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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Informazione Corretta Rassegna Stampa
05.12.2025 La grammatica della paura: la minaccia inventata
Commento di Daniele Scalise

Testata: Informazione Corretta
Data: 05 dicembre 2025
Pagina: 1
Autore: Daniele Scalise
Titolo: «La grammatica della paura: la minaccia inventata»

La grammatica della paura: la minaccia inventata
Commento di Daniele Scalise


Daniele Scalise

Ogni volta che Hamas o Hezbollah attaccano Israele e l'IDF risponde, i media mostrano solo la risposta israeliana. In questo modo Israele passa per essere l'aggressore e la sua risposta militare viene commentata come "sproporzionata" rispetto all'offesa.

C’è un momento preciso in cui il racconto su Israele devia dal terreno dei fatti e prende la scorciatoia della paura: quando un gesto di autodifesa viene isolato, ingrandito, ripulito di tutto ciò che lo ha preceduto e trasformato in un atto di aggressione. È un’operazione visiva, prima ancora che logica, una sequenza che diventa colpa e un fotogramma che è trasformato in processo.

Come funziona? Facciamo un esempio: un razzo parte da Gaza, ma la telecamera arriva un secondo dopo, quando il sistema di difesa israeliano risponde. Quello che si vede è solo il contrattacco; quello che manca è l’innesco. L’aggressione sparisce, il pericolo si dissolve e la reazione prende tutto lo schermo. Il risultato è semplice: si teme chi risponde ma non si accusa di nulla chi ha attaccato. Siamo in presenza della forma più primitiva della distorsione perché se non mostri la causa, la conseguenza diventa un fenomeno creato da un mostro.

Questo schema torna in ogni ciclo di scontro. Non importa che Hamas o Hezbollah dichiarino apertamente di voler colpire civili israeliani, né che Israele annunci con ore di anticipo gli obiettivi militari per ridurre le vittime. Tutto ciò che non serve alla costruzione della paura viene omesso. E così la forza è sempre e soltanto israeliana; la vulnerabilità, mai. La paura si alimenta di questa amputazione del contesto: dove manca l’origine, il presente appare sempre sproporzionato, sempre eccessivo, sempre minaccioso.

C’è poi una seconda fase perfino più raffinata. Una volta isolata la reazione israeliana, la si inserisce in una cornice morale: Israele “esagera”, “non conosce limiti”, “risponde troppo”. La misura non è mai abbastanza misurata, qualunque azione diventa “oltre”, qualunque difesa un abuso. In questo modo lo Stato ebraico viene trasformato in un agente emotivo e non politico: un soggetto che non agisce, ma reagisce in modo incontrollato, incosciente, criminale. E tutto ciò genera paura.

È un meccanismo che attecchisce perfettamente in Europa, dove l’immaginario collettivo è cresciuto con l’idea della forza come problema e non come necessità. In questo immaginario, Israele finisce per rappresentare la forma estrema di ciò che si teme: la forza che non si può ignorare, perché è lì, visibile e tangibile. E allora bisogna deviarla, ridurla e convertirla in colpa. La minaccia viene inventata per rendere accettabile l’idea che Israele – e cioè il bersaglio dell’aggressione – sia la parte da contenere.

L’effetto politico è devastante. Trasforma l’autodifesa di uno Stato democratico in un sospetto permanente; delegittima la necessità di proteggere i propri cittadini; cancella la responsabilità di chi lancia razzi, compie massacri, prende ostaggi. Tutto si sposta sul piano della percezione: non importa chi ha iniziato, importa chi appare più forte. E il più forte, in Europa, è sempre quello che fa più paura (sempre che non si tratti di Paesi per i quali si conserva in cuore nostalgia e affetto, come per la Russia già comunista e ora nelle mani di un criminale a cui però si perdona di tutto, perché così si fa in famiglia).

Poi c’è la chiusura del cerchio: se Israele viene percepito come minaccia, ogni azione contro di lui diventa più comprensibile. La narrativa del pericolo legittima la delegittimazione. È il trucco più antico, che è quello di rendere sospetta la vittima per assolvere l’aggressore.

È qui che questo meccanismo va spezzato. Perché la paura non nasce da Israele ma da chi decide cosa mostrare e cosa tenere nascoso. E finché la minaccia verrà costruita nel montaggio e non nei fatti, chi guarda crederà che siano gli israeliani a far paura. Quando invece, a ben vedere, l’unica cosa che spaventa davvero è la verità che si prova a togliere di mezzo.


takinut3@gmail.com

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