Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Sharon cerca una maggioranza parlamentare unità nazionale e le altre ipotesi
Testata:Il Foglio-Il Riformista Autore: la redazione Titolo: «Dibattito parlamentere israeliano»
Sul dibattito parlamentate israeliano di questi giorni pubblichiamo due interessanti articoli. "Se non arriva Peres, Sharom ha un piano B per salvare il suo governo", dal FOGLIO:
Gerusalemme. L’ingresso dei laburisti di Shimon Peres nel governo israeliano, per consentire l’attuazione del piano di ritiro da Gaza, non è affatto scontato e, a sorpresa, al loro posto potrebbero entrare nella maggioranza guidata dal Likud i religiosi askenaziti di Yahadut Ha Torah. La scelta del procuratore generale Menachem Mazuz di non incriminare per corruzione il primo ministro Ariel Sharon ha tolto il principale ostacolo alla partecipazione laburista alla coalizione. Ma ora Peres deve fare i conti con la forte opposizione sia all’interno del suo partito sia dentro l’attuale maggioranza. Così ha posto subito nette condizioni per il sì laburista al governo di grande coalizione: il ritiro da Gaza deve avvenire non in via unilaterale, ma attraverso il negoziato con i palestinesi; la politica economica liberista del ministro delle Finanze Benjamin Netanyahu va rivista. I deputati laburisti che meno hanno possibilità di ottenere un ruolo ministeriale sono ovviamente i meno disposti a sostenere Sharon. Il rischio è quello di appannare l’immagine di alternativa costruita negli anni all’opposizione. Tra i contrari alla svolta governativa c’è anche Avraham Burg, già presidente della Knesset, il Parlamento israeliano, che medita di lasciare eventualmente la politica. Tommy Lapid, leader del partito laico Shinui e ministro della Giustizia, ha molto insistito nei giorni scorsi per un coinvolgimento di Peres, ma ora potrebbe ripensarci. Nello Shinui molti paventano un ridimensionamento per l’eventuale ingresso dei laburisti, che viceversa ne uscirebbero rafforzati. Con loro al governo, il partito di Lapid non rappresenterebbe più né la seconda forza della coalizione né soprattutto l’ala sinistra del governo, area nella quale Shinui aveva raccolto voti alle elezioni. La maggior esperienza parlamentare degli uomini di Peres preoccupa anche parte del Likud, il partito del premier: almeno 21 deputati si oppongono all’abbraccio con i laburisti. "Sharon vorrebbe innanzitutto raggiungere il traguardo del 2 luglio, quando la Knesset chiuderà per la pausa estiva, durante la quale il governo non potrà essere sfiduciato", spiega al Foglio Nehama Duek, cronista parlamentare del quotidiano Yedihot Aharonot. Sharon è pronto a rimescolare ulteriormente le carte. Per evitare di imbarcare i laburisti, ha intensificato i rapporti con i religiosi-haredim di Yahadut Ha Torah, che potrebbero fare proprio quanto spiega il ministro Zevulun Orlev, membro del Partito Nazional Religioso: "Fino a che non si sposta una casa non c’è alcun bisogno di non far parte dal governo". Ma se alla fine Peres la spuntasse, tra le conseguenze dell’ingresso dei laburisti nella maggioranza potrebbe esserci anche un rivoluzionario cambiamento degli equilibri nella politica israeliana, caratterizzata da quello che il professor Shmuel Sandler dell’università di Bar-Ilan definisce "modello consociativo". I governi – di destra come di sinistra, Rabin come Sharon – hanno quasi sempre dovuto ottenere l’appoggio dei partiti religiosi al prezzo di continue sovvenzioni al loro sistema educativo e di concessioni come l’estensione dell’esenzione dal servizio militare. In passato erano l’ago della bilancia nella Knesset. Ora non lo sono più. Sulla battaglia per la laicità dello Stato è cresciuto il fenomeno Shinui, che in due elezioni è passato dallo 0 al 12 per cento dei consensi nel 2003. "Uniti dall’essere ‘contro’, adesso al governo devono fare politica davvero", ci dice il commentatore radiofonico Ghigon Remez. Se nel primo gabinetto Sharon l’obiettivo dello Shinui era quello di limitare il potere dei gruppi religiosi, ora la sfida risulterebbe più ardua. Shinui sarebbe nelle migliori condizioni per cercare di ottenere significative riforme coerenti col proprio programma elettorale. Se dovesse farcela potrebbe riuscire a mantenere i consensi alle prossime elezioni e si candiderebbe a essere il nuovo ago della bilancia della politica israeliana. Shinui otterrebbe il ruolo che è stato per tanti anni proprio dei religiosi. "Se anche tutto ciò non dovesse succedere, il segnale c’è: è possibile governare Israele senza i partiti confessionali. La direzione è segnata", conclude Duek. "Per aiutare Sharon, Peres vuole la testa di Bibi", dal RIFORMISTA: Quella che fino a poco tempo fa era solo una possibilità remota sta cominciando a diventare una possibilità concreta. Criticatissimo da destra per il suo piano di disimpegno unilaterale dalla Striscia di Gaza, il premier israeliano Ariel Sharon potrebbe andare a cercare la sopravvivenza del suo governo tra le braccia dei laburisti. Questi ultimi, del resto, hanno già detto in modo chiarissimo che pur di consentire al piano di ritiro di andare avanti sono pronti ad andare in soccorso all'avversario di sempre. La dimostrazione la si è avuta ieri. Alla Knesset Sharon ha dovuto affrontare due distinte mozioni di sfiducia: una proposta dallo Shas, il partito degli ebrei immigrati dai paesi arabi, riguardava la politica economica; l'altra, proposta dalla sinistra di Meretz e Yachad, riguardava la costruzione della controversa barriera di separazione dalla Cisgiordania attorno all'insediamento di Ariel. Ebbene, nella prima votazione il Labour ha lasciato ai propri deputati libertà di coscienza, cioè libertà di votare contro il governo (e vedremo poi perché); mentre nella seconda il gruppo - che almeno in teoria è favorevole alla costruzione della barriera ma con forti riserve sul suo attuale percorso - si è astenuto in blocco, dopo aver stabilito che avrebbe garantito una rete di protezione al governo per evitare che cadesse sulle questioni di sicurezza. Il motivo del voto disgiunto è fortemente legato al prezzo politico che il Labour ha posto per aiutare Sharon: il ministero del Tesoro. Negli ultimi giorni, infatti, il vecchio leader laburista Shimon Peres ha attaccato frontalmente la politica economica del governo, definendola una forma di «capitalismo suino». L'opposizione laburista alla politica di lacrime e sangue del governo (che sta provocando una crisi sociale senza precedenti nel paese) non sono certo nuove. Ma la violenza dell'attacco e il desiderio di ottenere il Tesoro sono legati anche al fatto che il titolare del ministero sia Bibi Netanyahu, principale avversario di Sharon all'interno del Likud e grande oppositore del piano di ritiro da Gaza. I giochi sono ancora tutti da fare, e che nell'immediato futuro si assista a un cambio di maggioranza è ancora tutto da dimostrare. Ma le manovre sono partite, anche perché Sharon non sembra più in grado di fermare la macchina del ritiro, che sta suscitando moltissimo interesse anche all'estero, e sembra quindi destinato a perdere l'appoggio di alcune formazioni religiose e della destra che attualmente sostengono la coalizione. Attorno al piano Gaza, partito malissimo con la sconfitta rimediata da Sharon nel referendum interno al suo partito, di colpo si è rimesso in moto un lavorio diplomatico come non lo si vedeva da tempo. L'Egitto, attraverso il suo attivissimo capo della sicurezza Omar Suleiman, sta elaborando un piano, che intende concordare con Arafat, per la gestione della sicurezza nella Striscia dopo il ritiro israeliano, previsto per l'autunno del 2005. E lo stesso Arafat, all'improvviso, ha cominciato a mandare segnali distensivi, culminati nell'intervista al quotidiano israeliano Haaretz in cui si impegna ad accettare l'ebraicità di Israele (ossia, in sostanza, a cedere sul diritto al ritorno dei profughi del '48). L'iniziativa del Cairo, oltretutto, sta cominciando a mietere consensi anche all'estero. Proprio ieri, al termine di un incontro col collega egiziano Ahmed Maher, il ministro degli Esteri francese Michel Barnier ha garantito il pieno appoggio di Parigi al piano di Suleiman. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio e del Riformista. 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