Riprendiamo l'articolo di Giulio Meotti, dalla sua newsletter, dal titolo: "Dieci anni dopo, i terroristi del Bataclan stanno vincendo".

Giulio Meotti

Dagli atti del processo.
Stade de France.
“Contro il cancello dello stadio troviamo un osso. Pezzi di carne umana, una mano. Poi quello che potrebbe sembrare un braccio e brandelli di carne. In rue de l’Olympisme, un dito”. Poi la foto di Manuel Colaço Dias, la prima vittima degli attentati. Il suo corpo ha “undici noci di metallo, inclusa una nel polmone che ha portato alla morte”.
Ci si sposta a Le Carillon e Le Petit Cambodge, i due ristoranti in centro.
“Non è una scena del crimine, è una scena di guerra”. I corpi sul marciapiede, troppo numerosi, si fondono in un “ammasso indistinto”. Su alcune vittime saranno ritrovati i documenti di altre. “Questo tipo di errore è dovuto al fatto che le persone cadevano l’una sull’altra. L’unica cosa che si sentiva erano i cellulari delle vittime che squillavano”. Centinaia i bossoli di kalashnikov. “Abbiamo 36 colpi su una vittima, 22 su un’altra, 14 su una terza”.
Infine, il Bataclan.
Un mare di sangue rosso senza vita. 90 morti in 32 minuti. 71 all’interno del Bataclan, 44 dei quali ai piedi del palco. Altri all’esterno.

Sono le 22:15. La BRI (Brigata di Intervento Rapido) entra al Bataclan. “C’erano 500 o 600 persone a terra, nessun rumore, solo gemiti”, ricorda Jay, lo sguardo fisso nel vuoto. I riflettori del palco accesi inondano la stanza di una luce bianca e cruda. “L’immagine era surreale. È stata la prima scena che abbiamo visto”. Poi Kader: “È atroce. È una fossa comune. L’immagine che avevo era quella di una scena di guerra. Come quelle che si vedono in TV o nei libri di storia. Ho pensato all’Olocausto... Tutti quei corpi ammucchiati uno sopra l’altro”.
E ancora: “crani frantumati”, “volti irriconoscibili” e “frammenti di denti e ossa”.

L’ultima foto al Bataclan prima della strage
L’ufficiale di polizia giudiziaria Patrick: “Era come la zona di un incidente aereo. Camminiamo nel sangue coagulato, pezzi di denti, telefoni che vibrano, borse a mano, zaini. Corpi, corpi , corpi. Corpi aggrovigliati l’uno all’altro”. Le foto di un bagno, il soffitto è stato sfondato da chi cercava di rifugiarsi al piano superiore. “La fossa è la zona più macabra, la più sanguinosa, con 41 vittime”. Tra queste, “volti irriconoscibili, denti esplosi”.
Nei servizi igienici vicino alla fossa, grandi strisce di sangue indicano che le vittime hanno cercato di rifugiarsi lì. “Il blu verde delle piastrelle è scomparso di rosso sangue. Un’atmosfera cupa, fredda, c’era una luce bianca che rendeva tutto pallido e che dava l’aspetto di una cattedrale”.

La “fossa” del Bataclan
Guillaume Valette non aveva mai ritrovato la pace interiore. Sopravvissuto al Bataclan, si è impiccato nella sua stanza della clinica psichiatrica dove era ricoverato. Aveva 31 anni. Come Fred Dewilde, medico e disegnatore, che non ha avuto il tempo di scappare e nove anni dopo si è ucciso.
Oggi sono dieci anni da quell’evento spartiacque della storia occidentale. Ogni generazione, a modo suo, eredita un trauma. Il Bataclan è il trauma degli europei che hanno capito.
E dieci anni dopo, chi sta vincendo?
Secondo Jean Szlamowicz, i terroristi.
“La strategia del terrorismo islamico si sviluppa sempre in due fasi. In primo luogo, la violenza stessa costituisce un guadagno iniziale, derivante dal puro piacere di scatenarla. Poi, c’è un guadagno a lungo termine: l’intimidazione, la paura e la dimostrazione di potere che genera. Una volta interiorizzata la possibilità della violenza, si può esitare a scatenarla. L’appeasement, e quindi la rinuncia al potere, è attualmente la risposta politica al rischio della violenza. Ciò equivale a un discorso di paura e sottomissione e rivela l’incapacità di esercitare la forza di fronte alla forza. Come segno, l’irruzione della violenza in una società pacifica e attenta alla tranquillità è profondamente destabilizzante. Provoca diverse reazioni (negazione, ansia), ma soprattutto solleva la questione della sua irruzione come problema sociale che sfida l’intera società. Come un segnale, l’atto terroristico entra nel dibattito pubblico e, attraverso il discorso che genera – che si tratti di scuse, di condanna o di analisi – inizia già a normalizzare i problemi che solleva. Sappiamo quanto gli ideologi islamisti siano abili nel rivoltare contro di noi il nostro modo di pensare, quello dei Diritti Umani, che ha portato all’auto-vittimizzazione, giustificando un’emarginazione sempre più incoraggiata dalle voci dei rappresentanti religiosi, che dipingevano coloro che rifiutavano l’integrazione sulla base di valori e principi repubblicani come vittime di un sistema accusato di intolleranza. Non li abbiamo mai visti scendere in piazza per gridare ‘abbasso l’islamismo’. A questa realtà si aggiungeva l’inaspettato sostegno interno di una parte intellettuale e politica della nostra società, che vedeva nel passato coloniale la responsabilità di tutti i mali. Invece di un chiaro e massiccio meccanismo di difesa, dopo il 13 novembre si è verificata una diluizione discorsiva, in cui alcune correnti di opinione hanno minimizzato la violenza e sono riuscite a capovolgere l’aggressione attraverso una narrazione in cui la vittima diventa l’autore e l’islamismo diventa il risultato dell’islamofobia. L’Islam politico vede ora un’opportunità per infiltrarsi nella macchina del potere democratico attraverso le elezioni, per portare avanti il suo programma. L’ansia può essere placata dalla codardia: lo slogan ‘non avrete il mio odio’ permette di fingere di scegliere una strada moralmente superiore, sovrana e apparentemente coraggiosamente ribelle. In realtà, è una negazione che permette di evitare di confrontarsi con la realtà, fingendo che l’elusione sia un punto di forza. Abbiamo assistito a pochissimi movimenti che proclamassero un’identità specifica, a parte l’affermazione consumistica secondo cui dobbiamo continuare a goderci le terrazze dei caffè”.
Quindi in un certo senso ha ragione François Hollande, quando oggi dice: “Il terrorismo è un veleno lento; i suoi effetti si manifestano molto tempo dopo gli atti orribili che genera”.
Dieci anni dopo gli attentati di Parigi, spiega Gilles Kepel a Le Figaro, “stanno vincendo la battaglia culturale”.
Hanno vinto non nel modo che speravano i terroristi. Non con la conquista territoriale. Ma in un modo più sottile, più velenoso, più duraturo. Non hanno vinto la guerra, ma hanno cambiato il campo di battaglia: non più le strade, ma le coscienze.
Osservando le migliaia di piazze in questi due anni scese a manifestare a favore del terrorismo islamico, chi sta vincendo?
Un insegnante su due oggi si censura. Chi sta vincendo?
Dieci anni dopo il Bataclan, in Francia ci sono 120 persone sotto la protezione della polizia a causa delle minacce islamiste. Chi sta vincendo?
I terroristi che hanno colpito Parigi hanno usato il welfare europeo per finanziare gli attacchi. In pratica abbiamo pagato per quel massacro.
Il principale autore sopravvissuto dell’attacco, Salah Abdeslam, oggi si trova a Fleury-Mérogis, il carcere di massima sicurezza in Francia. Abbonamento a canali satellitari, posta e visite, libri della biblioteca, due ore d’aria giornaliere e una palestra privata. Un trattamento che i mafiosi al 41bis si sognano. Le Point rivela che anche un vogatore è stato installato in una cella adiacente a quella di Abdeslam per farlo allenare. Libération, non io, definisce la sua prigionia un “club vacanze”. E se non bastasse, lo stato francese è stato condannato da un giudice a risarcire Abdeslam per una videosorveglianza illegale durante la detenzione. La sua famiglia a Molenbeek, quartiere islamico di Bruxelles, è stata riallocata dalle autorità in un’altra casa popolare.
Chi sta vincendo?
“Bataclan non è più il nome di una sala da concerto, ma quello di una battaglia mitica, come la battaglia di Badr, la prima battaglia vittoriosa di Maometto contro gli idolatri della Mecca” disse Boualem Sansal a Le Figaro tre anni dopo gli attentati. “Il povero Hollande non capì che doveva stroncare sul nascere il simbolismo di questo atto. Con i suoi lamenti sotto la pioggia, diede alla Francia l’immagine di una nazione sconfitta”.


Il grande Sansal, liberato ieri grazie alla mediazione tedesca, ha scritto il romanzo Il treno di Erlingen ispirandosi proprio agli attentati al Bataclan di Parigi (i grandi romanziere vanno letti, oltre che difesi quando finiscono in galera).
Sansal racconta di Ute Von Ebert, l’erede di un impero industriale. Vive a Erlingen, roccaforte dell’alta borghesia tedesca, archetipo della fantasia mitteleuropea, tipica città tedesca pulita e prospera. Nelle lettere alla figlia Hannah che si è trasferita a Londra, Ute racconta la sua vita in città, assediata da un nemico sconosciuto che lei chiama i “servi”, perché hanno deciso di sottomettersi alla legge divina. La popolazione di Erlingen sta aspettando un treno per l’evacuazione. Ma non arriva. I leader in città offrono messaggi rassicuranti, in realtà pensano soltanto a organizzare la fuga. Terminerà la sua esistenza a Saint-Denis, “il territorio dei selvaggi”.
Sansal ci parla di un mondo che crolla e si aggrappa alle ultime certezze materiali:
“La sicurezza sociale, le ferie pagate e tutto il resto, è il cancro delle nazioni civili, ci rende deboli. La libertà e la pace ci hanno reso poveri diavoli spaventati, adatti a ogni vigliaccheria, quando l’odio per la vita, la libertà e la pace ha dato al nostro nemico malvagio il gusto dell’eternità e dell’onnipotenza e la determinazione di ottenerli con ogni mezzo. Che tragedia era pensare che la sottomissione sarebbe stata una soluzione soddisfacente per noi”.
Di oggi la notizia che (come altre città tedesche) Magdeburgo, proprio dove un anno fa ci fu un attentato terribile, ha cancellato il suo mercatino di Natale. Ecco la motivazione: “Se un mercatino di Natale è considerato un potenziale bersaglio terroristico, allora ogni festa cittadina diventa una fonte di minaccia. Prevenire gli atti terroristici è responsabilità dello stato e della polizia, non dei comuni”.
Davvero, senza retorica mi chiedo: dieci anni dopo, chi ha vinto?
La newsletter di Giulio Meotti è uno spazio vivo curato ogni giorno da un giornalista che, in solitaria, prova a raccontarci cosa sia diventato e dove stia andando il nostro Occidente. Uno spazio unico dove tenere in allenamento lo spirito critico e garantire diritto di cittadinanza a informazioni “vietate” ai lettori italiani (per codardia e paura editoriale).
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