Riprendiamo l'articolo di Giulio Meotti, dalla sua newsletter, dal titolo: "Trump ci ha scaricati. Ma noi ci siamo scaricati prima da soli".

Giulio Meotti
Mai sottovalutare la capacità degli europei di rimanere scioccati da Donald Trump.
Si legge nel nuovo documento della Strategia di sicurezza nazionale, 33 pagine drammatiche a firma del presidente e pubblicate senza annunci sul sito della Casa Bianca:
“Il declino economico è eclissato dalla prospettiva reale e più cruda della cancellazione della civiltà. I problemi più ampi che l’Europa deve affrontare includono le attività dell’Unione Europea e di altri organismi transnazionali che minano la libertà e la sovranità politica, le politiche migratorie che stanno trasformando il continente e creando conflitti, la censura della libertà di parola e la repressione dell’opposizione politica, il crollo dei tassi di natalità e la perdita di identità nazionali e di fiducia in se stessi. Se le tendenze attuali dovessero continuare, il continente sarà irriconoscibile tra 20 anni o meno. Pertanto, non è affatto scontato che alcuni paesi europei avranno un’economia e una forza militare sufficientemente forti da rimanere alleati affidabili. Molte di queste nazioni stanno raddoppiando il loro impegno sul percorso attuale. Vogliamo che l’Europa rimanga europea, che riacquisti la sua autostima di civiltà”.
Ed è panico nelle redazioni dei quotidiani italiani e delle cancellerie: “Trump scarica l’Europa”. Nessuno sembra più pensare e chiedersi se l’Europa abbia già scaricato se stessa.
“Il mondo trumpiano crede che l’Europa abbia tradito l’Occidente”, titola l’Economist. Come dargli torto?
Solo dopo la Seconda Guerra Mondiale (durante la quale intervennero soltanto dopo che i giapponesi colpirono Pearl Harbour) gli americani iniziarono a interessarsi all’Europa e lo fecero per tre ragioni:
L’Europa occidentale era un baluardo contro il comunismo sovietico.
L’Europa era un partner commerciale chiave.
Molti americani iniziarono ad apprezzare i loro legami ancestrali con l’Europa.
La prima di queste ragioni nella mente degli americani è scomparsa nel 1991 e la Russia non è un competitor simile alla vecchia Unione Sovietica.
L’Europa è ancora un importante partner commerciale, ma la sua economia è franata.
Per quanto riguarda i legami di civiltà, questo è il motivo per cui Trump e il suo movimento si sono schierati così duramente contro l’Europa.
Un continente un tempo culla della civiltà occidentale, ora ridotto a un circo di burocrati woke, immigrati clandestini e leader che piangono per il clima mentre le dittature se la ridono sotto i baffi. La Casa Bianca, con il suo nuovo documento sulla strategia di sicurezza nazionale, ci tratta come un bersaglio facile.
Dalla parità economica con gli Stati Uniti di 10-15 anni fa, ora l’Europa si sta deindustrializzando rapidamente. Ha perso la concorrenza delle grandi aziende tecnologiche. I suoi sistemi di welfare, la burocrazia, la corruzione e il protezionismo indeboliscono e soffocano le sue prospettive di crescita. Le sue politiche di immigrazione e la repressione della libertà di parola non fanno che garantire ulteriore disfunzione sociale e politica.
Il documento della Casa Bianca è stato scritto da Michael Anton, pensatore eclettico la cui formazione è profondamente influenzata dal pensiero di Leo Strauss e del suo allievo Harry V. Jaffa, figure cardine dell’ideologia conservatrice statunitense.
L’Europa sta diventando l’anello debole dell’Occidente? E Washington lo sta dicendo a gran voce?
Io temo che l’Europa non sia neanche più l’anello debole dell’Occidente, ma l’anello che si è lasciato rosicchiare dall’interno fino a ridursi a una catena ornamentale da appendere al collo di potenze più giovani e meno stanche.
Quell’anello lo siamo diventati da quando un Papa ha definito l’Occidente “fili spinati e schiavitù”, da quando l’Europa abbracciando il multiculturalismo come disse il rabbino Sacks ha “trasformato le nostre società in alberghi”, da quando Angela Merkel decise che l’Europa poteva fare a meno delle frontiere esterne, da quando l’Unione Europea ha scelto di investire miliardi di euro nella promozione dell’Islam e da quando università come La Sapienza stabilirono che era meglio stringere patti con gli ayatollah iraniani che far parlare Ratzinger e così via.
E abbiamo fatto tutto da soli, senza bisogno di Trump.
La nuova strategia per la sicurezza nazionale del presidente degli Stati Uniti pone l’Europa al centro del futuro geopolitico americano. L’argomentazione è schietta. Se l’Europa continua a svuotarsi, l’Alleanza Atlantica non sarà abbastanza forte da bilanciare il potere della Cina e di nuove potenze egemoniche.
La diagnosi è sorprendente. La strategia inquadra la crisi europea tanto come culturale e demografica quanto come economica, mettendo in guardia dalla “cancellazione della civiltà” e prevedendo che il continente potrebbe diventare “irriconoscibile” entro pochi anni. I fattori scatenanti citati sono l’immigrazione di massa, il crollo dei tassi di natalità e un clima ideologico che impedisce un dibattito onesto.
Il guaio è che l’America non sta scaricando l’Europa: sta prendendo atto di un corpo in disfacimento che noi continuiamo a truccare da vivo.
Gli europei vedono ad esempio l’ascesa di Marine Le Pen e Nigel Farage come una cospirazione favorita da potenze straniere e da una perniciosa industria tecnologica americana. Continuano a puntare il dito e a urlare e continuano a perdere battaglie.
Nessuno che si chieda mai: perché l’ordine occidentale sta crollando? E perché noi europei ne siamo spettatori?
I numeri sono dalla parte della Casa Bianca. Le comunità islamiche d’Europa nello scenario di “alta immigrazione” secondo il Pew Forum.

Nel 2050, secondo il Pew Forum, i musulmani saranno almeno il 15 per cento della popolazione italiana. E qualche anno dopo fino a un quinto degli italiani, secondo l’agenzia europea Eurostat, avranno un background migratorio. Numeri che avranno un effetto dirompente in un “paese potenzialmente da 32 milioni”, come ha predetto l’ex presidente dell’Istat Giancarlo Blangiardo a proposito del nostro harakiri demografico entro due generazioni.
Sul documento della Casa Bianca interviene anche lo storico Niall Ferguson sulla Free Press: “‘Se le tendenze attuali dovessero continuare il continente sarà irriconoscibile tra 20 anni o meno’. Per quanto sgradevole possa trovarsi questa analisi, sarà difficile trovare prove del contrario. I miei amici britannici ed europei più informati lo sussurrano dolcemente: ‘Forse è vero’”.
Già, forse è vero.
La Casa Bianca sostiene che, se alcuni membri della Nato dovessero diventare società a maggioranza non europea, le loro priorità strategiche cambieranno insieme a tale cambiamento demografico, incluso un allontanamento da quelle americane.
Ricordo che JD Vance ha definito il Regno Unito “il primo stato islamista con armi nucleari”.
Immaginate Stoccolma, un tempo baluardo luterano di ordine e pulizia, trasformata in un suk mediorientale dove il velo e le barbe dettano legge sulle spiagge una volta popolate dalle bionde. O Parigi, erede di Voltaire e Robespierre, dove i sobborghi ribollono di un jihadismo low-cost che fa impallidire le crociate medievali.
Queste Francia e Svezia nella Nato sarebbero le stesse?
Abbiamo trasformato la Nato in una specie di Netflix della sicurezza: paghiamo l’abbonamento (poco e in ritardo), poi ci lamentiamo se il catalogo non ha i film che vogliamo.
Abbiamo lasciato che la nostra industria venisse divorata dalla Cina, la nostra energia dipendesse da un autocrate che gioca a Risiko con le valvole del gas e le nostre città si riempissero di persone che non hanno nessuna intenzione di diventare europee, ma solo di godere dei benefici che l’Europa regala a chiunque arrivi con una storia abbastanza triste e un avvocato abbastanza sveglio.
Roma ha più ministeri che divisioni corazzate e Bruxelles passa il tempo a discutere se il presepe sia inclusivo.
“Da 30 anni avverto i miei amici di sinistra sull’islamizzazione” ha detto il grande fumettista francese Enki Bilal, una leggenda del disegno. “Tra dieci anni non riconoscerete più l’Europa”.
Trumpiano anche lui?
Un giorno il vate del giornalismo francese, Jean Daniel, dice a François Mitterrand: “Presidente, il paese sta cambiando. Il campanile della tua locandina elettorale in poco tempo lo vedrai circondato da due minareti”.
Trumpiano anche il giornalista amico di Eugenio Scalfari?
L’Europa affronta lo “stark prospect of civilizational erasure” secondo la Casa Bianca.
Abbiamo smesso di fare figli, di investire in difesa, di credere in qualcosa che non fosse l’indicizzazione delle pensioni. Abbiamo sostituito la politica con il diritto, la sovranità con il regolamento, il coraggio con il processo. Abbiamo creato una civiltà che considera la natalità un problema ecologico, la virilità tossica, la nazione un relitto fascista e la guerra qualcosa che succede solo agli altri.
Anche gli americani sono rosi dall’interno dagli stessi guasti, ma senza il disfattismo europeo.
E se fossi stato la Commissione Europea qualche anno fa avrei scritto un documento simile a quello della Casa Bianca contro il wokismo provenire dagli Stati Uniti. Perché non lo hanno fatto? Perché in fondo la UE credeva nel woke?
“Stark prospect of civilizational erasure” non è un’iperbole da pulpito evangelico, ma una diagnosi spietata, radicata in dati demografici incontrovertibili e in una visione geopolitica che riecheggia i moniti di Oswald Spengler in Der Untergang des Abendlandes. L’Europa, continente culla di filosofi, imperi e rivoluzioni, si avvia verso un’eutanasia culturale autoimposta, con politiche migratorie che non integrano, ma sostituiscono.
Leggete il rapporto presentato all’Unione Europea da Florence Bergeaud-Blackler and Tommaso Virgili: l’islamismo conquista la UE dall’interno.
Il messaggio trumpiano è spietato e usa un linguaggio mai sentito prima da un presidente degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti possono anche collaborare con un’Europa svuotata, ma si rifiuteranno di sostenere un continente che si rifiuta di consolidare i propri confini, la propria industria e la propria autostima. Finché l’Europa insisterà a distruggersi, Washington la considererà meno un partner e più un peso.
Questa estate, il Dipartimento di Stato americano ha pubblicato un saggio in cui accusava l’Europa di aver condotto una “campagna aggressiva contro la stessa civiltà occidentale”. L’autore, Sam Samson, era un consigliere poco noto del Segretario di Stato Marco Rubio. Un saggio illuminante per capire la frattura fra America ed Europa:
“Lo stretto rapporto tra Stati Uniti ed Europa trascende la prossimità geografica e le politiche transazionali. Rappresenta un legame unico forgiato nella cultura comune, nella fede, nei legami familiari, nell’assistenza reciproca in tempi di conflitto e, soprattutto, in un patrimonio condiviso di civiltà occidentale. Questa tradizione affonda le sue radici in Atene e Roma, attraverso il cristianesimo medievale, fino al diritto comune inglese e, infine, nei documenti fondativi dell’America. Lungi dal rafforzare i principi democratici, l’Europa si è trasformata in un focolaio di censura digitale, migrazioni di massa, restrizioni alla libertà religiosa e numerosi altri attacchi all’autogoverno democratico. Su entrambe le sponde dell’Atlantico, dobbiamo preservare i beni della nostra cultura comune, assicurando che la civiltà occidentale rimanga una fonte di virtù, libertà e prosperità umana per le generazioni a venire”.
Qualche giorno fa, il Dipartimento di stato americano ha scritto che le migrazioni sono “una minaccia esistenziale alla civiltà occidentale”. Ha anche annunciato che alle ambasciate americane in Europa, Australia, Canada e Nuova Zelanda è stato chiesto di raccogliere dati su “crimini e violazioni dei diritti umani” commessi dagli immigrati, con particolare attenzione agli attacchi degli islamisti radicali contro cristiani ed ebrei.
Pensate a Carl Schmitt, il grande giurista redento, che in Der Nomos der Erde descriveva l’Europa come spazio ordinato da sovranità sovrane, non da un cosmopolitismo che dissolve le differenze in un’universalità anemica. La strategia trumpiana è schmittiana: prioritarizzare il politisches – amico/nemico – contro il multiculturalismo che finge di abolire le frontiere per poi imporle con la forza.
A febbraio, JD Vance, il vicepresidente americano, attaccò l’Europa in un discorso choc a Monaco di Baviera sull’immigrazione e la libertà di parola.
L’Europa viene presa di mira. Nella Washington di oggi, dell’Europa se ne parla spesso con più disprezzo che della Cina o della Russia. E già in un discorso a Varsavia nel 2017 Trump mise in guardia l’Europa dai nemici interni ed esterni.
E noi continuiamo a twittare #RefugeesWelcome mentre le nostre città bruciano.
In realtà, quando si tratta di influenzare le politiche migratorie, le prediche americane difficilmente possono competere con la pressione sempre più forti che i falliti politici europei subiscono dai loro stessi elettori.
Si potrebbe dire che l’America critica noi più di altri perché, a differenza dell’India o del Brasile o della Russia, noi dovremmo essere alleati, non parassiti.
Potremmo sospettare che proiettino l’”America First” come faro per un Vecchio Continente in coma demografico.
Potremmo immaginare che ritengano l’Unione Europea un ostacolo al vassallaggio americano?
Potremmo chiederci se l’America non stia cercando una scusa per lavarsi le mani della sicurezza europea.
Noi europei abbiamo costruito la nostra sicurezza su una frase non scritta: “Ci penseranno gli americani”. Ma se smettono di pensarci loro, noi siamo in grado di pensarci da soli? Ecco, io delle chiacchiere europeiste non so cosa farmene.
E c’è una frase in quel documento della Casa Bianca che continua a martellarmi in testa: “I giorni in cui gli Stati Uniti sostengono l’intero ordine mondiale come Atlante sono finiti”.
La cruda verità è che la spina dorsale politica delle relazioni transatlantiche che hanno dato sostanza all’”Occidente” per 80 anni si è spezzata. Stati Uniti ed Europa stanno ora prendendo strade separate. Questo è un evento terminale per lo status dell’Europa come uno dei grandi centri di potere e il punto finale del suo lungo arco di declino.
“Il mondo trumpiano crede che l’Europa abbia tradito l’Occidente”, titola l’Economist. Come dargli torto? Non è che pensano che non valga più la pena di investire energie in Europa per rianimarla?
Il diritto romano, la filosofia greca riletta da Tommaso d’Aquino, la scienza galileiana, il metodo sperimentale baconiano, la libertà individuale lockeana, la sinfonia beethoveniana, la cattedrale gotica, il romanzo moderno, l’università medievale, l’ospedale, il parlamento, la separazione dei poteri, la tolleranza religiosa conquistata col sangue delle guerre di religione. Tutto questo è nato qui. Qui e solo qui, in Europa.
E adesso? Adesso insegniamo ai bambini che quella storia è solo un lungo elenco di crimini: colonialismo, schiavismo, patriarcato, specismo. Le nostre università – quelle stesse che hanno inventato la ricerca libera – oggi sono laboratori di decostruzione dove si insegna che non esiste verità, che la ragione è uno strumento di oppressione bianca, che la bellezza è un costrutto sociale e che Beethoven va “decolonizzato”.

Lo disse il 13 maggio 2004 il cardinale Joseph Ratzinger in una lezione fondamentale sulla crisi dell’Occidente, intitolata “Il relativismo, il Cristianesimo e l’Occidente” presso la Pontificia Università Lateranense. Ecco le sue parole:
“C’è qui un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì in maniera lodevole di aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua propria storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro. L’Europa, per sopravvivere, ha bisogno di una nuova - certamente critica e umile - accettazione di se stessa, se essa vuole davvero sopravvivere. La multiculturalità, che viene continuamente e con passione incoraggiata e favorita, è talvolta soprattutto abbandono e rinnegamento di ciò che è proprio, fuga dalle cose proprie.
Le nostre città – Parigi, Londra, Roma, Vienna – sono oggi irriconoscibili. Non parlo solo di quartieri che sembrano Karachi o Mogadiscio. Parlo del fatto che la continuità fisica, architettonica e umana con il nostro passato si sta spezzando.
Tra vent’anni, in assenza di inversioni radicali, gli immigrati saranno maggioranza. Su questo Trump ha ragione e i suoi critici torto. Punto.
E molte élite europee – politiche, mediatiche, accademiche – sono complici attive di questo processo di autodistruzione. Hanno trasformato il più grande esperimento di civiltà della storia, l’Occidente, in un gigantesco esercizio di autoflagellazione collettiva.
“Civilizational erasure” non è una metafora: è la fine di Omero, Dante e Shakespeare sotto un velo di sharia soft. L’Europa, come la conosciamo, è già uscita dal tavolo dei grandi. Sta solo aspettando che qualcuno spenga le luci.
Trump, il clown arancione, diventa così la nemesi reazionaria che l’Europa non ha il coraggio di eleggere in attesa che l’ultimo europeo autoctono muoia di vecchiaia o di noia, circondato da badanti rumene, moschee turche e pannelli solari cinesi e che parla ancora di diritti umani mentre firma la propria capitolazione in quattordici lingue diverse.
Bryan Ward-Perkins ne La caduta di Roma e la fine della civiltà scrive: “Nel profondo della psiche occidentale alberga l’ansia che, se l’antica Roma è potuta cadere, allora lo stesso può accadere anche alla più orgogliosa delle civiltà moderne”.
L’Europa attuale è come la Roma del V secolo: ancora formalmente imperiale, ancora piena di leggi e aquedotti e retorica, ma senza più la volontà di combattere per se stessa. I barbari non hanno bisogno di sfondare le porte: trovano già le chiavi sotto lo zerbino.
Il tempo lo dirà se la profezia era autentica, ma il tempo sta per scadere. Ecco perché ogni scossa all’Europa è benvenuta. Ci costringe a fare i conti con la storia.
Quando la Casa Bianca parla di “coltivare la resistenza” in Europa, non sta parlando di golpe o di regimi autoritari, ma che l’Europa ha il diritto di rimanere se stessa. Che Atene, Roma e Gerusalemme non sono negoziabili. Che una civiltà non è un software aggiornabile, ma una pianta che o la innaffi o muore.
Ma a meno di non volersi trasferire nell’Ohio o in Virginia, noi europei come ne usciamo da questo caos? Con i tweet di Trump e le direttive del Dipartimento di stato ci facciamo poco. E oltre un certo punto diventano persino fastidiosi.
Ma Trump non ci ha fregati. Ci siamo fregati da soli.
E solo quando saremo costretti a scegliere tra scomparire o ritrovare l’orgoglio di ciò che siamo – di ciò che siamo stati – forse allora qualcuno alzerà la testa.
Che i leader europei tremino di fronte al terremoto trumpiano: il tempo del fin de siècle della decadenza è finito; è iniziata l’era del Wiedererstehen, la restaurazione. E non sarà piacevole.
Alla fine di Casablanca c’è un dialogo tra Humphrey Bogart e Ingrid Bergman, con l’americano che dice: “Avremo sempre Parigi”.
Sicuri?
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