Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Le parole che non diciamo più Commento di Daniele Scalise
Testata: Informazione Corretta Data: 28 novembre 2025 Pagina: 1 Autore: Daniele Scalise Titolo: «Le parole che non diciamo più»
Le parole che non diciamo più Commento di Daniele Scalise
Daniele Scalise
Le parole bandite: non si parla più di "antisemitismo", ma solo di "odio". Non si parla più di "terrorismo", ma solo di "violenza". Un linguaggio edulcorato per celare il vero pregiudizio degli intellettuali che vogliono evitare conflitti scomodi.
C’è un punto esatto in cui la prudenza smette di essere prudenza e diventa vigliaccheria linguistica. È il momento in cui iniziamo a espellere dal lessico le parole che disturbano, che feriscono, che obbligano a prendere posizione. E allora antisemitismo diventa “odio”, terrorismo si smussa in “violenza”, le vittime si dissolvono nella categoria anodina delle “persone”. Ogni rinominazione è un piccolo cedimento, un passo indietro, un arretramento della chiarezza: perché quando nomini la cosa per ciò che è, sei costretto ad assumertene il peso.
Il bravo, invece, non vuole pesi. Vuole restare al centro, sempre sorridente, sempre equidistante, sempre pronto a fare un passo di lato per non essere coinvolto. E allora si aggrappa alle parole neutre, i cuscinetti semantici, gli ammortizzatori della responsabilità. “Odio” al posto di antisemitismo, così non offendi nessuno; “violenza” al posto di terrorismo, così non devi dire chi colpisce e chi viene colpito; “persone” al posto di vittime, così non devi riconoscere un aggredito e un aggressore. Il linguaggio si appiattisce e, con esso, la coscienza.
Ma non è solo un tic comunicativo. È una strategia – a volte inconscia – per schierarsi senza sembrare schierati. Se eviti di usare antisemitismo, stai già ammiccando a chi preferisce non vedere. Se rifiuti la parola terrorismo, stai già offrendo copertura morale a chi lo pratica. Se cancelli le vittime, stai già distribuendo colpe in modo simmetrico, perché l’asimmetria fa paura: costringe a guardare la realtà.
Il bravo lo sa bene. Per questo addomestica la lingua. Per questo elimina, lima, leviga. Crede che cambiando le parole si possa cambiare anche la realtà, o almeno la percezione che gli altri hanno di lui. E in fondo è quella che gli importa: apparire pulito, moderato e soprattutto equilibrato. Una specie di amministratore delegato della propria reputazione.
Eppure, l’imbianchino del vocabolario resta tale, e cioè un imbianchino: uniforma le pareti, copre le crepe, fa sparire le macchie ma non le risolve. Ci sono parole che non possono essere sostituite senza perdere la verità che contengono. Antisemitismo chiama in causa una tradizione secolare di odio specifico, mirato, storicamente riconosciuto. Terrorismo ha un significato preciso: attacchi deliberati contro civili per ottenere un risultato politico. Le vittime sono vittime e non “persone” genericamente finite in mezzo al guado.
Rinominare significa già scegliere, e cioè scegliere di non vedere, di non dire e, ovviamente, di non rischiare. Ed è proprio qui che la postura del bravo raggiunge il suo apice perché neutralizzando le parole, neutralizza la realtà. Ma la realtà, prima o poi, si riprende il suo nome. E presenta il conto.
Perché le parole che non diciamo più non smettono di esistere. La cosa è più semplice, siamo noi che smettiamo di riconoscerle. E quando accade, il bravo si sente finalmente al sicuro. Peccato che sia proprio quel silenzioso scivolamento linguistico a farci scivolare anche nel resto. Lo sappiamo tutti che la disonestà comincia sempre da una parola non detta.