Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Israele si ritira da Rafah e si interroga sui limiti della forza
Testata:La Stampa - Corriere della Sera Autore: Fiamma Nirenstein - Ernesto Galli della Loggia Titolo: «Dopo Rafah»
All'indomani della fine delle operazioni nella striscia di Gaza, Israele e il mondo democratico si interrogano sui limiti dell'uso della forza. A questo proposito pubblichiamo l'articolo di Fiamma Nirenstein apparso su La Stampa di oggi e la riflessione di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera.
Dalla Stampa: "Gli israeliani lasciano le macerie di Rafah" di Fiamma Nirenstein GERUSALEMME Ieri i carri armati hanno cominciato, contro ogni aspettativa, a rollare via da Rafah, sulla sabbia bianca la gente ha cominciato a respirare sia pure a fatica, ha seppellito i morti e ha guardato a occhi spalancati il disastro dello scontro; i soldati israeliani hanno preso la strada, talvolta dopo anni, verso la casa, la famiglia, la vita normale. «Grazie a Dio andiamo a casa - ha detto un soldato dalla torretta aperta di un tank - Ma alcuni miei compagni, restano qui per sempre». Il tributo di vite è stato alto, ma ancora di più sono i morti palestinesi. Fra le dune bianche della via di Filadelfia, dove si cammina solo fuori della strade perchè i tracciati sono pieni di mine palestinesi, inseguono i soldati israeliani le grida di dolore della popolazione palestinese che in quella zona ha sofferto oltre misura. Si capirà ora cos’è stato questo scontro senza quartiere, in cui i terroristi hanno sparato senza pietà, gli israeliani li hanno inseguito giorno e notte uccidendoli e ferendoli, ma anche toccando, sia pure senza intenzione, la popolazione civile. Si capirà quante case sono state distrutte, e anche, ben presto, se le gallerie per il contrabbando dall’Egitto delle armi (l’esercito ne vanta 90 chiuse per sempre) sono state neutralizzate e quindi se lo scopo della più dura fra tutte le azioni di questa guerra è stata raggiunta. Le decisioni sono state prese molto in fretta. E probabile che l’uscita veloce da Rafah; che la fretta di Sharon di sgomberare Gaza qualsiasi cosa ne dicano i suoi ministri e la sua base nel Likud;che l’intenzione di Israele (lo decidono in queste ore l’esercito e la procura generale dello Stato) di offrire ricompense per le case distrutte lungo la via di Filadelfia... siano non poco legate oltre che al biasimo internazionale, cui per altro Israele è abituato col bello e col cattivo tempo, a un fenomeno nuovo: il senso di sconforto senza precedenti che ha preso molta parte degli israeliani durante questa azione, alle sue immagini, alla distruzione delle case di Rafah, all’uccisione di tanti civili. Non si tratta della consueta opposizione politica, dei consueti obiettori o dei movimenti pacifisti: è un profondo senso di infelicità generale nel vedere scene tanto crudeli, quali che ne siano le ragioni e anche se hai ragione, a causa propria. E’ una società occidentale che non vuole piegarsi alla crudeltà della guerra; ed è proprio la fatalità di quello che accade che demoralizza. Giornalisti militari rotti a tutto, come Carmela Menashe, o giornalisti che seguono i palestinesi, come Shlomi Eldar, raccontano cose che non è facile a nessun israeliano ascoltare. Si parla di bambini uccisi, e anche se pare davvero che i due piccoli uccisi sul tetto sono stati uccisi nello scontro fra la popolazione e i terroristi che spingevano la gente allo scontro. Pure c’è stato qualche giorno fa un piccolo di tre anni ucciso. Non importa che i soldati non intendessero, che si scusino dicendo che la guerra è guerra... Anche le immagini di altri bambini che camminano sulle rovine delle loro case trascinando l’orsacchiotto o una fotografia, scolari che raccontano di non avere più libri ne vestiti, uomini che spiegano che tutto quello che avevano è rimasto là sotto, o gente che grida a altri rimasti dentro, mentre si avvicinano i bulldozer, di portare rapidamente all’aperto il nonno Shlomi Eldar ha insistito particolarmente sulle «decine di case» distrutte, il Capo di Stato maggiore Boogy Yaalon dice che sono tredici, e che gli edifici distrutti lungo la strada di Filadelfia, sono il risultato di tre anni e mezzo di lotta per bloccare le gallerie, «L’autostrada di armi pesanti» dei tunnel che passano sotto la strada di Filadelfia e entrano dall’Egitto; ha anche ricordato che molte di quelle case sono in realà puri muri tirati su per coprire le gallerie sotterranee, un grosso business e una impresa criminale in joint venture fra palestinesi hezbollah, egiziani, vari Paesi sponsor del terrore, contro la popolazione stessa che ha tentato più volte di fermare i signori delle armi. Nell’operazione, secondo l’esercito, sono morte 53 persone, di queste 47 erano armate. Solo quelle gallerie, secondo il governo israeliano sono la vera origine, il vero sostegno del conflitto, e finchè non spariscono, non ci sarà pace perchè il flusso di armi seguiterà a essere vitale per le organizzazione terroriste. E tuttavia questo non ha fermato il ministro Tommy Lapid, del partito laico Shinui, dal dichiarare alla riunione di gabinetto che di fronte a una immagine di donna palestinese china alla ricerca delle sue medicine fra le rovine, non ha potuto fare a meno di ricordare sua nonna: Lapid che è ungherese, è stato bersagliato dal sospetto, da lui respinto, che volesse alludere alla Shoah. Non finisce qui: il Presidente della Corte Suprema Aharon Barak ieri in un solenne discorso dalla casa del Presidente in cui veniva per la prima volta nominato un giudice arabo per la Corte,ha avvertito della necessità di condurre la guerra senza violare la legge. E' di Ernesto Galli della Loggia l'articolo pubblicato sul Corriere, in prima pagina: "Il prezzo delle macerie di Rafah",che riportiamo con una nostra annotazione. Non crediamo sia lecito il paragone tra quanto avviene a Gaza, dove è in atto una guerra contro il terrorismo, e le violenze compiute nel carcere di Abu Ghraib, prontamente denunciate e con la conseguente condanna dei colpevoli. A Gaza la continuità del terrore di Hamas a Baghdad un caso isolato. Paragonarli significa, a nostro avviso, cadere nella trappola che i pacifisti nostrani tendono quotidianamente e, purtroppo, sovente con risultati positivi. Ecco l'articolo: Può darsi che il massiccio abbattimento di abitazioni effettuato dall’esercito israeliano a Rafah, a sud di Gaza, serva realmente a interrompere ( ma per quanto tempo?) il flusso di armi ed esplosivi che dall’Egitto arrivano ai gruppi terroristici palestinesi. Personalmente ne dubito, ma comunque la risposta ce la darà il futuro immediato. Il presente già ci dice, però, che per questa azione Israele paga un prezzo assai alto. Il suo ammontare lo ha indicato con precisione Tommy Lapid, il ministro della Giustizia di Gerusalemme, quando ha definito « non ebraica » l’azione dei soldati d’Israele ( l’accusa mossagli di paragonarli perciò ai nazisti è pura deformazione propagandistica e non merita neppure un commento). È così. La cultura e i valori politici dell’Occidente — di cui l’ebraismo e Israele sono parte integrante — prevedono, infatti, che per essere legittimo l’uso della forza si pieghi al rispetto di alcune regole: in modo specialissimo quando essa viene applicata nei confronti di popolazioni civili. Il terrorismo lo sa e proprio perciò, mettendo in campo i metodi più sanguinari, esso cerca di spingere l’avversario a violare i suoi stessi principi, a rinunciare anch’egli a qualsiasi senso del limite, perdendo così alla fine la propria anima e ogni rispetto di sé. Quale maggiore vittoria può proporsi la barbarie dell’imbarbarimento di chi le si oppone? Anche perché in questo modo il terrorismo consegue lo straordinario risultato di spaccare irrimediabilmente la compagine dei suoi nemici, le società democratiche, accendendo al loro interno un conflitto devastante. Dalle case in macerie di Rafah come dalle cupe celle di Abu Ghraib si leva dunque per l’Occidente lo stesso monito: guai ai forti che credono solo nella forza; con l’illusione di affrettare la propria vittoria rendono questa solo più dubbia, forse addirittura impossibile. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla redazione de La Stampa e del Corriere della Sera. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.