Riprendiamo l'articolo di Giulio Meotti, dalla sua newsletter, dal titolo: "Viviamo alle pendici dell’Etna e il vulcano sta per esplodere".

Giulio Meotti

Leggete e rileggete, meditate e rimeditate, diffondete e ridiffondete quanto dice l’ex capo dei servizi segreti francesi, Pierre Brochand (la potente Direction générale de la Sécurité extérieure).
Questa lunga intervista rilasciata a Le Figaro è il testo più impressionante, radicale e senza inutili mascheramenti che abbia letto finora da parte di un alto dirigente europeo della sicurezza. Brochand, che ha visto la caduta di Saigon nel 1975, dipinge la caduta della Francia (e per estensione in futuro anche la nostra). Un testo profondo, documentato, coraggioso e agghiacciante.
Tutto bene, Madame la Marquise, ripete invece il cretino collettivo, i giornalisti, i sociologi, i politici, i ricercatori agitprop, tutti questi araldi di un rousseauismo lacrimoso. Ma il popolo ha profondamente deluso la sinistra perché ha capito che no, non va tutto bene. E pazienza se la classe operaia non andrà più in paradiso.
Leggete e rileggete, meditate e rimeditate, diffondete e ridiffondete. Perché tutti gli indicatori lampeggiano in rosso. E l’eco della debacle è amplificata da una classe politica e mediatica naufraga che ripete fino alla nausea di avere una rotta.
Le Figaro Magazine. - Esattamente vent’anni fa, il 27 ottobre 2005, scoppiarono le prime grandi rivolte suburbane. Più che un’espressione passeggera di violenza, fu forse l’inizio di un lungo processo che ci condusse a una forma di “guerra civile”?
Pierre Brochand. - Col senno di poi, quanto accaduto vent’anni fa appare come una crudele rivelazione dello stato del paese. Dagli anni ‘80, si era delineato un panorama senza precedenti: rivolte etniche divampavano occasionalmente nelle aree urbane, sullo sfondo di criminalità, islamizzazione e separazione. L’ondata di ottobre, diffondendo il fuoco in diverse città, ha suonato un grande campanello d’allarme. Due terzi dei nostri connazionali hanno concluso che l’immigrazione doveva essere “fermata”. Chi deteneva il potere non li ha ascoltati. Di conseguenza, non è stato fatto nulla. Il che ci porta direttamente alle ansie odierne, riassunte dalla profezia della “guerra civile”. Dubito che si avvererà a breve termine.
Tuttavia, credo che le seguenti affermazioni siano vere:
– Se restiamo inerti, andremo incontro al peggio.
– Questo peggio sarà la regressione del nostro Paese in tutti i settori, a cominciare dalla sicurezza dei suoi abitanti e, più in generale, dalla loro felicità.
– L’epicentro sarà il crollo della fiducia sociale, pietra angolare dei popoli felici, la cui perdita sconvolge non solo le società “multietniche”, ma anche le fondamenta dello stato sociale.
– Non vedo altra causa di questi sconvolgimenti se non l’emergere di un’immigrazione di massa, con caratteristiche antagoniste alle nostre.


Moti di Francia (2005 e 2023)
Cosa la rende dubbioso sul termine “guerra civile”, nonostante sia utilizzato da molti leader politici?
Innanzitutto, le parole stesse. Come ho appena detto: per me, l’evento che genera futuri disordini può essere solo importato. In effetti, in una democrazia avanzata e pacifica, le controversie tra nativi non sembrano più in grado di far rivivere la Rivoluzione o la Comune. La parentesi della “questione sociale”, aperta nel 1848 e chiusa nel 1968, ha lasciato il posto a compromessi sulla spartizione di una torta comune, incentrati sulla nozione di potere d’acquisto. Allo stesso modo, i problemi sociali che ne sono seguiti non hanno mai dato luogo a sparatorie.
In parole povere, direi che tra i cittadini nativi la violenza politica e sociale non è più accettabile: per loro, la storia è finita, nel senso di Fukuyama. I loro dibattiti sono incanalati verso un inevitabile centrismo moralista. Pochi lo contestano: i black bloc hanno mostrato i loro limiti, l’estrema destra sfila con modestia. Il fallimento delle proteste dei “gilet gialli” ha confermato che nessun progetto incentrato sulla redistribuzione della torta potrebbe ribaltare la situazione.
Per lo stesso motivo, rifiuto i concetti di “decivilizzazione” e “barbarismo”, che tendono a mettere tutti sullo stesso piano. Dirò di più: è proprio il tema dell’immigrazione che, per effetto retroattivo, rischia di innescare le divisioni più gravi tra i nativi, tra “universalisti” (globalisti mercantilisti, umanisti sognatori, wokisti vigilanti) e “localisti” (patrioti ostinati, regionalisti risorgenti, comunitaristi tradizionali). Uno scisma che, peraltro, reintroduce nel gioco di guerra alcuni dei nostri estremisti, fautori di una mitica “convergenza delle lotte”, pronti a fungere da cavallo di Troia per le fazioni più militanti dell’immigrazione.
Inoltre, il fatto che i facinorosi del 2005, come i loro predecessori e successori, fossero prevalentemente cittadini francesi non cambia in alcun modo la diagnosi. I nostri immigrati sono arrivati con un pesante bagaglio culturale, religioso e storico, che non hanno abbandonato alla frontiera. Questo bagaglio era così pesante, infatti, che alcuni dei loro pronipoti continuano a portarlo.
Elenchiamoli ancora una volta, poiché da essi tutto deriva: origine dal Terzo Mondo, costumi comunitari, maggioranza musulmana, cultura dell’onore, passato colonizzato, demografia dinamica, elevata endogamia, basso livello culturale, minore produttività, coagulazione in isolati geografici e, soprattutto, quindi, aggravamento di queste disposizioni nel corso delle generazioni in un contesto globale di rivincita del Sud sul Nord. Da questo punto di vista, la distinzione tra guerre “civili” e “straniere” appare sfumata.
Ci troviamo, come minimo, in una situazione ibrida, che cancella fin dall’inizio la dimensione fratricida delle lotte tra Armagnacchi e Borgognoni, cattolici e protestanti, e in cui la geopolitica gioca un ruolo almeno pari a quello politico. Per questo preferisco parlare di scontro interno, vulnerabile alle interferenze esterne. In questo contesto, tuttavia, un ruolo speciale deve essere riservato ai territori d’oltremare, anch’essi eredi dell’era coloniale e dotati di una geografia distante e insulare: possiamo considerarli “laboratori” dove gli inizi dell’insurrezione hanno già messo i cittadini francesi gli uni contro gli altri, in base alla loro origine etnica.
Infine, una “vera” guerra civile è una lotta armata, all’interno della stessa comunità, tra parti organizzate che si contendono il controllo. In altre parole, la discesa brutale e totale di un intero paese nella violenza fisica concertata. Ripeto: questa visione sembra semplicistica. Perché innumerevoli ipotesi, più complesse e fuori dagli schemi, potrebbero essere verificate. Anche riflettendo attentamente sull’Impero Romano, nessun precedente può guidarci. Teniamo presente che nessuna società prima della nostra ha vissuto sotto il regno dell’individualismo di massa, una sorta di terra incognita, senza mappa né bussola.

Pierre Brochand
Se non ci stiamo dirigendo verso una “guerra civile”, dove stiamo andando?
La mia sensazione è questa: molto prima di arrivare a una battaglia mortale per la sovranità, continueremo a sprofondare nelle sabbie mobili. L’ondata migratoria, se persiste, produrrà una catena di degradazioni, sia latenti nella durata che esplosive nel momento. L’immigrazione attuale è un fenomeno sociale totale le cui onde d’urto si fanno sentire ovunque. Per semplificarle, rianimano le fratture non negoziabili – irrisolvibili con procedure – che credevamo fossero alle nostre spalle: discordia religiosa, inimicizia coloniale, flagello razziale, abisso culturale, alleanze nazionali incompatibili, a cui si aggiunge, per buona misura, l’inadeguatezza economica.
In breve, stiamo prendendo in pieno il boomerang di una Storia che altrove è tutt’altro che finita. Un processo sotterraneo, quindi, quando queste rotture, impercettibili di giorno in giorno, finiscono per emergere attraverso l’accumulazione. Scoppi esplosivi nascono quando, da queste trasformazioni, emergono contraddizioni che i meccanismi di assorbimento – un tempo efficaci con gli eurocristiani – non riescono più a superare. La violenza diventa allora l’unica soluzione.
Una violenza multiforme – delinquenziale, nichilista, metapolitica – inizialmente sporadica e dispersa, ma che assume una forma più agglutinante con l’aggravarsi delle rotture. In altre parole, in definitiva, un processo quasi vulcanico, che combina un magma sotterraneo, portatore di forti tendenze, con improvvise eruzioni, che si verificano con qualsiasi pretesto. È sottinteso che la scelta non è sempre tra la vita e la morte, ma anche tra un’esistenza degna di essere vissuta e altre che non lo sono. Altrimenti, che senso avrebbe?
Sono ben consapevole che, delineato in questo modo, questo futuro rimane nebuloso. Ciò non preclude l’apertura di un quadro di riflessione che, pur tentando di escludere la paranoia – compito a volte difficile – evidenzia una serie di possibilità.
Parla di un “quadro di riflessione”. Può definirlo meglio?
A mio avviso, dobbiamo iniziare prendendo coscienza del punto di arrivo inconfutabile: una Francia a maggioranza africana e musulmana, ben prima della fine di questo secolo. Uno sconvolgimento che sfido chiunque a sperare sia pacifico e benevolo. La logica ci porta a identificare innanzitutto gli attori di questa tragedia. Se crediamo al quadro attuale, il loro numero è illimitato, poiché ogni cosa è un caso di studio. Questo non è il mio approccio. La mia esperienza professionale mi porta a commettere il peccato di amalgamazione. I gruppi rimangono agenti storici determinanti, e lo diventano ancora di più quando riaffiorano i casus belli del passato. Per me, questi gruppi sono quattro.
Il più proattivo è costituito da “quelli che vengono da altrove”. Il criterio rilevante per l’analisi è l’acculturazione. In assenza di statistiche, mi atterrei all’intuizione. Di una popolazione che oggi rappresenta il 25-30 per cento dei residenti (su tre generazioni), gli “assimilati” rappresentano, a mio avviso, solo il 5-10 per cento; gli “integrati” rappresentano per il 30-40 per cento, e il resto fluttua tra la non adesione e l’odio in un contesto di welfare.
I giovani maschi rappresentano la punta di diamante. È attraverso quest’ultimo strato che gli usi e i costumi dei paesi d’origine, con i quali non abbiamo mai chiesto di convivere, rivivono nella sfera pubblica. Richiamo l’attenzione sul fatto che l’integrazione, “la speranza suprema e il pensiero supremo”, non è altro che un contratto a tempo determinato (rispetto della legge in cambio di un impiego, ognuno con la propria prospettiva): in tempi di cambiamento, chi si è integrato si orienterà naturalmente in questa direzione.
Restano “quelli di qui”, i “già qui”, a cui si aggiunge la frangia assimilata. Anche qui distinguerò tre sottogruppi. “Quelli in alto” costituiscono una minoranza intransigente, al riparo dalle metropoli, da cui diffondono l’ideologia del “lasciar perdere”, presunta apoteosi della “civiltà”. Queste metropoli coltivano anche rapporti pragmatici di complicità, almeno materiale, con “quelli d’altrove”, radunati nelle vicinanze.
“Quelli in basso” (dal 65 al 70 per cento del totale) non condividono la stessa visione: costantemente sottoposti a scontri di “civiltà” (minuscole, plurali) le cui pratiche sono antitetiche alle loro, non accettano più questa situazione e cercano di farlo sapere educatamente, senza successo. Ciononostante, sia il vertice che il basso si uniscono per rifiutare l’autodifesa e si stringono dietro un quarto agente: la polizia, l’unico gruppo armato autorizzato sul territorio francese.
Questo monopolio della violenza è, tuttavia, soggetto a rigidi vincoli. In primo luogo, di bilancio: l’efficacia di questi “guardiani della pace” è condizionata dalle dimensioni del loro personale, il che pone il problema cruciale della loro saturazione in caso di crisi. Restrizioni giuridiche, soprattutto, sotto forma di Stato di diritto, pietra angolare della “società degli individui”: sotto questo regime, lo Stato nazionale sovrano, in precedenza modello predominante, è ormai solo l’ombra di se stesso. In un certo senso, è persino un avversario da disarmare, perché minaccia, con la sua autorità residua, i diritti fondamentali di tutti, compresi gli stranieri e i criminali.
L’immigrazione non cade dal cielo. È anche la conseguenza del cambio di paradigma avvenuto negli anni ‘70, quando siamo passati dall’autodeterminazione dei popoli, delimitata dai confini, a quella degli individui, liberi di muoversi su scala globale. Una rivoluzione che, con un unico slancio, ha dato il via libera agli esodi di massa e ha impedito alle autorità pubbliche dei paesi di destinazione di ostacolarli.
Tuttavia, la sopravvivenza di un tessuto sociale fragile come il nostro è appesa a un unico filo: quello della perfetta omogeneità culturale, attorno a un unanime “neocristianesimo pagano”, l’unico capace di interiorizzare l’ingiunzione a vivere insieme. Nessuno negherà che i nuovi arrivati non abbiano affatto – per niente – seguito questo percorso storico, che ci ha condotto all’esaurimento dell’inimicizia. Da qui la quadratura del cerchio: una società che si dichiara aperta ma che può perpetuarsi solo chiudendosi a chi non condivide la sua esterofilia.
Se continuiamo ad esplorare il suo quadro di riflessione tra questi attori, quali sono i principali parametri degli sviluppi futuri?
Quello che mi stai chiedendo è come evolverà l’equilibrio di potere. Se torniamo alla metafora di un fiume sotterraneo incandescente, la domanda diventa: quali sono gli elementi che lo accelerano e quelli che lo rallentano?
L’acceleratore decisivo è, ovviamente, la demografia, l’indicatore più affidabile dei tempi futuri. Non lo ripeteremo mai abbastanza: ci stiamo muovendo verso un’inversione della maggioranza, etnica e religiosa, nel nostro Paese. Questo andirivieni incontrollabile tende a una crescita esponenziale: si nutre dei diritti esigibili che gli immigrati rivendicano, ma anche dell’autogenerazione delle diaspore, che generano un surplus naturale significativo, ormai scomparso tra “quelli di qui”.
Inoltre, l’immigrazione è una quantità non scalabile, la cui qualità cambia con la quantità. Da qui il concetto di massa critica, oltre la quale ciò che era possibile al di sotto di essa non lo è più. I paesi terzi in cui tutte queste soglie vengono superate sono una vetrina di ciò che ci aspetta. Troviamo echi dei paesi d’origine, nessuno dei quali è democratico, sviluppato o egualitario: inciviltà, xenofobia, intolleranza, banditismo, omertà, consanguineità, corruzione, clientelismo, ecc. Questo sconvolgimento, predetto dall’aritmetica, non può avvenire senza convulsioni.
Ci sono anche dei “ritardi” nel processo. Ma questi sono, ahimè, solo espedienti temporanei volti a fare un passo indietro per poi fare un balzo in avanti. Il primo è l’elusione, tra vecchio e nuovo. Tutti votano con i piedi e si raggruppano per affinità, a dimostrazione del fatto che ci apprezziamo a vicenda solo a metà: “quelli in alto” nelle zone verdi dei centri città, “quelli in basso” nella Francia periferica, “quelli di altrove” nelle periferie. Oltre a questa elusione primaria, ci sono fughe di notizie secondarie: la corsa all’istruzione privata, l’espatrio dei giovani laureati, l’aliyah degli ebrei francesi. Ma il vaso è già traboccante: lo dimostrano la distribuzione autoritaria dei richiedenti asilo nelle aree rurali e la costruzione obbligatoria di alloggi popolari nelle città che non li vogliono.
Poi arrivano i piccoli accordi per comprare la pace sociale, o persino guadagni elettorali, senza scuotere la palma da cocco.
Queste concessioni unilaterali vengono praticate a tutti i livelli, dalla politica urbana a livello nazionale ai compromessi municipali con consulenti poco raccomandabili (imam, delinquenti, Grande Fratello). Viene in mente la frase di du Barry: “Ancora un minuto, signor boia!”. Un altro aspetto: le due minoranze attive che probabilmente coordineranno i “ribelli” – trafficanti e Fratelli Musulmani – non hanno alcun interesse a ribaltare immediatamente la situazione. I primi sono nella fase embrionale della cartellizzazione, con l’ambizione di eliminare la concorrenza e sfruttare la gallina dalle uova d’oro. I secondi preferiscono un entrismo discreto per imporre gradualmente i codici della loro religione, contando sull’inesorabile legge dei numeri per il trionfo.
Il più grande ostacolo alla belligeranza rimane il comportamento degli “indigeni del basso”. Tutti ammirano la loro moderazione (“non avrete il nostro odio”). Certamente, i loro crescenti voti a favore del “controllo dei flussi” dimostrano che la loro immaginazione rimane nazionale. Ma la loro scelta al voto non è accompagnata da manifestazioni di piazza, sebbene rappresentino la via più breve per farsi sentire. Il peso della popolazione anziana chiaramente non incoraggia azioni o cambi di direzione. Ma, soprattutto, la società nel suo complesso vive sotto i sedativi obbligatori richiesti per curare l’anarchia individualista e l’aggressività multiculturale.
Citiamo, senza un ordine particolare: la ricerca del benessere attraverso il consumo, come unico obiettivo comune; la manipolazione di emozioni paralizzanti, come la paura (epidemie, Russia, clima) e il senso di colpa (Vichy, colonialismo, razzismo); e l’uso diffuso dell’intrattenimento. Ancor di più, l’individuo-re, ripiegato su se stesso, attribuisce un valore eccessivo alla sua vita biologica, un’opportunità unica da non perdere, di fronte ad alieni (terroristi, delinquenti) i cui valori “eroici” gli sono diventati illeggibili.
Per questo le manifestazioni che si concede – marce silenziose, candele, peluche – proclamano soprattutto il suo rifiuto di combattere. Il nostro orgoglio civile è reprimere i nostri impulsi. Un atteggiamento lodevole e onorevole. Ma allora, non lamentiamoci se ci troviamo di fronte al dissenso, incoraggiati dalla nostra passività.
Lei parla di un fiume sotterraneo che avanza, ma che erutta in superficie. Può dirci qualcosa di più a riguardo? La nostra prognosi vitale è a rischio, come aveva previsto nel 2023?
Dobbiamo partire dalla situazione attuale!
1.500 porzioni di territorio, a “pelle di leopardo”, sfuggono al pieno controllo delle autorità pubbliche, e la pressione sociale che vi viene esercitata è contraria ai nostri modi di vivere e di pensare. In queste contro-società enclave, una guerriglia a bassa intensità si sta diffondendo contro ciò che resta dello Stato nazionale e, più in generale, dell’influenza francese (vigili del fuoco, medici, insegnanti, arbitri). Un pessimista noterebbe addirittura il ritorno, in forma minore, delle insurrezioni coloniali: stazioni di polizia-fortini, posti di blocco, “incursioni e fughe” reciproche, cantine-santuari, contrasto giorno/notte, lotta per la “conquista dei cuori”. Manca solo – e non è poco – la struttura del FLN algerino.
Il timore più plausibile è che questo ecosistema aumenti in portata, frequenza e intensità, a causa della combinazione di numeri crescenti e di una distanza culturale sempre maggiore. Il modello che preferisco, come avrete capito, è quello delle placche tettoniche, messe in moto dalla coppia infernale di individualismo e immigrazione, il cui attrito produce scintille che alla fine incendiano la pianura. Su questa base, nulla, purtroppo, impedisce che vengano superate, una dopo l’altra, soglie critiche irreversibili: l’uso di armi letali, le penetrazioni nella “zona verde”, la dislocazione delle forze convenzionali, l’ingresso dell’esercito, la presa di ostaggi, ecc.
Tra i fenomeni destabilizzanti, un trattamento speciale va riservato al terrorismo, naturalmente, ma ancor di più ai saccheggi, a cui i giovani delle periferie si sono già abbandonati: nulla è più facile, contagioso ed efficace per azzerare la fiducia sociale, scatenare gli istinti e mettere in ginocchio una società, ben oltre i crimini stessi. E ora, per giunta, sono emersi i droni, un’innovazione sbalorditiva che mette alla portata di tutti capacità incalcolabili di diffusione del terrore.
Sullo sfondo, dobbiamo anche tenere presente che viviamo sul filo del rasoio, a causa della nostra dipendenza dalle reti, che sono catalizzatori del caos. I social media stanno riportando in primo piano la psicologia delle masse, aumentando il potenziale di assembramenti di massa e innescando spirali di contaminazione tanto improvvise quanto incontrollabili. Per quanto riguarda i servizi “vitali” – elettricità, acqua, gas, trasporti, comunicazioni – la loro interruzione ci riporterebbe a uno stato di natura, dominato dai meno inibiti, e possiamo immaginare chi sarebbero. Su scala nazionale, questo scenario, che richiede un alto grado di pianificazione ed esecuzione, è fantascienza e ci allontana dai quartieri per avvicinarci ad attivisti indigeni, o persino a servizi stranieri. Tuttavia, non possiamo escludere applicazioni locali, che andrebbero a beneficio degli elementi incontrollati qui discussi.
Per quanto riguarda i fattori scatenanti, l’elenco è più lungo di quanto si possa pensare: oltre ai soliti attacchi su larga scala, agli “sbagli” e agli scontri tra comunità, ci sono situazioni inaspettate, come un’uscita improvvisa dall’euro, che innesca una corsa agli sportelli bancari e, per estensione, destabilizza le strade, dando il via ad abusi.
Indubbiamente, nessuna di queste “ragionevoli fantasie” si materializzerà nel prossimo futuro. Continueremo senza dubbio a vivere alle pendici dell’Etna, le cui proiezioni non colpiranno tutti, sempre, ma sempre più persone, sempre più spesso. In ogni caso, siate certi che la terziarizzazione della nostra società non avverrà senza significativi danni collaterali, anche fisici. Persino danni potenzialmente letali? A lunghissimo termine, purtroppo, possiamo solo esprimere opinioni, date le dinamiche demografiche, al di fuori delle quali, bisogna ammetterlo, tutto è solo chiacchiere, più o meno informate.
È possibile invertire questo declino radicale? È possibile una ripresa? Come?
Contrariamente alle apparenze, questa è la domanda più facile, perché le risposte esistono e sono diventate di uso comune. Ma sono anche inevitabilmente feroci, in proporzione al tempo e al terreno persi. Se rimane una piccola possibilità di spegnere la miccia, non c’è altra strada che un radicalismo spietato.
Ovvero, contemporaneamente, ridurre gli afflussi alla loro espressione più semplice, riprendere il controllo delle diaspore e ripristinare l’ordine pubblico. Ciò è del tutto possibile, ma richiede un’enorme spinta di volontà. Innanzitutto, adottare immediatamente misure operative in materia di immigrazione (congelamento delle regolarizzazioni, drastica riduzione delle naturalizzazioni, riduzione del numero di visti da paesi ad alto rischio). Poi, aggirare il preambolo costituzionale, essenziale per ripristinare i diritti collettivi e autonomi del popolo francese.
Infine, in questo contesto, occorre utilizzare tutti i mezzi disponibili: esternalizzare le domande di asilo, azzerare l’attrattiva sociale e medica della Francia, sgonfiare le diaspore intervenendo sui permessi di soggiorno, rafforzare la laicità estendendola alla sfera pubblica. Più in generale, affrontare il virus mortale dell’impunità attraverso una riforma penale senza remore, che tenga conto almeno tanto delle pene, così come vengono pronunciate e applicate, quanto, in caso di recidiva, del loro ammontare. Un’impresa erculea, che, stando così le cose, ho la massima difficoltà a immaginare attuabile.
Ma, al contrario, posso assicurare ai lettori che, se continuiamo a cedere al pregiudizio della normalità, rimandando a più tardi ciò che avrebbe dovuto essere fatto ieri, non stiamo preparando un futuro migliore per i nostri figli.
La newsletter di Giulio Meotti è uno spazio vivo curato ogni giorno da un giornalista che, in solitaria, prova a raccontarci cosa sia diventato e dove stia andando il nostro Occidente. Uno spazio unico dove tenere in allenamento lo spirito critico e garantire diritto di cittadinanza a informazioni “vietate” ai lettori italiani (per codardia e paura editoriale).
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