Un filmato recuperato dall’esercito israeliano durante le operazioni nella Striscia di Gaza mostra sei ostaggi israeliani mentre cercano di accendere le candele della festa di Hanukkah in un tunnel con scarso ossigeno. I sei ostaggi sono Hersh Goldberg-Polin, 23 anni, Eden Yerushalmi, 24 anni, Ori Danino, 25 anni, Alex Lobanov, 32 anni, Carmel Gat, 40 anni, e Almog Sarusi, 27 anni. Il filmato risale al dicembre 2023. Otto mesi dopo, il 29 agosto 2024, all’approssimarsi delle Forze di Difesa israeliane al tunnel sotto il quartiere di Tel Sultan, a Rafah (Striscia di Gaza meridionale), tutti e sei gli ostaggi furono assassinati con un colpo alla testa dai terroristi palestinesi.
Il dolore palestinese come arma retorica Commento di Daniele Scalise
Testata: Informazione Corretta Data: 27 dicembre 2025 Pagina: 1 Autore: Daniele Scalise Titolo: «Il dolore palestinese come arma retorica»
La grammatica delle paura/4: Il dolore palestinese come arma retorica Commento di Daniele Scalise
Daniele Scalise
Dolore reale, ma uso retorico: la sofferenza della popolazione di Gaza è diventata una potente arma di propaganda mediatica contro Israele
Non è il dolore, in sé, il problema. Il dolore è reale, ed è sempre reale quando ci sono civili coinvolti. Il problema è l’uso che se ne fa. Il modo in cui viene estratto dal contesto, isolato, amplificato, indirizzato. Il dolore palestinese, nel discorso mediatico occidentale, non viene raccontato: viene usato in modo del tutto spregiudicato, diventando uno strumento retorico, una leva emotiva e un acceleratore di paura.
Il meccanismo è piuttosto semplice. Ogni sofferenza palestinese viene presentata come conseguenza diretta e quasi esclusiva dell’azione israeliana. La catena causale si ferma lì. Prima non c’è nulla e dopo non serve guardare. Le responsabilità di Hamas, quando non vengono negate, vengono rese secondarie, nebulose, “contestuali”. Eppure Hamas costruisce deliberatamente la propria strategia militare sulla produzione di vittime civili, sull’uso di quartieri abitati come campo di battaglia, sulla trasformazione della popolazione in scudo e in messaggio. Non è un effetto collaterale: è una scelta.
Questo dato, centrale per capire cosa accade, viene sistematicamente rimosso. Perché incrina la narrazione più efficace: quella in cui il dolore diventa un’accusa morale immediata, senza passaggi intermedi, senza attrito. Il dolore, così confezionato, non chiede comprensione ma adesione. Non apre domande ma chiude discussioni.
E’ qui che entra in gioco la paura. Non la paura per i palestinesi, ma la paura negli occidentali. Paura di essere disumani, paura di essere complici, paura di stare “dalla parte sbagliata della storia”. La pietà diventa uno strumento di pressione morale: guardi queste immagini, senti queste storie, e se non trai la conclusione richiesta, sei colpevole. Non serve più spiegare Hamas, il suo progetto, la sua ideologia, la sua responsabilità diretta nella sofferenza che dice di rappresentare. E’ sufficiente mostrare il dolore e il resto verrà da sé.
In questo modo il conflitto smette di essere politico, militare, strategico, e diventa un tribunale emotivo permanente. Israele è l’imputato fisso; il dolore palestinese è la prova schiacciante; il contesto è irrilevante. È una grammatica precisa, ripetitiva, che funziona perché parla alle emozioni più immediate e disarma il pensiero critico.
Difendere la distinzione tra sofferenza reale e uso strumentale della sofferenza non significa negare il dolore palestinese. Significa rifiutare che venga usato per produrre paura, paralisi morale e ricatto emotivo. E significa ricordare che ogni dolore raccontato senza responsabilità, senza causa, senza contesto, non illumina ma semmai acceca. E di accecati ce ne stanno in giro molti. E spesso armati.