto americanismo sulla reputazione di Abdullah. Ma il grande alleato statunitense, l’unico che conti nella regione, preme per la collaborazione con Israele, la minaccia del terrorismo rimescola le carte, il sovrano hashemita prende tempo. Dal RIFORMISTA: pag.3 "Il male oscuro di Mubarak rilancia il capo degli 007"
Nelle ultime settimane, dopo il viaggio a Mosca, si è fatto vedere assai raramente in pubblico. Poi, sette giorni fa, ha cominciato a disdire uno a uno gli incontri ufficiali, compreso quello più importante con il ministro degli Esteri israeliano Silvan Shalom. Alla fine, Hosni Mubarak è salito sull'aereo di stato e si è fatto portare a Monaco di Baviera, dove è stato ricoverato d'urgenza. Doveva essere già operato lunedì 21 giugno, ufficialmente per un'ernia al disco. Ma l'intervento è stato rinviato di qualche giorno. E' davvero questa la verità? I centri studi dell'opposizione, come l'al Maqreze for Historical studies, hanno insinuato che non di ernia ma di cancro alle ossa soffirebbe Mubarak, 76 anni, al potere dal 1981 e appena rimessosi da un altro malore improvviso. «Il presidente è in condizioni critiche e il suo stato di salute è deteriorato negli ultimi giorni» si legge in un comunicato del think tank. Il governo egiziano ha smentito seccamente e ha cercato di vendere l'immagine di un Mubarak «in buone condizioni». Eppure i misteri sulla malattia (o le malattie) dell'anziano leader mediorientale sono difficili da dissipare. Intanto, per la prima volta, in vista dell'intervento chirurgico Mubarak ha deciso di cedere i poteri. Lo ha fatto alla vigilia della trasferta tedesca delegando il primo ministro Atef Obeid a rappresentarlo durante la sua assenza. In second'ordine: è parere di molti diplomatici europei accreditati in Egitto che l'ernia al disco poteva essere curata in qualsiasi buon ospedale del Cairo o di Alessandria. E ancora: gli stessi ambienti diplomatici hanno notato un certo nervosismo nei giorni scorsi fra le alte cariche dello stato, come se qualcosa di grave stesse per accadere. Tutti ovviamente, sia in Europa sia in Medio Oriente sia negli Stati Uniti, si augurano che Mubarak possa presto ritornare a svolgere le sue funzioni, soprattutto ora che l'Egitto si candida ad assumere un ruolo-guida nella Striscia di Gaza quando questa sarà abbandonata dall'esercito israeliano (anche se proprio ieri sono arrivati i «no grazie» di tutte le fazioni armate palestinesi). Ma nessuno si nasconde che troppe circostanze convergenti fanno temere per il peggio. In questo caso non sarebbe Obeid a succedere a Mubarak, ma più probabilmente il potente capo dei servizi segreti Omar Suleiman. Da tempo questo generale ha acquistato un ruolo pubblico assai vistoso, che non combacia affatto con quello di capo dell'intelligence. Ha avuto l'incarico di svolgere una difficile, quanto ambiziosa mediazione fra palestinesi ed israeliani. A Washington è stimato forse ancor più di Mubarak, non foss'altro perché fu il primo ad avvertire la Cia, diversi mesi prima dell'11 settembre, che la rete terroristica di Osama Bin Laden era ormai nella fase finale di un piano per colpire obiettivi americani di rilevante significato simbolico. Senza Mubarak, ma con Suleiman in carica, si giura alla Casa Bianca, l'Egitto non rischierebbe di diventare un altro Iraq. La gaffe di Foggy Bottom. Il dipartimento di Stato americano deve avere seri problemi di funzionalità. Oppure di manipolazione. In aprile l'annuale rapporto sul terrorismo, considerato una Bibbia in materia, aveva stimato che il numero delle vittime del terrore nel 2003 era sceso drasticamente rispetto all'anno precedente. Quel dato era stato usato dalla Casa Bianca per confermare che il presidente George W. Bush sta vincendo la guerra contro il terrorismo internazionale. Errore. Errore colossale e imbarazzantissimo. Subito dopo la pubblicazione del rapporto i principali esperti internazionali hanno contestato quelle cifre accusando il dipartimento di Stato di «mentire a scopi di propaganda elettorale». Il 10 giugno Colin Powell in persona ha dovuto ammettere che le «le cifre erano inaccurate», attribuendo in parte la colpa a un nuovo data system. La mattina di martedì 22 giugno, il dipartimento di Stato è stato costretto a pubblicare una nuova versione del rapporto, rivisto e corretto, che mostra una crescita sia nel numero dei morti (625 contro i 307 della versione precedente) sia in quello dei feriti; anche se risultano leggermente diminuiti gli attentati compiuti. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alle redazioni de Il Foglio e del Riformista. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.