Un filmato recuperato dall’esercito israeliano durante le operazioni nella Striscia di Gaza mostra sei ostaggi israeliani mentre cercano di accendere le candele della festa di Hanukkah in un tunnel con scarso ossigeno. I sei ostaggi sono Hersh Goldberg-Polin, 23 anni, Eden Yerushalmi, 24 anni, Ori Danino, 25 anni, Alex Lobanov, 32 anni, Carmel Gat, 40 anni, e Almog Sarusi, 27 anni. Il filmato risale al dicembre 2023. Otto mesi dopo, il 29 agosto 2024, all’approssimarsi delle Forze di Difesa israeliane al tunnel sotto il quartiere di Tel Sultan, a Rafah (Striscia di Gaza meridionale), tutti e sei gli ostaggi furono assassinati con un colpo alla testa dai terroristi palestinesi.
Le grandi prospettive aperte dalla vittoria Analisi di Ugo Volli
Testata: Shalom Data: 21 dicembre 2025 Pagina: 1 Autore: Ugo Volli Titolo: «La settimana in Israele: le grandi prospettive aperte dalla vittoria»
Riprendiamo da SHALOM, l'analisi di Ugo Volli dal titolo "La settimana in Israele: le grandi prospettive aperte dalla vittoria".
Ugo Volli
Nonostante le difficoltà della tregua a Gaza e l'ondata di odio anti-ebraico in tutto il mondo, le prospettive aperte dopo la vittoria sono positive. Soprattutto commerciale: si sta aprendo la "via del cotone" che parte da Haifa, alternativa alla "via della seta" cinese.
Gaza
Ormai da settimane la situazione della guerra difensiva di Israele a Gaza sembra bloccata. Sono stati riportati a casa tutti i rapiti vivi e uccisi salvo uno: più di quel che Israele prevedeva, dato che, per evitare l’azione israeliana il loro luogo di prigionia o di sepoltura era noto solo a pochissimi terroristi, in buona parte eliminati in guerra. Dovrebbe così essersi conclusa la prima parte del Piano Trump e potrebbe in teoria iniziare la seconda, quella del disarmo completo dei terroristi con il conseguente ritiro israeliano e la consegna di Gaza a una forza internazionale. Solo che Hamas, in maniera sempre più chiara, rifiuta di cedere le armi, ha ripreso ad amministrare la metà scarsa della Striscia non presidiata dall’esercito israeliano, e cerca di riorganizzarsi anche militarmente. Al di là dei prevedibili appoggi diplomatici (Iran, naturalmente, ma soprattutto Turchia e Qatar) e delle rassicurazioni di Trump, che bada a non sprecare il prestigio del pacificatore e a mantenere buoni rapporti con le potenze musulmane della regione, le cause principali di questa resistenza dei terroristi così duramente sconfitti sul terreno sono due. Una è ideologico-religiosa: il disprezzo della vita (dei nemici, ma anche di se stessi, dei propri militanti, dei seguaci e del popolo che dicono di rappresentare) è connaturato da sempre al terrorismo islamista. Il loro modello sono gli attentatori suicidi che negli ultimi decenni a centinaia si sono fatti saltare in aria per colpire folle innocenti: perché loro invece ora dovrebbero arrendersi per salvarsi la vita? Dobbiamo dar loro atto che sono disposti a morire in nome del loro odio. L’altra causa è ancora più inquietante. Nonostante la sconfitta, i dolori immensi che le loro azioni hanno prodotto sul loro popolo, i terroristi godono ancora di un vastissimo appoggio, possono contare su complicità, reclute, fondi, consenso alle loro scelte. Le bande tribali anti-Hamas che sono sorte nei territori controllati da Israele non hanno finora modificato la situazione. Dunque le organizzazioni terroristiche restano fermo sulle loro posizioni, sperano che Trump faccia delle mosse che li possano favorire, come far entrare a Gaza i soldati qatarini o turchi (che sarebbe davvero un disastro strategico) e rifiutano di arrendersi. È probabile che prima o poi, Israele li debba di nuovo affrontare per risolvere la questione. Netanyahu e Trump ne parleranno fra una settimana, incontrandosi in Florida.
La guerra al popolo ebraico
Nel frattempo il centro dell’azione si è spostato su altri teatri, ben più vasti. Il primo minaccia purtroppo l’esistenza ebraica in tutto il mondo. Quando nelle manifestazioni filoterroristiche si è iniziato a gridare lo slogan “globalizzare l’intifada!”, pochi l’hanno preso alla lettera, e invece i progetti degli antisemiti vanno sempre presi sul serio. Perché il 7 ottobre non è stato un pogrom locale, ma l’innesto di una guerra (o la sua ripresa in grande stile). E questa guerra aveva sì come obiettivo primario Israele, ma aveva come obiettivo in realtà da sempre tutto il popolo ebraico (e in prospettiva a tutti gli “infedeli” occidentali). Lo si è visto nella strage di Bondi Beach, ma prima a Manchester e nelle cacce all’ebreo che si sono svolte fra New York e l’Olanda, la Francia e il Canada. I governi che cedono all’islamismo e al palestinismo con atti più o meno simbolici non mettono al sicuro i loro cittadini, ebrei o meno, ma anzi aumentano il rischio perché, premiandoli, incoraggiano i terroristi ad agire e i loro sostenitori a fare propaganda. È una guerra velleitaria, per quanto dolorosa; ma non se ne vede una prossima fine, soprattutto perché il suo contrasto è condotto quasi da tutti gli stati in maniera inadeguata senza individuare chiaramente i nemici, il che obbligherebbe i “progressisti” a distanziarsi dal feticcio della “accoglienza” e della “religione della pace”. Ma ancor più perché a molti livelli dei governi, delle magistrature, dei poteri locali, del giornalismo e della cultura prevale ormai un chiaro appoggio ideologico per coloro che sostengono il terrorismo e potrebbero presto esercitarlo. Ma ogni mossa del genere li isola. Bisogna aver fiducia nella democrazie e nel rifiuto sempre più energico che gli elettorati di tutto l’Occidente mostrano per queste posizioni.
L’industria israeliana
Un altro fronte, per fortuna questo estremamente positivo, sono i risultati economico-industriali di Israele, soprattutto ma non solo a livello regionale. Si è parlato nell’ultimo periodo del grandissimo contratto petrolifero con l’Egitto, dell’installazione del sistema antimissile israeliano Arrows 3 in Germania (nei giorni scorsi il contratto è stato raddoppiato, fini a 6 miliardi di euro), della fornitura di sistemi di difesa alla Grecia già installati ai confini marittimi con la Turchia (anche qui il contratto è stato rinnovato e ampliato); meno noto ma importantissimo è forse il contratto per la fornitura dei sistemi di combattimento e controllo aereo agli Emirati (2 miliardi). Vi sono molti altre forniture simili dichiarate (per esempio con India, Georgia, Cechia) mentre numerosi altri accordi restano segreti. Il risultato è una rete di forniture strategiche (militari, tecnologiche ed energetiche), che al di là delle dichiarazioni pubbliche (per esempio di “riconoscimento della Palestina” o di “condanna per le atrocità a Gaza”) indicano che i patti di Abramo e i rapporti con alcuni stati europei stanno trasformandosi in un’alleanza militare e tecnologica non dichiarata ma efficace e destinata a durare. Essi dunque portano a Israele quattro enormi vantaggi: (a) un ricavo finanziario che ha permesso di sostenere una guerra costosissima come quella degli ultimi anni senza danneggiare l’economia; (b) una dipendenza strategica dei paesi acquirenti dall’assistenza e dalla forniture di Israele, che ne assicura una posizione non ostile per molti anni; (c) l’opportunità per l’industria militare israeliana di superare il vincolo principale che Israele ha subito anche in questa guerra, cioè l’impossibilità di fabbricare a casa le armi necessarie alla difesa, perché il mercato israeliano è troppo piccolo per permetterne una costruzione economicamente sostenibile; (d) in prospettiva la ridefinizione dei rapporti con gli Usa da stato cliente e assistito a partner tecnologico dei progetti più avanzati.
La via del cotone
A questo quadro va aggiunto un altro progresso che per lo più si ignora. È la “via del cotone”, un collegamento intensivo che si sta aprendo dall’India all’Europa (e in prima linea per ragioni geopolitiche proprio all’Italia), trasportando i container in nave per l’Oceano Indiano, poi a terra per Emirati Arabia, Giordania e Israele (porto di Haifa), poi di nuovo in mare in direzione dell’Europa e dell’East Coast Usa. Nonostante il fallito tentativo di dirottamento della Francia attraverso Siria e Libano, la costruzione dell’asse commerciale è andata avanti anche durante la guerra. Una linea ferroviaria alta capienza/alta velocità è già in costruzione avanzata nel tratto arabo. Così si taglierà fuori la cinese “Via della Seta” e si trasferirà una parte consistente del traffico proveniente dall’Estremo Oriente, saltando le insidie del Mar Rosso (gli Houti) e le strettoie di Suez e risparmiando parecchio tempo e denaro, ma creando soprattutto una collaborazione economica e quindi politica fra India, Arabia, Israele, Europa e Usa. Come l’affermazione nel commercio delle armi avanzate, anche questa realizzazione è un risultato della vittoria israeliana nella guerra. È un quadro di grandi trasformazioni, che non bisogna farsi sfuggire guardando solo agli attentati e alle schermaglie diplomatiche.
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