Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Testata: Il Foglio Data: 28 novembre 2003 Pagina: 3 Autore: Emanuele Ottolenghi Titolo: «Due passi nell'oriente medio»
Sul Foglio di oggi Emanuele Ottolenghi pubblica una breve ma fondamentale saggio sui significati del terrorismo. Da leggere, meditare e diffondere. La nuova ondata di terrorismo apertasi con l’attacco a Riad, continuata con la strage di carabinieri a Nassiriyah e chiusasi con i due attentati a Istanbul richiede un urgente ripensamento delle strategie adottate per combattere il terrorismo. Per poter elaborare una strategia di lungo periodo che porti alla vittoria contro chi usa il terrore per perseguire i propri obiettivi politici occorre superare un equivoco di base e chiarire tre punti fondamentali sulla natura della minaccia terroristica. L’equivoco deriva dalla terminologia usata, che riflette una confusione di fondo da parte dell’opinione pubblica occidentale sulla natura del conflitto in corso, e di conseguenza sulla natura del nemico e sui mezzi necessari per sconfiggerlo. La frase "guerra al terrorismo" è uno slogan, senza dubbio evocativo e forse a tratti pure efficace, perché sottolinea come il metodo del terrore sia uno strumento inaccettabile, quale che sia la causa promossa da chi lo pratica. Ma l’accento sullo strumento rappresenta un problema, perché rischia di travisare le cause che spingono alcuni ad adottare il terrorismo come mezzo di lotta, preferendolo ad altri metodi. Il ricorso al metodo squalifica la causa che il terrorista sostiene di perseguire, perché riflette di fondo un rifiuto, da parte di chi pratica il terrorismo, del principio della ricerca di un compromesso politico attraverso il dialogo, o, quando il dialogo non fosse possibile, l’impegno a rispettare anche nel corso di un conflitto le regole internazionali di guerra che tutelano per quanto possibile i civili innocenti e creano una chiara distinzione tra combattenti e popolazioni inermi. Inutile farsi illusioni: il terrorismo palestinese, come quello di al Qaida o delle Farc colombiane non cerca di convincere il nemico a più miti consigli per negoziare un modus vivendi accettabile a entrambi. La scelta del terrorismo nasce dal rifiuto del compromesso e dalla negazione esistenziale della controparte e delle sue ragioni, non dal ricorso disperato alla violenza come conseguenza di una supposta intransigenza delle vittime del terrorismo. I meccanismi da sindrome di Stoccolma Il terrorismo palestinese è nato come rifiuto dell’esistenza di Israele e sabotaggio del processo di pace, non come reazione al suo fallimento. Al Qaida ha pianificato gli attacchi alle Torri gemelle – per non parlare degli attacchi in Kenya e Tanzania nel 1998 – non come reazione all’invasione dell’Iraq, al supposto unilateralismo di Bush e al sostegno americano di Sharon, ma quando l’America di Clinton era coinvolta come mai prima furono gli Stati Uniti a cercare un compromesso onorevole per la pace in Medio Oriente, in un clima di cooperazione multilaterale in nome di principi internazionali e una visione di pace globale. Il terrorismo in Afghanistan non rappresenta la lotta per la libertà del popolo afghano, ma il tentativo di privare quel popolo della libertà attraverso la restaurazione di un Ancien Régime reazionario e totalitario che ospitava il terrorismo e lo alimentava ben prima che arrivassero gli americani. Il terrorismo in Iraq non mira a restaurare un governo legittimo esautorato dal crudele invasore ma a riportare al potere un regime di terrore privando la regione e i suoi abitanti di speranze di libertà e benessere da troppo tempo represse. Non solo. Spera così facendo di indebolire l’America, di sabotare i suoi tentativi di introdurre riforme nella regione, facendo crollare i suoi alleati e travolgendo l’attuale ordine regionale per sostituirlo con un sistema ancor più oppressivo di quanto finora sofferto dai popoli del Medio Oriente. In quanto strumento, il terrorismo non è un nemico, per quanto odioso, per il fatto che è un metodo, un’arma particolare adottata per raggiungere scopi che trascendono il mezzo utilizzato nel loro perseguimento. Il nemico è chi lo pratica, non il mezzo che adotta. Dichiarare guerra al terrorismo: sarebbe come se l’America avesse dichiarato guerra all’aviazione e alle portaerei dopo Pearl Harbor. Certo, di fronte agli attacchi aerei occorre sviluppare un buon sistema antiaereo, ma quando l’America entrò in guerra nel dicembre 1941, essa dichiarò guerra ai totalitarismi nazifascisti di Europa e Giappone, e la guerra fu uno scontro tra mondo libero e totalitarismo, non tra tecnologie e sistemi di difesa che erano semplici mezzi adottati per raggiungere uno scopo. Per analogia, occorre riconoscere due cose: primo, che il terrorismo è un mezzo di cui si arma il nemico, e secondo, che la scelta del metodo terrorismo deriva da un rifiuto assoluto della possibilità di qualsiasi compromesso e convivenza – quindi chi pratica il terrore può soltanto essere sconfitto e annientato, non placato a suon di concessioni nell’illusione che il ricatto cesserà. Il terrorismo è l’arma di lotta, lo strumento del nemico, non il nemico.il Foglio un anno fa (22 ottobre 2002), che il terrorismo è una strategia il cui scopo non è sconfiggere il nemico in battaglia, ma – attraverso i ripetuti attacchi a bersagli inermi – distruggerne la volontà di combattere. Quindi, è estorsione mafiosa. Ogni orrore cerca di piegare la nostra determinazione a reagire e respingere il ricatto. Cerca di costringerci ad accettare le concessioni politiche che il terrorismo esige. Colpisce apposta l’innocente per creare la pericolosa impressione che la vittima debba in qualche modo essere responsabile. Utilizza quindi i meccanismi di manipolazione psicologica simili alla sindrome di Stoccolma sull’opinione pubblica. I sensi di colpa occidentali generati dalla strategia del terrore indeboliscono la nostra determinazione a reagire, a rispondere, e a combattere. Riconoscere anche soltanto un grammo di ragione ai terroristi, dicevamo allora, significa pagare un pizzo morale. Il terrorismo è un mezzo, la cui scelta riflette una disposizione ideologica proiettata verso il rifiuto totale delle ragioni dell’avversario e motivato da un’ideologia che sopraffa l’istinto di sopravvivenza in nome di un ideale totalizzante. Per combattere con efficacia chi ricorre al terrorismo (e non soltanto il terrorismo in sé e per sé) l’imperativo principale è riconoscere tre elementi indispensabili per vincere la guerra: la strategia del nemico, gli obiettivi del nemico, la natura del nemico. La logica del conflitto asimmetrico Il nemico che l’Occidente oggi affronta globalmente, dai supermercati di Gerusalemme alle stazioni di polizia di Nassiriyah e Fallujah, dalle sinagoghe di Istanbul alle cattedrali europee, dai distretti finanziari di New York e Londra alle stazioni ferroviarie di Milano e Parigi, dalle superpetroliere francesi al largo dello Yemen alle raffinerie di Tel Aviv è un nemico che ha consapevolmente adottato la logica della guerra asimmetrica, altrimenti definita come guerra di quarta generazione. Secondo il sito Internet del Defense and National Interest (www.d-n-i.net), "la guerra di quarta generazione comprende tutte le forme di conflitto dove la controparte si rifiuta di combattere secondo le regole". La differenza tra la guerra di quarta generazione e altri tipi di conflitto è che "almeno una delle parti nel conflitto consiste in qualcosa di diverso da una forza militare organizzata e operante sotto il controllo di un governo nazionale, e che di solito trascende i confini nazionali". Ma mentre queste definizioni possono applicarsi comodamente a milizie indipendentiste in lotta contro i governi centrali, à la Vietcong per esempio, esiste un’altra importante definizione che caratterizza i nuovi tipi di conflitto, di cui il terrorismo rappresenta la manifestazione attualmente più ovvia: "La distinzione tra guerra e pace verrà erosa a tal punto da svanire. Il conflitto sarà non lineare, a tal punto da non avere definibili campi di battaglia o fronti. La distinzione tra civile e militare potrebbe sparire". Questo è il salto di qualità del terrorismo. Il fronte è il supermercato, il cinema sotto casa, la stazione della metropolitana da cui prendo il treno per andare a lavorare. Il nemico non è il soldato in divisa di un esercito straniero che mi invade o si difende dal mio attacco, ma il sorridente signore che siede di fronte a me sul treno che dovrebbe portarmi al lavoro e che lui, imbottito di Semtex sotto il giaccone da pioggia, si appresta a far saltare in aria. La guerra non è solo a Baghdad, le vittime non cadono solo a Nassiriyah. Presto saranno a Roma, Londra, Berlino, Parigi. Istanbul è soltanto una tappa del viaggio di morte che ci tiene nel mirino da anni ormai. Che non sia successo ancora lo dobbiamo alla loro fragilità operativa seguita alla reazione americana dopo l’11 settembre, e all’efficacia dei nostri servizi segreti. Il che non esclude che prima o poi ci tocchi. Le nuove regole indispensabili La natura del metodo scelto dal nemico ci impone dunque un ripensamento delleregole e delle strategie di lotta: come già scritto sul Foglio (1 marzo 2003), la normativa internazionale vigente presuppone quelle distinzioni che i terroristi volutamente ignorano. I limiti autoimposti che mirano a tutelare i civili e a concentrare per quanto possibile i conflitti a contesti tra eserciti diventano debolezze e impedimenti nella guerra sporca scatenataci contro con metodi non convenzionali che evitano volutamente lo scontro tra eserciti e mirano invece a sconfiggere il nemico colpendone il fianco più debole ed esposto (obiettivi civili), distruggendone la volontà di combattere, agendo sull’opinione pubblica per erodere il consenso politico, e costringendo infine il nemico a desistere e capitolare. Il terrorismo vince, attacco dopo attacco – come già scritto sul Nuovo.it (13 Maggio 2002) – "non perché ha la forza militare e politica di imporre la propria visione del mondo o i propri interessi. Bensì perché ci logora, bomba dopo bomba, virus dopo virus. Spesso senza prendersi la responsabilità ufficialmente, ma lasciando la società colpita non soltanto nel dolore, ma persino nel dubbio di chi sia il mandante e quali siano i motivi". I tempi non erano maturi allora. Scrivevamo che "il kamikaze non è dunque l’attentatore suicida, ma un’arma tattica, un pilota automatico che guida l’arma vera e propria (l’esplosivo nella borsa o in cintura, l’autobomba, l’autobus imbottito di tritolo, l’aereo commerciale) contro l’obiettivo. Il terrorista suicida è la bomba intelligente dei poveri". Quanto scrivevamo allora incontrò indifferenza o derisione: veniva visto come delirio lunatico di estremismo che mal comprendeva "le ragioni dei terroristi". Non era necessario il sacrificio dei nostri soldati a Nassiriyah per capirlo, ma forse oggi i tempi sono maturi per rivedere la posizione europea (gli americani lo hanno capito l’11 settembre) sulla questione terrorismo. Ed è triste constatare come soltanto il tributo di sangue che ci tocca da vicino ci abbia costretti a vedere quanto era ovvio da tempo ma che nessuno, per amor di quieto vivere, si illudeva che non ci avrebbe sfiorato. Comprendere dunque la logica del terrorismo è il primo passo indispensabileper elaborare una risposta efficace: la guerra di quarta generazione si basa sulle dottrine maoiste dell’insurrezione civile e della guerriglia. Toccata e fuga, lunghe snervanti campagne atte non a distruggere il nemico, ma a demoralizzarlo. Atte non a sconfiggere il nemico sul campo, ma a privarlo del desiderio di combattere. Atte a neutralizzare la superiorità tecnologica, militare, economica del nemico, rivoltandogliele contro. Ad esempio attraverso l’uso spregiudicato ma efficace che il terrorismo sta facendo dei mass media occidentali, dove è riuscito a presentare se stesso come un paladino dei deboli e lo strumento di lotta contro l’ingiustizia imperialista e globalizzatrice, invece che quello che è veramente, cioè lo strumento di un’ideologia totalizzante, oppressiva, antimoderna e assassina. Sottesa al metodo esiste una visione del mondo, che chiarisce quali siano gli obiettivi dei terroristi. In un recente articolo apparso su un sito internet legato ad al Qaida (citato su www.d-n-i.net), l’autore sostiene che "è giunto il momento per i movimenti islamici che confrontano un’offensiva generale crociata di interiorizzare le regole della guerra di quarta generazione". Non lo diciamo noi un po’ fantasiosamente che questa è la strategia adottata dal nemico, lo dice il nemico stesso. Il che mette a nudo il secondo e cruciale elemento nella lotta al terrorismo. Da due anni a questa parte troppi, politici e intellettuali, giornalisti e commentatori, accademici e opinionisti, presumono di sapere quali siano gli scopi, le aspirazioni, le motivazioni e gli argomenti dei terroristi, senza darsi pena di ascoltare quello che essi invece dicono candidamente e apertamente. Non si può sconfiggere il nemico se non lo si conosce. L’Occidente oggi non conosce bene chi lo attacca. Farebbe bene a studiarlo, a capire come pensa, che cosa vuole e come cerca di ottenerlo. Lo scontro di civiltà Scoprirebbe allora che la causa palestinese è marginale all’ideologia che motiva i terroristi e che i riferimenti alla Palestina sono diventati centrali ai comunicati di Osama bin Laden soltanto dopo l’11 settembre e che anche quando se ne parla laPalestina appare a pari merito con la Cecenia, l’Iraq e il Kashmir, non come causa simbolo ma come uno dei tanti fattori di scontento. Bin Laden, o chi per lui, ha ben compreso come l’uso della carta palestinese avrebbe aperto una breccia a suo favore in Occidente, seminando dubbi e scompiglio e facendo leva sulle simpatie filopalestinesi nei media occidentali per indebolire la capacità di reazione occidentale. L’Occidente ha fatto di tutto per ricusare la tesi di Samuel Huntington sullo scontro di civiltà, sostenendo giustamente che l’Islam è una religione di pace e sottolineando che la guerra in corso non è una guerra dell’Occidente contro l’Islam. Ma questa affermazione d’intenti non può ignorare come al Qaida creda invece che sia in atto uno scontro di civiltà (o comunque che sperava di scatenarlo), che l’obiettivo principale di bin Laden e dei suoi seguaci è di cacciare la modernità dal mondo islamico per imporvi una visione medievale, antimoderna e totalizzante dell’Islam, prima di lanciare, in un futuro non definito, una guerra santa di conversione contro l’Occidente. A un Huntington vilipeso e sconfessato in Occidente si contrappone un Huntington citato frequentemente con deferenza su siti islamici come profeta del corrente scontro in atto. A una distinzione tra Francia e America fatta con insistenza forse persino un po’ strumentale in Occidente (nella speranza che il terrorismo non colpisca quei paesi come la Francia che si dissociano dagli Stati Uniti) si contrappone una guerra indifferenziata contro "l’offensiva crociata", dove i francesi massacrati a Karachi e la superpetroliera francese colpita al largo dello Yemen sono obiettivi "cristiani" e "infedeli", dove la nazionalità e le politiche del governo contano ormai poco, dove non si fanno sottigliezze e distinguo tra nemici, neutrali, amici o semplici conoscenti. Non è Bush che ha scatenato improvvidamente uno scontro di civiltà, è bin Laden che vede il mondo attraverso la lente manichea dello scontro alla fine dei tempi tra il Bene e il Male, tra la Luce e l’Oscurità, tra la volontà di Dio e le forze di Satana. Un esercizio di umiltà intellettuale, centrato sulla volontà di ascoltare il nemico e capirne la logica, il modo di pensare, la mentalità e le motivazioni, aiuterebbe l’Occidente a scoprire che sottostante la tecnica dell’attentato suicida esiste un’ideologia del Jihad inteso come lotta violenta per l’eliminazione dell’apostasia dal mondo islamico, apostasia intesa come corruttrice influenza esterna che è la causa prima del declino dell’Islam. L’obiettivo in questo percorso è la rimozione della fonte di questa influenza nefasta (l’Occidente) e la sconfitta di chi questa influenza l’ha permessa (i regimi visti come non islamici del mondo arabo e i modernizzatori dell’Islam, sia nazionalisti laici sia liberali). Non a caso, dato frequentemente omesso dai mezzi d’informazione occidentali ostaggi del fascino romantico dei terroristi come "resistenti" e combattenti della libertà solo perché nemici dell’odiata America e degli ancor più odiati sionisti, le vittime principali del terrorismo di matrice islamica sono prima di tutto i musulmani. Il fondamentalismo islamico ha massacrato non soltanto milioni di cristiani e animisti in Sudan, ma anche centinaia di migliaia di musulmani in Algeria, Afghanistan, Libano e Iran. La maggioranza delle vittime della nuova ondata di attentati recenti – in Marocco, Arabia Saudita, Iraq e Turchia – è musulmana. La potente ideologia mobilizzatrice La comprensione degli obiettivi del nemico ne chiarirebbero anche la natura. Non movimento di diseredati, ma potente ideologia mobilizzatrice, che fa presa su problemi largamente endogeni delle società dove recluta accoliti per promuovere una specifica visione del mondo perseguita attraverso i mezzi del terrore. E’ questo l’ultimo tassello nella formulazione di una strategia vincente. Proprio perché strategia asimmetrica, il terrorismo trasforma la propria debolezza in forza, impedendo al suo nemico di dispiegare completamente la propria forzaindebolendone la motivazione a lottare, e privandolo del sostegno politico necessario a perseguire i suoi scopi. Proprio perché ideologia che offre una speranza di riscossa e una spiegazione normativa (se non addirittura teologica) allo stato di declino e corruzione delle società islamiche, il fondamentalismo islamico che utilizza il terrorismo può in ultima analisi soltanto essere neutralizzato nei suoi propositi genocidi nel breve periodo da una strategia esclusivamente militare, sia essa di prevenzione o di reazione. L’intelligence, l’intervento militare, l’attacco sistematico alle risorse economiche del terrorismo sono tutti passi necessari per la vittoria. Ma, per ricorrere alla terminologia classica della lotta alle insurrezioni e alla guerriglia, occorre nel lungo periodo prosciugare il mare nel quale nuota il pesce del terrorismo. I terroristi hanno adottato la teoria classica dell’insurrezione di Mao, basata sull’Arte della Guerra di Sun Tzu. Nella fase più debole, la lotta si svolge attraverso operazioni di toccata e fuga, atte a sfiancare e demoralizzare il nemico. Una volta conquistate solide basi territoriali e controllo delle risorse, la lotta può trasformarsi in forme più convenzionali. Elemento critico di questa strategia è il sostegno popolare. I terroristi da anni ormai mirano a far cadere i regimi che loro considerano come apostati (i corrotti sauditi ed egiziani, i laici turchi traditori del califfato) per impadronirsi di territorio e risorse. Godono di sostegno popolare che aumenta o diminuisce in relazione alle condizioni socio-economiche e politiche dei paesi interessati e all’esistenza di alternative politiche allo stato attuale delle cose. L’Occidente quindi non deve limitarsi a combattere il terrorismo con operazioni antiterroristiche, intelligence, rastrellamenti, congelamenti di conti, espulsioni e arresti di estremisti, ma deve anche adottare una strategia di lungo periodo tesa a offrire ai potenziali sostenitori del fondamentalismo islamico e della sua ideologia totalitaria un’alternativa politica che mostri come la modernità, la libertà politica, l’integrazione economica, la democrazia rappresentativa, il rispetto delle minoranze siano non solo possibili nelle terre dell’Islam, ma che in ultima analisi siano preferibili all’opzione totalitaria e antimoderna offerta oggi da Osama bin Laden e dai suoi seguaci. L’offerta di un’altra visione, libertaria Il fondamentalismo islamico ha adottato la strategia del terrore per distruggere lo status quo regionale in Medio Oriente, sostituendolo con un nuovo ordine islamico antioccidentale, antimoderno, fondato su una lettura radicale dell’Islam. Finché l’alternativa a bin Laden rimane la difesa a oltranza dello status quo fondato sulla monarchia saudita, la tirannia baathista, l’autoritarismo egiziano, la corruzione diffusa, la sperequazione sociale, la discriminazione delle donne e l’oppressione delle minoranze, bin Laden offre una speranza all’attuale, sconcertante, deprimente condizione umana e politica del Medio Oriente. La risposta dell’Occidente deve dunque farsi carico di offrire un’altra visione, ugualmente radicale e alternativa allo status quo, ma in chiave libertaria, democratica e moderna. Riconoscimento del metodo dunque, ma anche apprezzamento e comprensione della natura e degli obiettivi di chi ricorre al terrorismo sono indispensabili oggi all’Occidente se si vuole vincere la partita contro il terrore. Con due necessarie postille conclusive: innanzitutto si tratterà di una lunga lotta, che presenterà molti sacrifici e passi falsi, lutti e battute d’arresto. L’11 settembre è come l’assedio di Berlino e la bomba atomica sovietica nel 1949. Mancavano allora ancora quarant’anni alla sconfitta dell’ideologia comunista, avvenuta soltanto dopo una lunga guerra di posizione caratterizzata non solo da successi ma anche da sconfitte e passi falsi. Occorrono dunque pazienza e determinazione per accettare che la vittoria non verrà né domani né l’anno prossimo. Si tratta di uno scontro che ci accompagnerà per una, forse due generazioni. Secondo, se il nemico vincesse non farà distinzioni tra quei paesi che hanno scelto di schierarsi con gli Stati Uniti e quelli che sono rimasti ai margini a guardare. L’impossibilità di una terza via tra lo scendere in campo con gli Stati Uniti e il parteggiare per Saddam Hussein, bin Laden e gli altri sterminatori che con loro combattono non deriva da un atteggiamento apparentemente manicheo dell’Amministrazione Bush. Deriva dal manicheismo totalitario di bin Laden. Noi o loro, questa la sfida che rappresentano l’11 settembre, il terrorismo palestinese, la strage di Nassiriyah, e i massacri di Istanbul. Da troppo tempo ci siamo nascosti dietro false illusioni terziste. Ora occorre scegliere da che parte stiamo.
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